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Maurizio Casu Musica Personaggi RicordiFabrizio De André – Amico Fragile Potevo chiedervi come si chiama il vostro caneIl mio è un po’ di tempo che si chiama LiberoPotevo assumere un cannibale al giornoPer farmi insegnare la mia distanza dalle stellePotevo attraversare litri e litri di coralloPer raggiungere un posto […]
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Lorena Piras RicordiTorino, 21 settembre 1911
Preg. Sig. Ing. Di Suni
(…) mi faccia pervenire delle offerte delle materie di costruzione: pietre, malte, mattoni, ghiaia per calcestruzzo ecc.
Perché ella si sappia regolare Le dico che la palazzina che copre circa 350-400 metri quadrati ha un pianterreno sopraelevato, un primo e secondo piano ed una torre. Lo stile è il fiorentino con bifore e trifore e finestre a pieno centro; la decorazione esterna è semplice ma tutta improntata ai caratteri del tempo. Le decorazioni interne sono di una certa importanza, specialmente per il pian terreno dove si ha un gran salone da ballo, due salotti, il bigliardo, il fumoir, la sala da pranzo, lo studio e la hall che comprende lo scalone a tenaglia. Al primo piano e al secondo piano la decorazione non è così grandiosa.
La saluto distintamente
Firmato: Ing. D. Lopresti
Un anno dopo chi commissionò la costruzione di quella palazzina è davanti al Giudice, interrogato. E risponde:
Nel 1911 ho avuto la disgraziata idea di costruire una casa in Sassari. Dico disgraziata idea perché la somma preventivata è stata triplicata, si arriva quasi al mezzo milione, la casa non è ultimata e ciò non bastasse mi trovo complicato nel processo.
Fermiamoci qui. Una palazzina in costruzione, qualcosa che accade e quel qualcosa che porta a un processo.
Gaspare Arborio Mella di Sant’Elia, nato a Sassari nel 1873 e residente a Rocca San Casciano, possidente, capitano dei RR.CC., sposò nel 1910 Josefina Racca, nata in Argentina nel 1892, agiata. Formatasi presso scuole e collegi francesi e svizzeri, per Josefina ciò che Sassari aveva da offrirle non era abbastanza. Colta, mecenate, amante dei viaggi, della moda e delle feste, insoddisfatta degli edifici con affacci su Piazza Tola, Via Cesare Battisti e Piazzetta Nazario Sauro, Josefina spinse il marito a edificare un nuova residenza. Oggi la conosciamo come Villa Mimosa, in onore alla pianta così tanto amata dalla giovane sposa che un ramo è ritratto insieme a lei in un dipinto esposto alla Pinacoteca Nazionale di Sassari. Sofisticata e altera, nel 1928 Aldo Severi la ritrae, le braccia nude, in un abito da sera di seta cangiante sui toni del pervinca, chissà se frutto delle mani esperte di qualche sarta locale o di una maison parigina. Unico gioiello, oltre a un bottone che richiama il suo fiore preferito, un lungo filo di perle che le va a scivolare sulla mano sinistra, aperta a cucchiaio.
Anche lei interrogata, dirà solo che non aveva nessuna parte nel contratto per la costruzione della villa.
Per scoprire il perché del processo, smettiamo i nostri panni e indossiamo quelli del lettore de La Nuova di centodieci anni fa. Ripercorriamo paragrafo per paragrafo le parole di quei fogli fragili, sette colonne su due pagine e il linguaggio ostentato e smaccato dell’epoca.
Il 7 settembre 1912, tra una puntata del romanzo Traccia di sangue di P. Manetty e due decessi per una malattia ignota che portarono all’isolamento preventivo di trenta persone a Nuraminis, il titolo non lascia niente in sospeso: Il terribile disastro in un villino di Piazza d’Armi. Tre operai morti e nove feriti. Il dolore della cittadinanza.
La notizia- Ieri sera verso le 19.30 si sparse fulmineamente per la città la notizia di una fatale catastrofe avvenuta nel villino che il conte Gaspare Mella di Sant’Elia fa costruire in Piazza d’Armi. Vi lavorano da parecchio tempo una squadra di valenti operai piemontesi e parecchi sassaresi. Dirigeva i lavori l’ing. Di Suni che da parecchi giorni si trova in continente. Capo mastro era il sig. Ettore Bertola, torinese di anni 23.
I primi soccorsi- Appena il fatto avvenne e si conobbe si pensò con la massima sollecitudine ai primi soccorsi. Il primo ad accorrere fu certo Piu, operaio in una fabbrica vicina. Si avvertì subito il piantone del municipio e il personale del nostro ospedale civile.
All’ospedale- Nel piazzale dell’ospedale la folla ingrossa in ogni momento. È un accorrere frettoloso e nervoso di medici che vogliono prestare le loro opere. L’anima cittadina si solleva con un impulso di pietà. Sulla massa compatta e muta degli operai passa come un brivido di terrore. Lo stato dei feriti è gravissimo. È una visione di sangue.
La visione- Lo spettacolo stringe il cuore e non si ha il coraggio di continuare a guardare questo macello umano di carne lacerata e pestata, queste chiazze sanguinose, questo vermiglio sangue che scorre lasciando tracce sui pavimenti, sulle barelle, sul candore della biancheria.
Nel fascicolo le lastre di cartone su cui sono incollate le foto del sopralluogo, a firma Antonio Casteldini, descrivono l’ammasso di tavole spezzate e le travi in bilico, la polvere e il silenzio dopo il boato. A guardarle leggendo la testimonianza di un operaio, impatto visivo ed emotivo si mischiano:
Erano le 19, si era sul punto di terminare il lavoro. Quasi tutti gli operai si trovavano sul ponte intenti a collocare un masso di cemento armato per il cornicione. Il ponte era fatto in questo modo: le tavole posavano su una trave. Una estremità di questa trave posava sul muro, corrispondeva al vano di una finestra cosicchè, non potendo poggiare sul muro fu poggiata su una trave più piccola che si spezzò, dimodochè il ponte, non avendo più sostegno da una parte si inclinò e dall’altra fece leva sul muro, determinando il crollo.
Tre i morti: il torinese ventitreenne Ettore Bertola, il sedicenne torinese Luigi Ferrario e il sassarese quarantasettenne Marcello Brange. Frattura del cranio e conseguente commozione cerebrale, si legge sui certificati del medico dell’Ospedale Civile, il Prof. Nicolò Simula. Per caduta nel disastro edilizio del villino in costruzione del nobile Don Gaspare di Sant’Elia, conclude. L’8 settembre alle 16, con la partecipazione delle autorità, della Cooperativa Agricola Tissese, dell’Unione Popolare, degli istituti pii e delle associazioni dei lavoratori, i loro funerali. C’erano la banda cittadina, palme con i colori del Comune sulle bare, ceri e corone, sottolinea il cronista.
Nove, invece, tra sassaresi e torinesi, i feriti: quattordici anni il muratorino più giovane, quaranta il più vecchio. Tutti intervistati. In rassegna. Uno via l’altro. Tra medici, medicazioni, e suore pallide raccontano le loro prognosi: chi quaranta giorni per una frattura all’avambraccio, chi dieci giorni per una ferita alla gamba, chi rantola per la gravità delle ferite e a parlare non ce la fa.
Sin qui la cronaca. Gli atti, invece, in pagine e pagine di tecnicismi parlano della perizia sulla trave spezzata e degli accertamenti per verificare se gli operai fossero assicurati. Cosa che non erano: a tal uopo (noi RR.CC.) ci siamo recati all’agenzia locale della Cassa Nazionale sita in via Mercato 3, ove l’avvocato Pazzi Ottavio, gerente tale ufficio, ci ha dichiarato che l’assicurazione degli operai addetti a suddetto lavoro era scaduta senza essere stata rinnovata e che dai suoi registri figura come imprenditore di tali lavori Bertola Ettore, deceduto.
Ma come? Non era l’ing. Lopresti, il progettista, direttore generale e rappresentante del Mella e l’ing. Di Suni appaltatore con facoltà di subappaltare, ma comunque unico responsabile dei lavori?, come Don Gaspare dichiarò al Giudice. In teoria sì. Ma in pratica, considerate le prolungate assenze, il Di Suni si avvalse del Bertola, semplice capomastro, come prestanome che si interessava anche di paghe, amministrazione e acquisti.
Quasi cinque mesi, per la perizia sulla trave spezzata. Spezzata perché di scarsa qualità: perché la sua resistenza era profondamente minata, avendo il tarlo esercitato la sua opera distuggitrice nelle fibre legnose, stato di dissolvimento che non appariva manifesto in tutta la sua gravità. Perché anche se la tarlatura non era evidente, la presenza di un grosso nodo avrebbe però dovuto far venire almeno un dubbio sulla qualità e sulla resistenza della trave. Dubbio che avrebbe dovuto portare all’esame del nodo. Cosa che non fu.
Colpa del defunto Bertola, dunque, a cui Di Suni aveva delegato i lavori? Bertola, che non aveva competenze tecniche e a cui comunque non spettava l’obbligo della vigilanza? Così come non spettava a Lopresti?
E infatti sarebbe troppo comoda teoria se si ammettesse che un ingengnere assuntore di una costruzione ingente pur continuando a godere degli utili potesse spogliarsi dei rischi per aver affidato a uno che tecnicamente non può sostituirlo una porzione qualunque dell’opera, scrive il Giudice.
Contumaci l’ing. Di Suni, Don Gaspare e sua moglie e imputati Paliaccio di Suni Giulio e Lopresti Seminerio Decenzio per tre omicidi colposi e lesioni personali per negligenza, imprudenza e inosservanza del regolamento sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, e gli stessi Di Suni e Lo Presti nonché Arborio Mella di Sant’Elia Gaspare e Racca Josefina per mancata assicurazione degli operai, per aver dichiarato l’impiego di dodici operai mentre ne erano impiegati da ventiquattro a ventisette, per omessa denuncia dell’inizio dei lavori, il 21 maggio 1915 la sentenza: condanna a dieci mesi per l’ing. Di Suni, assoluzione per gli altri.
Appellante, il 28 dicembre 1915, l’ing. Di Suni è assolto per insufficienza di prove dall’accusa di omicidio colposo e per amnistia dalle contravvenzioni.
Per le fonti si ringrazia l’Archivio di Stato di Sassari, la Biblioteca Comunale di Sassari e il Prof. Alessandro Ponzeletti, storico dell’arte.
Per l’utilizzo delle immagini si ringrazia l’Archivio di Stato di Sassari e il Prof. Alessandro Ponzeletti
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Giuliano Sale si racconta in questa intervista di Benito Olmeo. Gli uomini che passano per essere i più duri sono in realtà molto più sensibili di quelli di cui si vanta sensibilità espansiva. Essi si fanno duri perché la loro sensibilità, essendo vera, li fa […]
Arte Benito Olmeo Personaggi PitturaGiuliano Sale si racconta in questa intervista di Benito Olmeo.
Gli uomini che passano per essere i più duri sono in realtà molto più sensibili di quelli di cui si vanta sensibilità espansiva. Essi si fanno duri perché la loro sensibilità, essendo vera, li fa soffrire. – Benjamin Constant –
Quando e come nasce la tua passione per l’Arte?
La mia passione, o meglio la mia curiosità nei confronti del disegno nasce in giovanissima età. Da bambino una delle poche cose che riusciva a contenere la mia grande irrequietezza era proprio quella di fermarmi e mettermi a disegnare animali. A quell’età ero, e forse lo sono tuttora, un grande appassionato di documentari sugli animali nei loro habitat e in particolare quelli sui felini che sbranavano vive le loro prede. Mi piaceva disegnare queste scene di lotta tra animali.
Mi preme ricordare una figura artistica che penso non possa essere trascurata in questa intervista, Il Maestro Gaetano Brundu (Cagliari 1936-2015) uno dei fondatori (tra le tante altre attività) del rivoluzionario Studio 58. Cos’ha significato per te questa figura sia a livello umano, che artistico?
Gaetano Brundu, come giustamente ricordi tu, credo sia stata una figura molto importante per me e per altri che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, ma soprattutto capirlo. Artista prima, e insegnante dopo, decisamente fuori dalle righe e dagli schemi. Ciò che di lui ricordo con più simpatia è quella sua bizzarra abitudine di portare sempre con sé un sacchetto di plastica che conteneva giornali o altro di chissà cosa misterioso. Il suo approccio all’insegnamento era diverso, tendeva a rapportarsi a noi, non come alunni, ma come potenziali artisti, e quello che ci lasciava lo realizzavi magari dopo ore o giorni, per questo l’ho ritenuto un apprendimento sempre più profondo.
Le sue lezioni erano certo di programma ministeriale ma portava ad ogni nostro incontro riviste d’arte nazionali e internazionali che ci faceva sfogliare. Questo, che all’epoca internet era cosa perlopiù sconosciuta, mi è servita perché era una possibilità di vedere cosa c’era nel mondo dell’Arte.
Amico anche al di fuori del liceo, Gaetano lo incontravi in giro per Cagliari vecchia o alle inaugurazioni delle mostre sempre con il suo amato sacchetto e con la sua espressione timida e inadeguata al mondo che lo circondava e ci rimanevi ore a parlare di vita e arte.
Sardegna: quanto ha influito nel tuo percorso formativo vivere in un’ isola che ti ha visto nascere a livello artistico?
Non saprei quanto abbia influito onestamente. Non mi sono mai sentito “artista sardo” nel senso che lavoravo o sentivo di dover raccontare la mia terra nel mio operato artistico. Dipingevo e basta, senza legame alcuno al territorio e alle sue tradizioni. Ovviamente Cagliari mi ha dato i natali, ho fatto la mia prima mostra in spazi a pagamento come tantissimi miei coetanei al periodo e poi, subito dopo mi ha preso sotto la sua ala “protettrice” Wanda Nazzari con il suo Centro Culturale “Man Ray” di Castello e da lì, via, ho iniziato a partecipare ad eventi artistici culturali e mostre all’interno del centro culturale e fuori, per tutta la Sardegna.
Dopo anni di lavoro ovunque e con chiunque nella mia terra, l’sola iniziava a non bastare piu, quindi partecipando a vari concorsi nazionali ho avuto la fortuna di essere selezionato come finalista ed esporre le mie opere al di fuori dell’isola. Con tanta determinazione e sicuramente altrettanta fortuna sono arrivato ad oggi.
Milano: smog, caos, deturpazione, bellezza. Sembra la cornice ideale per il tuo modo di dipingere e vedere il mondo prendere forma nei tuoi lavori.
Milano sicuramente è stata ed è importante per il mio percorso, città accogliente e brutale allo stesso tempo, Milano ti offre tante scelte e opportunità e allo stesso tempo ti mangia le budella. Dà e prende. Sicuramente in questa città ancora oggi si ha la possibilità di vivere n un ambiente ricco di eventi artistici di alta qualità, a livello nazionale e internazionale. Si respira quell’aria frizzantina del “qualcosa può succedere”. Questa cornice ha sicuramente influenzato, insieme ai numerosi viaggi o esperienze lavorative internazionali, il mio lavoro. Viaggiare e vedere cosa ti circonda crea chi sei e cosa fai, c’è poco da girarci intorno.
La tua sensibilità artistica è la prima cosa che impressiona vedendo i tuoi lavori. Tante volte la pittura è fatta di troppi paragoni o critica. Sei d’accordo?
Ti risponderò onestamente, senza fronzoli o giri di parole: sono tutte puttanate. Pittura è cosa importante, il resto è un contorno che cambia, si modifica ed evolve, o involve, alla velocità della luce.
Da tanti anni fai parte della galleria di Milano Antonio Colombo Arte Contemporanea e la tua prima mostra Biedermeier, l’umanità al crepuscolo la inauguri proprio nei loro spazi, cosa ha significato per te questo momento a livello artistico
Ha significato il giusto riconoscimento, ho lavorato tanto con altrettanto impegno, sono umile ma lucido, diciamo che me lo meritavo. Fu quella mostra curata da Ivan Quaroni, critico e amico della prima ora milanese e, anche per lui, fu la prima mostra personale che curò alla Galleria di Antonio Colombo.
Una tua frase affermazione durante un’intervista mi ha colpito: “provo disgusto per un’arte che punta alla gradevolezza d’impatto”. Mi motivi questa tua affermazione?
Lo penso ancora adesso, l’arte non deve abbellire il muro o abbinarsi perfettamente al divano. Chi compra arte, in questo caso arte contemporanea, deve spendere per avere in cambio un “pugno in faccia”, qualcosa che ti colpisce, che ti muove varie emozioni che son diverse dall’appagamento consumista del comprare un semplice oggetto di design. Perché è quel “pugno in faccia” che può scongiurare quel cortocircuito tra la mercificazione dell’arte, con la creazione di prodotti artistici creati ad hoc per un mercato, e un mercato stesso che ha la velleità di “culturizzarsi”.
A livello artistico sei molto libero. Non fai distinzione tra diverse correnti, classiche o contemporanea, ma negli ultimi anni il tuo lavoro si è focalizzato nel mettere in scena la nostra società, le tue visioni del quotidiano prendono forma nei tuoi lavori; vizi, caos, paranoie. Loro abitano i tuoi lavori e raccontano una società malata
Esattamente. Da vari anni ormai mi sono liberato di leggi immaginarie o presunte dove un artista deve per forza essere coerente con se stesso o al suo percorso artistico e altre puttanate simili. Adesso, più di prima, penso di essere libero di lavorare come preferisco, assemblando classicità con pittura più espressionista, per rimescolare ancora aggiungendo elementi legati al segno o alla street art. Rappresento quello che mi sta intorno, senza pensarci troppo, racconto la mia vita, i miei vizi, le mie paranoie e se questi raccontano di una società malata o inquietante, beh, è la realtà dei fatti.
In questo momento storico di difficoltà sociale, con le relazioni ridotte al minimo, com’è cambiato il tuo modo di vedere/vivere la quotidianità e l’arte in senso stretto?
Non è cambiato molto, onestamente. Almeno, per quello che riguarda l’arte e il lavoro ho sempre operato in una situazione di “lockdown fisico”, nel mio studio in solitudine, senza interferenze esterne. Non ho mai amato residenze o cose simili, quindi tutto è rimasto intatto. Per il resto, la quotidianità è diventata alienante e stressante a livelli osceni, non che prima fossi particolarmente mondano, ma manca poter andare ad un museo o ad una inaugurazione, ma soprattutto manca sedersi al bar con un bel negroni. Quello sì, manca seriamente.
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Antonio Marras: «Dentro di me tracce, trame, ricordi, memorie di popoli che vogliono prepotentemente ancora vivere» «Amo la contaminazione, la variazione, e penso che solo dalle relazioni fra le arti possano nascere strade nuove. Io, poi, ho la fortuna di fare il lavoro che, per eccellenza, mi […]
Arte Attualità Luciana Satta Personaggi«Amo la contaminazione, la variazione, e penso che solo dalle relazioni fra le arti possano nascere strade nuove. Io, poi, ho la fortuna di fare il lavoro che, per eccellenza, mi permette le commistioni più impensate. Dalla moda non faccio che sconfinare in altri ambiti. Non faccio alcuna distinzione né ho alcun pregiudizio e una delle mie caratteristiche è proprio il mescolare, mettere insieme, invadere i diversi campi artistici per poi scoprirne gli effetti, le conseguenze, i risultati».
“Non riuscivo a leggere, solo i disegni, la fotografia e la poesia mi facevano respirare”. Come era Antonio Marras da bambino?
Un bambino insicuro, ombroso e meditabondo. Sicuramente affetto da sindrome di dislessia non riconosciuta. Torturato da un maestro burbero, anaffettivo, manesco e completamente disinteressato all’insegnamento. Trascorrevo tutte le ore scolastiche con l’incubo di essere interrogato o comunque chiamato in causa e non vedevo l’ora che finisse la scuola. Ma non finiva qui, perché a casa non potevo lamentarmi (non erano i tempi e poi mio padre era amico del maestro) e c’erano i compiti infiniti da svolgere. Mi ricordo che mia mamma mi mandava a ripetizione dalla signorina Vittorianna, che abitava nel nostro palazzo, al piano superiore, e io facevo quelle scale con una lentezza esasperante cercando di allontanare ancora per un po’ il momento di leggere a voce alta o di scrivere. Mi sono riconciliato con la parola scritta solo molto più tardi, con la poesia. Breve, efficace e determinata.
Suo padre aveva un negozio di tessuti, fu il primo a portare Fiorucci in Sardegna negli anni Settanta. Cosa porta con sé antonio Marras di questo insegnamento? Che ricordo ha di suo padre?
Fin da bambino ho frequentato “les botigues”, i negozi storici che mio padre e mio zio avevano nel centro storico di Alghero, familiarizzando con stoffe e tessuti di ogni genere. Ho iniziato a lavorare con mio padre, ad occuparmi dei negozi, con i contrasti “tipici” tra un padre e un figlio che svolgono la stessa attività. Uno con l’esperienza e il vissuto e l’altro con l’entusiasmo e un po’ di arroganza. Ma mio padre incuteva rispetto, soprattutto. Mio padre comprava i tessuti, di cui ancora conservo centinaia di rotoli, e li rivendeva a sarte oppure a clienti che poi metteva in contatto con le sarte.
Poi cambiò il tipo di negozio trasformandolo in una delle prime boutiques della città. Ricordo molto bene il mio primo viaggio, avevo tredici anni e a giugno, appena finite le lezioni, mio padre mi portò con lui a Buccinasco, dove c’erano le sedi di Fiorucci, una specie di hangar, un capannone enorme, con pareti di bracciali infilati in una sorta di rastrelliera, centinaia e centinaia di bracciali che venivano dall’Uganda. C’erano, accatastati, secchi di latta, che arrivavano dall’India… mille cose. Oggetti, capi d’abbigliamento, accessori, quaderni, ombrelli, soprammobili, fotografie, adesivi, animali di plastica che raccoglieva nei suoi viaggi per tutto il mondo. Mio padre era molto “avanti”, molto aperto alle novità e il suo negozio, nel tempo, era diventato un punto di riferimento per tutta la Sardegna.
Il 2011 è l’anno della svolta: Antonio Marras viene chiamato a esporre alla Biennale d’Arte di Venezia. Nel 2016 gli viene dedicata una retrospettiva alla Triennale di Milano “Nulla dies sine linea”, dalla citazione di Plinio. Che ricordi ha di quegli anni?
Non è mia abitudine voltarmi a guardare il passato. Quando una qualsiasi cosa è finita, per me, non esiste più. Sono talmente coinvolto nel presente con milleseicento cose da fare contemporaneamente che non ho proprio tempo per le considerazioni su ciò che è stato. E’ certo che l’esperienza di Venezia del 2011 e la Laurea ad honorem per Arti visive che ho ricevuto nel 2013 dall’Accademia di Brera mi hanno dato grande energia e un po’ di quella sicurezza che mi ha convinto ad esporre i miei lavori in Triennale. La mostra è stata quasi un momento di arrivo, un punto che mi ha consentito di far convergere tutti i miei lavori di trent’anni. È stata soprattutto una retrospettiva di tanti lavori rivisitati e tanti inediti.
Opere datate dai primi anni della mia attività ad oggi sono state esposte durante tutto il percorso della mostra. Si tratta di 1200 metri quadri completamente invasi di istallazioni, quadri e opere miste. È stato naturale fare riferimento alle due grandi artiste con le quali ho collaborato per TRAMA DOPPIA, la rassegna a quattro mani che ho tenuto ad Alghero dal 2003 al 2007. Maria Lai è stata di fondamentale importanza. Lei è stata a casa mia nel 2003 per tutta la durata della preparazione della mostra LLENZOLS DE AQUA e mi ha consegnato le chiavi di una stanza segreta.A Carol Rama mi lega una profonda dedizione e passione confluita nella mostra ad Alghero NOI FACCIAMO LORO GUARDANO, nel 2006. L’ho conosciuta a Torino nella sua casa meravigliosa e lei e la sua magica treccia non finiranno mai di agitarsi nella mia testa. In mostra ho quindi esposto dei miei lavori ispirati alla figura delle due grandi artiste.
Artiste determinanti, decisive, fondamentali e essenziali per tutto il mio percorso.
La mostra alla Triennale è stata una prova ciclopica che ho affrontato da incosciente, con terrore, umiltà e dedizione. Dietro c’è un lavoro folle da disegnatore seriale e il lavoro di installazioni frutto di collaborazioni ormai storiche e quotidiane con le persone che lavorano con me da anni e che con me condividono immaginifiche visioni.Insieme alla curatrice Francesca Alfano Miglietti ho aperto cassetti, armadi, cantine e soffitte dove avevo accumulato i lavori realizzati per “Trama doppia” e nel corso degli anni. Ho poi lavorato sul pittorico realizzando di avere qualcosa come 500 opere appese alle pareti di quell’enorme corridoio buio curvilineo che è il luogo che la Triennale ci aveva destinato. 1200 metri quadri di percorso scenografico nel quale accedevi attraverso un “muro” di camicie bianche e di fili rossi alle quali erano appesi i campanacci che i pastori usano per riconoscere il loro gregge.
E’ stato liberatorio e allo stesso tempo come immergersi in un mare che mi ha completamente assorbito e liquefatto. Sì, come banalmente si dice, è stata un‘esperienza totalizzante, un’esperienza che continua perché ha dato l’avvio ad altre mostre, come per esempio questa che ora è a Matera, e una mostra “Memorie dal sottosuolo” di ceramica a Mondovì. E poi , grazie a “Nulla dies sine linea” , ho realizzato la piéce teatrale “ Mio cuore, io sto soffrendo, cosa posso fare per te” che dopo Milano, Cagliari, Reggio Emilia andrà a New York a maggio.
La sua grande casa-laboratorio si trova su una collina che sovrasta il mare. Un giorno lei ha detto che quella particolare luminosità del cielo di Alghero è riuscita a ritrovarla solo a New York. Quanto questi elementi della natura sono fonte di ispirazione per Antonio Marras?
Non lo so. Tutto per me è ispirazione. Io sono insaziabile. Ho fame di tutto, vedo tutto e sono interessato a tutto. Tutto mi attrae senza differenze e distinguo: libri, film, mostre, giornali, mercatini, racconti, persone, arte, teatro, danza, marchè aux puces, riviste, fotografie, romanzi, poesie. Metto tutto nella cassettiera della mia mente e ogni volta, a sorpresa, si apre un cassettino e mi vengono in mente “fiumi di immagini”.
La cosa fondamentale è lavorare in un posto bello, che mi piaccia, che mi faccia stare bene. Per questo è importante la mia casa, la mia collina, Alghero, il mare e il cielo. Il tramonto da casa mia è uno spettacolo che lascia senza fiato per qualche secondo. Ogni volta esprimo un desiderio e per ogni tramonto che non trascorro a casa è un desiderio incompiuto. Certe volte a New York ho riconosciuto un cielo alto pieno di nuvole vaganti che mi hanno ricordato casa.
Sua moglie Patrizia è una grande e attenta collaboratrice. Quanto conta questo vostro sodalizio?
Io e Patrizia siamo una cosa unica. Molte volte parlo al singolare ma includo lei di default. Stiamo insieme da quando io avevo sedici anni e lei quattordici. Abbiamo iniziato a lavorare insieme nell’86 e abbiamo fatto sempre tutto insieme. Non si sa quando finisce il mio lavoro e inizia il suo e viceversa. Ci capiamo senza bisogno di parole. Siamo come yin e yang con i bioritmi sbalzati, così ci compensiamo. Siamo diversissimi e complementari.
Recentemente ha donato cento copricapo di seta e cachemire alle pazienti di oncologia degli ospedali di Ozieri, Sassari e Alghero con la collaborazione dell’Associazione di Oncoematologia «Mariangela Pinna» Onlus. Come è nata questa iniziativa?
E’ nata con l’amicizia con Maria Mantero che lavora nella Mantero, grande azienda di famiglia. Seta e foulard come se piovesse. Maria, nel 2016, ha fondato l’iniziativa “DEE DI VITA” e quest’anno abbiamo realizzato l’evento da noi al Circolo Marras, a Milano. Dieci magnifici turbanti di seta ricamati e dipinti a mano sono stati messi all’asta con Geppi Cucciari come battitrice. E’ stato un successo e il ricavato dell’asta è stato convertito in cento turbanti da donare alle pazienti affette da tumore.
Abbiamo voluto che tutto ciò avesse una ricaduta sul nostro territorio perciò ho coinvolto le meravigliose persone che lavorano nell’associazione “Mariangela Pinna Onlus” di Sassari. Avevo avuto modo di conoscere l’associazione in una precedente occasione e avevo apprezzato la dedizione, il lavoro e la sensibilità delle persone coinvolte. E’ importante pensare alla bellezza in un momento di grande sfasamento come può essere quello della malattia. L’associazione, fornendo supporto psicologico, parrucche, corsi di make up e quant’altro è molto attiva a Sassari ed Alghero e a Ozieri. Faremo altre cose insieme.
Nella sua arte sin dagli esordi c’è un filo conduttore, legacci rossi, che ora ritornano nella collezione “The crazysewing machine and the sparkling Jana” alla Milano Fashion Week 2020. Un viaggio ancora una volta nel segno di Maria Lai, nell’anno del centenario dalla nascita. Per lei “Una compagna di viaggio, una musa, un’amica geniale affettuosa e custode dell’anima”, tanto che la accolse nella sua casa dedicandole una stanza tutta per sé. Ci parli del vostro rapporto. C’è qualche aneddoto in particolare legato alla vostra grande amicizia ?
Scrive Francesca Alfano Miglietti a proposito della mostra di Matera “Trama doppia” dove ci sono i lavori di Maria e i miei : “Uno degli aspetti dell’arte che viene privilegiato da Maria Lai e da Antonio Marras è quello di consentire una serie complessa di relazioni sociali, e in questo momento storico, momento in cui tutto è movimento, la mostra vuole intessere un orizzonte che pone al centro della ricerca proprio il flusso. Un terreno poetico, questo, dalle frontiere indefinite, al confine con i territori dell’arte e della relazione. La mostra che si propone è un’arte che vuole profondamente radicarsi nel territorio e inserirsi nel tessuto sociale di Matera, un’arte capace di contribuire alla definizione dell’identità culturale di un luogo”.
E’ questo che mi ha accomunato a Maria: lo stesso amore per il diverso, per il territorio, per l’anima e la memoria.
La collezione di Antonio Marras tra fiaba e realtà autunno/inverno 2020-2021 ha portato in passerella pizzi, piume, tessuti eleganti, ma anche modelli che mischiano stili. Qual è il messaggio?
La missione degli abiti non è solo quella di coprire, di tener caldo. Gli abiti cambiano l’aspetto del mondo ai nostri occhi e cambiano noi agli occhi del mondo. Il vero io è profondamente nascosto e attraverso gli abiti si va alla ricerca e scoperta di sé e dell’altro. Non esistono più schemi fissi. Contaminazione è la parola d’ordine.
La contaminazione in quanto tale è sempre esistita in qualsiasi arte e in qualsiasi parte del mondo. La danza contemporanea, ad esempio, è un’evidente commistione tra i passi e i ritmi sudamericani e africani e la tradizione europea. La musica di oggi è un fiume di derivazioni e di collegamenti. L’arte non ne parliamo. Io vivo di contaminazioni, di mutazioni, di relazioni.
Ma soprattutto penso che il mio lavoro, la moda, abbia bisogno, anzi necessità direi, di intrecciare arte, cinema, musica, video, letteratura e teatro per poter restituire le tensioni dello spirito del tempo. Di questo tempo. Dunque fenomeni, stili, tendenze di una dimensione in continua mutazione.
La moda è uno dei luoghi privilegiati dell’ibridazione e della contaminazione tra linguaggi e non solo. Un outfit è il risultato di intrecci di stili, di volumi, di forme, di epoche, di provenienze, di luoghi, di suggestioni, di influenze, di stimoli e di amicizie.
Sono convinto – e lo ripeto spesso – che sono quel che sono proprio perché (da algherese, sardo, italiano, cittadino del mondo ) sono il risultato di misture, mescolanze, contaminazioni formatesi in Sardegna e nel Mediterraneo nel corso di millenni. Popoli di confine, abituati al contatto e allo scambio, pronti ad andare di porto in porto, a scambiare parole, comunicare, accogliere, accettare l’altro, il diverso, lo straniero, amalgamare culture, tradizioni, usi e costumi, lingua, musica, arte, cibo, abbigliamento.
L’uso di abiti vintage come materiale di base ben sintetizza il tema della memoria, della contaminazione e quello delle sovrapposizioni culturali che nascono dall’incontro con la diversità e con nuovi contesti. Evidentemente porto dentro di me tracce, trame, ricordi, memorie di popoli che vogliono prepotentemente ancora vivere, un substrato a cui inconsciamente attingo.
Almeno, così mi piace pensarlo.
Antonio Marras ama la poesia. C’è qualche poesia in particolare che la rappresenta?
Felice chi è diverso
Sandro Penna da “Appunti”, 1938–1949, in “Sandro Penna, Poesie”, Garzanti, 1987
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
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Jacopo Cullin e il coraggio di essere autentico in una intervista di Luciana Satta. La prima volta che ho provato l’emozione dettata dal suono della risata di un altro è stata come una droga. Ho sempre cercato di imitare, ma senza pensarci troppo. È stato […]
Arte Luciana Satta PersonaggiJacopo Cullin e il coraggio di essere autentico in una intervista di Luciana Satta.
La prima volta che ho provato l’emozione dettata dal suono della risata di un altro è stata come una droga. Ho sempre cercato di imitare, ma senza pensarci troppo. È stato tutto abbastanza istintivo.
Jacopo Cullin, regista e attore noto per le sue innumerevoli maschere che hanno dato vita a personaggi storici (il signor Tonino, Salvatore Pilloni, Angioletto Biddi ‘e Proccu). Una strada, quasi un destino che, nonostante il successo, lo ha tenuto con i piedi ben saldi, senza fargli mai perdere di vista un punto fermo:
Cercare di essere onesto con me stesso, con le mie scelte, per poi trasmetterle anche alla mia parte artistica… ho capito quanto sia importante il coraggio e l’essere autentici. Non faccio distinzione tra l’uomo e l’artista.
Un percorso segnato da tante pellicole di successo. L’ultima, campione di incassi, L’uomo che comprò la Luna, per la regia di Paolo Zucca.
Come sei arrivato a cimentarti con i personaggi e le imitazioni? È una passione che avevi sin da piccolo?
Ho iniziato a scuola, alle superiori, con le imitazioni degli insegnanti e dei bidelli. Mi piaceva far ridere tutti, mi è sempre piaciuto. Imitavo mio nonno, personaggio che porto ancora in giro per gli spettacoli, e poi il padre del mio amico Roberto, che ha dato vita alla caricatura del “signor Tonino” e al noto tormentone: “OOOOh RRRRoberto!
«A 22 anni, nel 2004 diventi noto al pubblico isolano grazie al programma di Videolina “Come il calcio sui maccheroni”.» Come è nato il tuo incontro con il comico e conduttore Massimiliano Medda e con La Pola?
Il primissimo incontro è stato con una trasmissione di Videolina che si chiamava Cento, simile al format Amici di Maria De Filippi. Massimiliano Medda faceva parte della giuria e mi ha chiesto di partecipare all’apertura di una serata di Sergio Sgrilli, comico di Zelig, all’Anfiteatro di Carbonia. Da lì mi propose di partecipare come ospite a una puntata di Come il calcio sui Maccheroni. Dopo la prima puntata arrivarono le altre tre e, dopo la terza, mi disse che gli avrebbe fatto piacere se fossi rimasto come ospite per l’intera trasmissione. La quarta puntata venne fuori il signor Tonino. Così è nata la collaborazione.
Racconti: «A 23 anni sono andato all’Anfiteatro Romano di Cagliari a vedere Grease, durante lo spettacolo ho detto a Stefania: “scommetti che fra due anni ci faccio uno spettacolo qui dentro?”.» Nel 2006 chiudi il tour di “6 in me” proprio all’Anfiteatro Romano di Cagliari. Un sogno che si realizza… come ricordi quella emozione?
Ti dico la verità, mi sono ricordato di quell’evento solo dopo lo spettacolo all’Anfiteatro. Parlando con Stefania, mia fidanzata di allora, mi sono ricordato di questo episodio. Da allora mi è capitato spesso di avere questa sorta di consapevolezza. Ho sempre immaginato qualcosa di diverso, cioè che sarei andato a Roma a fare chissà cosa per poi tornare da vincitore. Non pensavo di trovarmi a fare un percorso diverso.
Nel 2012 scrivi, dirigi e interpreti il cortometraggio Buio. Come ti sei avvicinato alla regia e cosa ami di questa professione?
Scrivo prevalentemente pubblicità, cortometraggi e un lungometraggio, che spero di poter realizzare a breve. Anche l’approccio con la regia è stato naturale, perché da bambino ricordo che mi cimentavo con una telecamera di mio zio, di quelle che avevano le videocassette dentro, quelle enormi… mi divertivo moltissimo, mi piaceva riprendere il pranzo di Natale, di Pasqua. Recentemente ho rivisto quelle immagini e ho pensato: “Avevo solo dieci anni!”. Eppure c’era, evidentemente, qualcosa che mi attraeva. Mi piace proprio raccontare una storia, non solo la parte visiva. Mi piace emozionarmi, toccare delle corde in maniera delicata con una risata, con un pensiero.
Hai detto: «Sono cresciuto credendo che Gigi Riva fosse un’entità, un mito, un supereroe.» Poi ti hanno chiesto di realizzare quel famoso spot per i giochi estivi Special Olympics e lo hai conosciuto. Come è stato questo incontro?
È avvenuto in maniera molto strana. Mi avevano chiesto di realizzare uno spot, nel quale avrei dovuto dire: “Ciao sono Jacopo Cullin anch’io sostengo Special Olympics!”, è una delle cose che odio di più, perché è molto semplice, ma inefficace. Allora ho pensato a un’idea che potesse essere stimolante, anche per me. Prendendo spunto da un vecchio spot dei mondiali, nel quale i giocatori si tiravano la palla da una città all’altra, e di coinvolgere colui che per noi, per tutta la Sardegna, è il Dio del calcio, Gigi Riva, e ridicolizzarlo. Ovvero fare ciò che mi piace di più, ridicolizzare tutto ciò che forte, tutto ciò che viene percepito come una potenza superiore.
L’ho incontrato a Cagliari, in un ristorante del quartiere La Marina, ci ho parlato, mi ha ascoltato per tutto il tempo, sorrideva, gli ho fatto vedere le immagini dei ragazzi. Quando gli ho chiesto di prendere parte allo spot ha riposto “no”, perché non voleva apparire più dei suoi ex compagni di squadra. In quel momento si era avvicinata una signora tedesca, per chiedergli un autografo. Le ha scritto: “Italia Germania 4-3, Gigi Riva”. Ha accettato di partecipare al mio progetto e si è presentato allo Stadio con cinque palloni, uno per ogni ragazzo.
Poi arrivano L’Arbitro, La stoffa dei sogni, L’uomo che comprò la luna. C’è una scena memorabile di quest’ultimo film di Paolo Zucca dove Benito Urgu insegna al tuo personaggio (Kevin) a diventare un vero sardo. C’è qualche retroscena che mi puoi raccontare? Immagino ci siano stati dei momenti molto divertenti….
In realtà durante le riprese c’è stato pochissimo tempo per lasciarsi andare a improvvisazioni. Il regista è stato molto preciso, anche perché i tempi erano strettissimi. Con Benito lo facevamo un po’ “impazzire”, perché Paolo temeva che Benito potesse tirare fuori una delle sue macchiette, uno dei suoi personaggi tipici. Era il suo incubo peggiore. Diceva: “Mi raccomando, Benito, non fare niente, mi raccomando…”. E io: “Stai tranquillo Paolo…”. Allora lo chiamavano e Benito diceva: “Ascolta Paolo, ma se in questa scena a un certo punto dico: “Ma ti ritiri di lì!”. Dunque più che altro io e Benito ci divertivamo così, a infastidire un attimo il regista (ride n.d.r.). Però è stato bellissimo fare le prove a casa sua, abbiamo provato tre mesi e mezzo prima, volevamo essere sicuri del risultato.
Nel film c’è un cast straordinario, tra gli attori abbiamo visto anche Angela Molina, tu la definisci una “donna meravigliosa”… com’è questa attrice?
A parte la bravura dell’attrice, che ha una carriera incredibile, ha lavorato con i registi più importanti al mondo, è proprio una donna straordinaria. Mi piace questo, perché è ciò in cui io credo. Penso che l’artista non debba essere troppo differente dalla persona e lei è esattamente come la vedi sullo schermo: solare, disponibilissima, caratteristica principale dei grandi attori. Mi sono trovato benissimo con lei. Durante le prove e quando ci siamo visti durante le presentazioni del film, soprattutto alla Maddalena durante il Festival “La valigia dell’attore”, ci siamo veramente divertiti come pazzi, perché lei ha una gioia di vivere che è contagiosissima.
«Ho capito quanto sia importante l’essere autentici.» cosa significa questo pensiero per te?
Vorrei provare a essere sempre Jacopo, un ragazzo normalissimo che fa’ un mestiere bellissimo, che ti dà un sacco di visibilità e ti fa apparire agli occhi degli altri in maniera diversa. È un continuo lottare, perché voglio vivermi le cose belle della vita. Il vero problema è che esiste un limbo, in cima sono tutti autentici. I grandi non hanno bisogno di indossare maschere e questo è quello a cui aspiro io, non essendo grande: a rimanere così come sono, a lavorare con quelle persone, perché anche loro lavorano più volentieri con le persone oneste.
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Il 28 gennaio la FIDAPA sezione di Sassari ha organizzato una interessante conferenza online dal titolo “Tre donne, tre memorie”. Alla presenza della Presidente di Sezione Rosalba Crillissi, della Presidente Distrettuale Maria Tina Maresu, della Presidente Nazionale Cettina Olivieri, delle socie sassaresi e di altre […]
Attualità SocialeIl 28 gennaio la FIDAPA sezione di Sassari ha organizzato una interessante conferenza online dal titolo “Tre donne, tre memorie”. Alla presenza della Presidente di Sezione Rosalba Crillissi, della Presidente Distrettuale Maria Tina Maresu, della Presidente Nazionale Cettina Olivieri, delle socie sassaresi e di altre sezioni, sono state introdotte tre scrittrici che con il proprio lavoro e i propri scritti hanno saputo dare corpo ad un articolato discorso inerente la recente Giornata della Memoria, dedicata alla commemorazione delle vittime dell’Olocausto.
Sono intervenute DACIA MARAINI, ROSELLA POSTORINO e la giovanissima ELEONORA SPEZZANO. Tre autrici differenti per sensibilità, stile e approccio che hanno, ognuna in modo personale, raccontato dell’importanza del ricordo.
Dacia Maraini ha dialogato con la consigliera comunale Virginia Orunesu, che ha avuto modo anche di ricordare il proprio impegno per la nascita di un Giardino dei Giusti tra le Nazioni a Sassari, dedicato a tutte le donne e gli uomini sardi che hanno salvato vite umane rifiutando di piegarsi al totalitarismo. Ripercorrendo il libro LA NAVE PER KOBE, la Maraini ci ha condotti in un viaggio partito dall’infanzia fino all’internamento in un campo di prigionia giapponese nel 1943 quando suo padre Fosco si rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò. Il rapporto con la famiglia, con le radici, con la memoria, con la religione, sono stati i punti cardine che la grande scrittrice ha delineato in un dialogo sempre franco e ricco di umanità:
«La memoria è ciò che ci permette di avere un rapporto di avere un dialettico con il presente. Solo in questo modo possiamo progettare il futuro. Ecco perché è importante ricordare e indagare il nostro passato. La memoria è tutto!»
La Presidente di Sezione Rosalba Crillissi ha invece avuto modo di dare voce a Rosella Postorino, vincitrice della 56° edizione del Premio Campiello con LE ASSAGGIATRICI. L’autrice ha saputo coinvolgere il pubblico presente con il racconto della genesi del suo libro. L’opera è ispirata infatti alla controversa figura di Margot Wölk, una delle donne che avevano il compito di assaggiare i pasti di Hitler affinché ci si accertasse che non fossero avvelenati. Con una dialettica appassionata e coinvolgente la Postorino ha messo in luce le contraddizioni e le ombre delle “persone comuni” davanti a eventi traumatici come il totalitarismo e la guerra. La scrittrice ha saputo far riflettere sull’importanza di non catalogare i campi di sterminio come opera di “mostri” o “folli” poiché in questo modo si compie l’errore di credere che accadimenti di questo tipo siano lontani e irripetibili. Bisogna invece ricordare che questi orrori possono accadere ancora.
La giornalista Francesca Arca ha invece introdotto la giovanissima Eleonora Spezzano che ha esordito nella scrittura a soli 14 anni con il romanzo HANS MAYER E LA BAMBINA EBREA. Nonostante la presenza di due importanti e affermate autrici come la Maraini e la Postorino, Eleonora Spezzano è risultata spigliata e determinata nell’esporre il proprio punto di vista, ricordando come sia fondamentale per le nuove generazioni – il cui compito è quello di costruire il futuro – non perdere di vista ciò che è stato fatto nel passato.
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di Daniele Dettori Mi pare di poter definire questa pittura “Pagine di diario” o “Vicende dell’esistenza”, ricche di suggestioni oniriche e di assunti a simbolo, facilmente leggibili in una scrittura moderatamente espressionistica e metafisica. Direi, seguendo Beckett, un tentativo del pittore di svolgere la sua […]
Arte Daniele Dettori Personaggi PitturaMi pare di poter definire questa pittura “Pagine di diario” o “Vicende dell’esistenza”, ricche di suggestioni oniriche e di assunti a simbolo, facilmente leggibili in una scrittura moderatamente espressionistica e metafisica. Direi, seguendo Beckett, un tentativo del pittore di svolgere la sua storia al passato, per allusioni, quasi si trattasse di una favola antica o di un mito.
Marco Antonio Aimo
A tre anni dal nostro precedente incontro ritroviamo Nello Di Monda in quello che si può considerare, quasi, uno spin-off dell’ultima chiacchierata. Parlammo di vari aspetti relativi alla sua storia e ai suoi dipinti, seduti tra le tele del laboratorio dove hanno preso e tuttora
prendono forma incredibili lavori. Tra tutti, una serie in particolare ha decretato la fortuna dell’artista campano, costituendone la principale tematica che, negli anni, è stata esplorata nelle sue numerose varianti: figurative, surrealiste, metafisiche, monocrome, policrome e, in tempi più recenti, perfino scultoree. Stiamo parlando delle Maternità, vero e proprio leitmotiv nella produzione di Di Monda, nonché caposaldo del suo approccio all’arte. In queste pagine abbiamo selezionato alcuni dei pezzi migliori che accompagnano il suo parlare, come
sempre ricco di memorie dall’accento partenopeo e di considerazioni verso la figura protagonista della sua storia: la madre.
Mia madre è stata la colonna portante della mia formazione educativa. Questo perché in casa eravamo cinque figli, di cui io il secondo. Mio padre, per lavoro, usciva la mattina alle 8.00 e rientrava al pomeriggio, tra le 17.00 e le 18.00. Commerciava al dettaglio e aveva una vasta clientela che comprava da lui biancheria, tessuti, ma anche orarie. In un simile contesto, quindi, tutte le incombenze domestiche ed educative ricadevano necessariamente su mia madre. Da ragazza, prima del matrimonio, prendeva parte al coro della chiesa per poi dedicarsi a tempo pieno a noi, facendo la casalinga.
Era, tuttavia, un’abile ricamatrice e un’ottima cuoca, molto brava anche con i dolci. Continuava a tenere la voce in allenamento cantando mentre stendeva i panni. Ad ogni modo, proprio per il grande peso gestionale che le gravava sopra, era una donna anche molto autoritaria; e poi era ambiziosa, amante del lusso e del bello. Per noi figli aveva comprato un pianoforte a coda di seconda mano, perché lo imparassimo a suonare. Di tutti e cinque, però, l’unico che strimpellava un po’ era mio fratello Mario, il quale lo faceva compatibilmente con gli studi di medicina che portava avanti.
Di qui, inevitabile, la domanda: pittura-specchio o pittura-esorcismo? Resoconto d’una realtà vissuta (con la profondità d’amari riflessi fatti intravedere dai suoi quadri) o previsione d’un male lontano (ma poi non troppo per chi ben sa leggere i nostri tempi) onde scongiurarne l’avvicinarsi?
Egidio Guidubaldi
Quando avevo tra gli otto e i nove anni ci trasferimmo nella casa nuova – sempre nel mio paese natale di Sant’Anastasia (si legga con l’accento sulla “i”, ndr) – che mio padre costruì su un terreno donato da mio nonno materno. Ebbene, si trattava di uno stabile molto elegante e signorile, con locali commerciali al piano terra, fronte strada, e la nostra abitazione subito sopra, in uno spazio di 170 mq. Lo ricordo perché a mia madre piaceva molto. Ecco, credo che la scuola di Freud avesse ragione nell’ipotizzare che l’opera d’arte possa essere il contenitore di conflitti infantili irrisolti.
Ci ho pensato spesso rivedendo le mie maternità raffiguranti donne incinte e non posso non ammettere di essere stato geloso quando, nel 1946, mia madre era in attesa di mio fratello Giovanni, nato quell’anno. Già questa sarebbe un’ottima ragione per giustificare i miei lavori raffiguranti donne gravide, sovente con bambini protesi verso la figura materna alla ricerca di affetto e attenzione. Amo molto, in questo senso, anche alcuni lavori di Massimo Campigli, artista tedesco di origine ma dal nome italianizzato la cui madre, diciottenne quando lo ha partorito, lo aveva dato in adozione alla nonna, che viveva vicino a Firenze. Campigli raffigurava spesso una figura femminile, questa nonna che lui chiamava madre…
Seduti questa volta nel soggiorno di casa – tra i migliori quadri della sua produzione, molti dei quali vincitori di premi ed esposti presso diverse gallerie di Sassari, in qualche caso anche riscattati dall’autore per il grande affetto che a lui li lega – Di Monda non riesce a trattenere un velo di commozione mentre ripercorre gli anni dell’infanzia nel piccolo borgo napoletano, con le figure del nonno materno, artigiano ramaio molto apprezzato; di Raffaele Iodice prima e Carmine Sodano poi, veri pigmalioni nel suo processo di avvicinamento all’arte. Ma è la figura della madre che ritorna ancora e ancora, nella mente come nel cuore e infine sulla tela.
Il succedersi delle maternità si è verificato dagli anni Sessanta in poi e ne ho fatto tantissime, anche in questi ultimi dieci anni. In effetti ero proprio il cocco di mamma, quel figlio al quale confidava molte cose e che le stava sempre attaccato. Eppure vivevo, da ragazzo, un’inquietudine interiore che riversavo anche in casa e si traduceva in tribolazioni per lei stessa. La stessa inquietudine che mi ha portato a studiare prima chimica e poi pittura, a non riuscire quasi a trovare una pace.
Non concepisce l’esercizio pittorico come la ripetizione, magari in gradevoli varianti, d’un modulo già fissato e perfino banalmente posseduto, ma, al contrario, fa di ogni quadro, ogni volta, un’avventura nuova.
Manlio Brigaglia
Quando avevo, qualche volta, la febbre oppure il raffreddore ci tenevo che mia madre mi desse un bacio, un abbraccio, ma lei era pudica e la sua educazione questo non glielo permetteva. Al contrario, la sua impostazione autoritaria la portava sempre a esprimersi attraverso rimproveri piuttosto che con modi più gentili. Da qui l’esigenza di un affetto sì esistente ma non dimostrato. Padre Egidio Guidubaldi, professore universitario presso la vecchia Facoltà di Magistero di Sassari – il quale ha scritto molti libri in chiave psicanalitica su Dante Alighieri e la sua opera – mi fece una recensione, in occasione di una mostra alla Galleria Ars nel 1980, dove scrisse: “Uno sfocato padre privo di connotazioni affettive e una madre essenzializzata nel modulo del rimprovero”.
In effetti è vero, mia madre aveva il vizio di rimproverare anziché di coccolare. Questa è la recensione che più mi è rimasta impressa. Sulla mia sensibilità nel ritrarre le Maternità si espresse anche Pasqual Scanu, ex preside della scuola media numero 3 di Sassari, oltreché politico e studioso di letteratura e filologia. Lo evidenziò bene in occasione della mostra alla Galleria Marghinotti, nel 1974.
Ci avviamo, dunque, verso l’ultimo tratto della piccola galleria allestita su queste pagine. Alle parole di Nello Di Monda il compito di accompagnare il visitatore/lettore nel modo a lui più congeniale: piene e dense pennellate volte a delineare il modus operandi delle opere qui esposte. Il tutto introdotto, ancora una volta, dal pensiero di un autore che lo ha recensito.
Non concepisce l’esercizio pittorico come la ripetizione, magari in gradevoli varianti, d’un modulo già fissato e perfino banalmente posseduto, ma, al contrario, fa di ogni quadro, ogni volta, un’avventura nuova.
Manlio Brigaglia
Questa madre spesso surreale non vuole essere una madre mostro, dove per esempio ha la testa di un uccello. È invece una madre fantastica, nata dalla mia fantasia ma senza avere un riferimento preciso, proprio come i supporti sui quali può nascere. Sono convinto che importante, nell’arte, non sia il supporto (la tela, il cartone, il compensato, ecc.) ma la qualità del dipinto. Stesso discorso per il colore: ho avuto le fasi dell’olio, poi dell’acrilico, poi un ritorno all’olio. Di recente uso acrilico e acquerello.
La Maternità in rosso, olio su tela del 1976, è forse quella alla quale tengo più di tutte. Un volto intessuto di solitudine e di dolore. Regalai il quadro a mia moglie e lei lo regalò, a sua volta, al dottore che la operò di parto cesareo. Non nascondo che ci sono rimasto un po’ male. Prima parlavo della grande casa di Sant’Anastasia. Dietro la casa c’era il giardino e subito il Monte Somma. Tutto alberi e vegetazione. Il monte mi sembrava un enorme seno vegetale, molto bello. Spesso l’Ho disegnato, così come ho disegnato il Vesuvio.
Ultimamente ho fatto parecchi quadri con il Monte Somma e il Vesuvio che proseguono in Capo Caccia, come due entità: Napoli e la Sardegna. Alcune Maternità, infatti, hanno lo sfondo di Capo Caccia. Sono, quindi, come un sogno perché unisco le due madri (quella che avrei voluto e quella che avevo) nella zona di Alghero. Perché proprio Alghero? Intanto perché abbiamo comprato lì una casa e poi perché è vicino a Sassari, con belle spiagge, una cittadina molto bella.
La Maternità del 1980, quella sforacchiata, è nata ritornando con la mente al periodo più tormentato della mia vita, dal 1970 al marzo del 1978, quei sette anni e tre mesi durante i quali passavo da una pensione all’altra, da un paese all’altro mentre insegnavo nel Goceano. Risiedevo a Bono, insegnavo ad Anela e a Nule. Mi spostavo con la macchina. Un po’ come la Firenze cantata da Dante, che il Poeta paragona a un’inferma, la quale cambia posizione senza però trovare sollievo; così ero io. L’ultima è una scultura in bronzo che ho realizzato qualche anno fa, partendo da un quadro. La fusione l’ho fatta a Cagliari. Mi piace questa madre possente, dai grandi seni, che dà una forte sensazione di sicurezza, affetto. Sia il dipinto che la scultura sono attualmente esposti nella Galleria Arte e Spazio, in via Principessa Maria a Sassari.
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Luca Parodi racconta il papà Andrea
Luciana Satta Musica Personaggi RicordiUn viaggio che lascia il segno nelle stanze dello storico palazzo del Marchese, a Porto Torres, alla scoperta della vita e dell’arte di Andrea Parodi. L’uomo e l’artista sono raccontati nel Museo a lui dedicato, fortemente voluto dalla Fondazione. È un progetto nato ormai undici anni fa, nel 2009, trasferito in diversi luoghi, da Cagliari a Villanova Monteleone, a Ottana, per trovare sede, infine, tre anni fa, a poche centinaia di metri dalla casa dove lui era nato, la casa dei nonni in via Petronia 102.
Attraverso tutto il percorso multimediale, nelle stanze del palazzo, il visitatore viene accompagnato dalla sua “Voce utensile che ha forgiato pietre e legno, cuori e muscoli”. Così l’autore Michele Pio Ledda aveva definito quel timbro inconfondibile. Nelle sue parole la sintesi di tutto ciò che Andrea Parodi esprimeva con quello “Strumento primitivo, percussione e corda, che dopo anni di identificazione all’interno di irripetibili situazioni, che l’hanno portato a riempire i silenzi della gente sarda con suoni finalmente riportati in vita si propone, nella solitudine affollata della sua persona, all’interno del rumore della scena musicale”.
Luca Parodi è il vicepresidente della Fondazione Andrea Parodi, grande organizzatore di eventi, manager del gruppo storico, i Tazenda, e di tanti altri artisti. «Papà mi ha insegnato molto – dice – anche se non ho mai sentito di seguire una strada tracciata, non avendo doni particolari, una dote innata, come la sua. Credo che quello che faccio io oggi sia nato di riflesso rispetto a ciò che ho osservato crescendo, che ho dovuto vivere, perché noi abbiamo avuto una fase in cui abbiamo collaborato insieme. Non è un lavoro che ho scelto, come l’ingegnere che giocava da piccolo con le macchinine o voleva fare il pilota, non è il mio caso. Cerco sicuramente per quanto mi è possibile nella mia umanità e coscienza di tenere molto presenti i valori che mi ha trasmesso. L’entusiasmo quando lavorava. Mi ha mostrato che quando fai qualcosa con passione non ti stanca, non ti annoia. Riusciva a fare una “full immersion” incredibile nel suo lavoro proprio per questo: perché faceva ciò per cui sentiva di essere nato e aveva tutte le qualità di questo mondo per farlo».
Da tanti anni sei vicepresidente della Fondazione Andrea Parodi, Valentina Casalena è la presidentessa. Di cosa vi occupate? Qual è il messaggio?
La Fondazione nasce intanto, ovviamente, per catalogare e preservare quella che è stata l’opera artistica di Andrea Parodi. La prima azione è stata quindi quella di fare un lavoro di ricerca e di raccolta di tutto il materiale audio e video possibile e immaginabile. Abbiamo un archivio ampio di fotografie, registrazioni tratte da trasmissioni televisive, riprese private realizzate in vari concerti, alcune sue interviste e poi tutta la discografia e anche molte registrazioni di esibizioni estemporanee, live, situazioni in cui magari ha cantato cover di altri. Siamo riusciti a raggiungere veramente dettagli molto importanti in questo senso. Una volta che abbiamo raccolto tutto questo materiale ci siamo posti due obiettivi parallelamente. Quello di creare inizialmente un evento che lo celebrasse, che era il Canta Andrea Parodi. Subito dopo la sua scomparsa sono state fatte tre edizioni di questo evento. Il Memorial ha perso poi forza, è scemato naturalmente e abbiamo invece concentrato le energie nell’istituire un premio canoro in suo onore. Riteniamo sia più celebrativo, molto più vivo e soprattutto in continua evoluzione. Intanto grazie a questa azione si incoraggiano i nuovi talenti che decidono di militare nella World Music, che era il campo che papà aveva sposato artisticamente, soprattutto nell’ultima fase della sua carriera, quella da solista. Oltre a questo portiamo avanti un’iniziativa molto bella, un’idea di Elena Ledda, direttrice artistica. I finalisti che ogni anno partecipano alle tre giornate del premio si cimentano in una cover di Andrea Parodi, che gli artisti devono arrangiare, non si tratta di una semplice esecuzione. Ogni anno vediamo almeno dieci evoluzioni di dieci opere del suo repertorio. L’altro grande progetto che abbiamo portato avanti è stato appunto il museo multimediale a lui dedicato, che io chiamo “la casa di Andrea”. Quando abbiamo trovato la sede che ci auguriamo sia definitiva abbiamo creato anche il Museo itinerante. Un camioncino che contenga tutti gli stessi contenuti multimediali raccolti nel Museo del Palazzo del Marchese, in spazi ovviamente più ridotti. Questo è l’altro progetto: riuscire a portare “la casa di Andrea” ovunque».
Nel Museo multimediale Andrea Parodi sono raccontati tanti aneddoti, attraverso i contributi video. C’è un ricordo in particolare a cui sei legato?
«Io lo chiamo “la casa di Andrea”, perché non è solo un Museo celebrativo di quella che è stata la sua opera artistica, ma racconta veramente tutta la sua vita. Ci sono delle sezioni che riguardano il suo intimo, da quando era bambino, al periodo della scuola, fino alle motivazioni per cui è arrivato in Sardegna e alla grande passione che aveva per la pesca. Sicuramente questa è la parte del museo a me più cara, quella che ho seguito in prima persona, sono le cose che ho vissuto più intensamente con papà. Della famiglia ero quello che aveva i ricordi più chiari, perché da bambino avevo la fortuna di andare con lui. Certo, la parte artistica l’ho vissuta in maniera privilegiata, ma sicuramente se dovessi parlare con un fan appassionato di questo aspetto forse ne saprebbe più di me (ride n.d.r.)… quello era il suo lavoro che, come in tutte le famiglie, lo portava fuori casa; dunque, probabilmente, su questi aspetti sono più indietro rispetto a qualcuno che lo ha seguito da quel punto di vista più assiduamente rispetto a me. Invece ho curato più da vicino all’interno del Museo la sezione che racconta le esperienze che abbiamo vissuto assieme, che facevano parte del nostro intimo, infatti nei video appare il mio volto e parlo in prima persona».
Anche da questi tuoi racconti all’interno del percorso museale emerge il rapporto molto stretto che tuo padre aveva con il mare…
«Credo che il mare sia stato in giovinezza la principale fonte di soddisfazioni, di svago, di rifugio. Credo che la musica sia arrivata dopo e in questo senso anche all’interno del museo si segue questo percorso. Questa passione per la musica arriva nella giovinezza, anche se in realtà abbiamo testimonianze del fatto che già da ragazzino lo mettessero sul bancone della latteria, cantasse e gli regalassero la cioccolata. Però passione vera e propria è arrivata secondo me intorno ai quattordici anni, quando ha iniziato a sentire veramente questo bisogno. Fino ad allora la passione principale era il mare, era la pesca. Una passione tramandata, perché mio bisnonno era capitano sulle navi. Una passione per tutta la vita mai abbandonata, anche quando ha smesso di pescare… era arrivato a maturare l’idea che non volesse più “uccidere i pesci”. L’amore assiduo per la pesca in lui l’ho vista almeno fino all’età di trenta/trentacinque anni, fino agli anni Novanta. Prima del successo era anche una fonte di reddito, non solo una passione. Poi è diventato un hobby, per staccare da tutto, prendere una giornata per fare la rimpatriata con gli amici. Come tutti noi portotorresi ha amato il nostro tratto di mare, Balai… ha scritto anche una canzone su Balai. Racconta di quando si andava ad abbandonare ai “cavalloni”. Le onde alte erano la parte più divertente di quella baia, lo sono state anche per me e mi risulta lo siano ancora oggi… anche se adesso è più difficile, per la vigilanza dei bagnini… (ride n.d.r.)… Poi sicuramente il mare lo ha portato qua, il mare lo ha generato, perché mio nonno era di Savona, navigava, mentre mia nonna era di Porto Torres e si sono conosciuti perché mio nonno faceva scalo in questo porto. Mio padre da bambino trascorreva l’estate a Porto Torres».
Poi è stato anche docente all’Istituto Nautico, dunque il legame con il mare è evidente anche in questa scelta. Docente di “Marinaresche”, si racconta che portasse gli alunni al mare, facesse delle escursioni in barca, così come il programma della scuola prevedeva, e che queste escursioni finissero spesso in chiacchierate e in cantate…
«Diciamo che intanto queste escursioni facevano appunto parte del programma al nautico, essendo lui professore di “Marinaresche”. Il programma scolastico della prima e della seconda classe prevedeva le escursioni in barca. Era un professore molto giovane, dunque chiaramente anche la vicinanza di età rispetto ai ragazzi ha agevolato una certa confidenza. Sì, qualche suo ex alunno mi ha confermato che tra loro ci fosse un alto livello di confidenza… con lui si poteva anche ridere e scherzare e posso affermare che ogni tanto abbia anche pescato durante queste escursioni».
Andrea Parodi diceva: “Per la Sardegna ho scommesso quasi la vita”, perché l’Isola è sempre stata al centro della sua musica. Andrea portava l’immagine della Sardegna nel mondo. Qual è il rapporto che Andrea Parodi avuto con i suoi collaboratori? E qual è il tuo rapporto rimasto nel tempo tra te e i suoi musicisti?
«La musica è stata la sua ragione di vita e di conseguenza i rapporti con i collaboratori sono sempre stati molto stretti e intensi. Tutte le opere artistiche più importanti che hanno segnato la sua carriera sono nate da intensi periodi di frequentazione con i collaboratori di quella fase storica. Nelle fasi operative di realizzazione del disco hanno sempre prediletto, ad esempio, per settimane e mesi chiudersi a casa a registrare. Papà preparava da mangiare. Non si parla del “turno di lavoro” in cui si trovavano a orari stabiliti, avevano proprio bisogno di vivere insieme. Diventava un rapporto molto intimo, stretto. È sempre successo così: hanno ottenuto i più grandi risultati quando hanno lavorato in quella maniera… sicuramente».
Recentemente sono stati conclusi i lavori di rifacimento della facciata della casa d’infanzia di Andrea Parodi, da te voluti fortemente e realizzati dall’artista Roberta Sotgiu. Come è nata questa idea di rendere omaggio a tuo padre?
«Il rifacimento della facciata è una mia idea. È la casa dove vivo tutt’oggi e che non veniva ristrutturata ormai da trentacinque anni. Era la casa dei nonni di papà. Sono stato molto combattuto se scrivere “Casa Parodi” o “Casa Sau”, perché era la casa dei miei nonni “Sau”… ho scoperto di recente che veniva chiamata “la casa di Lu Cabaddànti”, perché mio nonno era il postino che a cavallo portava la posta tra Porto Torres e Stintino. La casa di via Petronia 102 aveva all’esterno il classico anello, al quale veniva legato il cavallo… Sono andato un po’ contro la storia a intitolarla così, perché di fatto “Parodi” lo è diventata solo nella penultima generazione. Ma l’ho voluta identificare proprio con lui, essendo comunque la casa in cui era nato, anche se subito dopo la nascita e fino all’età di quindici anni lui aveva vissuto a Savona. Il progetto ha avuto varie evoluzioni, perché nel frattempo io non abitavo lì. C’è stato un periodo in cui ho pensato di far diventare quella casa il museo, ma purtroppo le ristrutturazioni che mio padre aveva già iniziato avevano fatto sparire la casa antica. Era già una casa anni Ottanta, dove era rimasto solo un pezzettino del pavimento originale, ma non poteva essere restaurata così come era stato fatto al palazzo del Marchese. La facciata in particolare non era mai stata restaurata, da quando sono nato. Un gruppo Facebook aveva segnalato in maniera polemica come quella casa così importante non fosse ancora stata sistemata. In realtà loro non sapevano che io da anni mettevo via i miei risparmi e cercavo di organizzarmi per rimediare a questa situazione. Era un mio desiderio. La facciata è stata la prima cosa che ho fatto risistemare di quella casa. Ho chiamato i muratori e mentre generalmente la facciata è l’ultima parte della casa che viene fatta ripristinare, io ho voluto darle la priorità. Era doveroso farla. Il disegno è arrivato in un secondo momento, anche perché bisognava aspettare che il colore asciugasse bene. È stato realizzato da Roberta Sotgiu. È un’artista di Porto Torres, amica di papà, che aveva già realizzato un quadro che era stato donato a Valentina Casalena. Nel lavoro della facciata è riuscita a fondere le due passioni di papà, la musica e il mare, ha scelto l’azzurro e il bianco e nel disegno ha inserito anche un pentagramma a forma di onda. Poi mi ha chiesto di scegliere le note di un brano che lo rappresentasse e ho scelto No potho reposare.
Quello era un omaggio che volevo fare in forma privata. Non era pensato come un qualcosa di istituzionale, tanto è vero che non mi aspettavo neanche questi consensi. È stata una mia iniziativa personale, non l’avevo vista come un qualcosa che potesse ricevere tutta questa attenzione… voleva essere un semplice omaggio, un ricordo…»
«Caro papà a te piacevano tanto le coincidenze e in particolare quelle con la tua data di nascita. Ora il caso vuole che proprio ieri abbia scoperto con piacere che Cinzia ha cominciato la statua in tuo onore e oggi pomeriggio Roberta abbia cominciato il mio regalo per te sulla facciata della casa dove sei nato…..sono certo che apprezzerai sia le coincidenze che i risultati. Buon compleanno papà!!!»
Luca Parodi, da un post pubblicato su Facebook
«Ho in mente anche un altro progetto. L’idea è che la casa di via Petronia 102 dia ospitalità e consenta al visitatore di fare un approfondimento in più. Sarà una piccola succursale, con un’accezione diversa rispetto al Museo multimediale. Come quando si va all’Agnata di De Andrè, a Tempio, con quella curiosità di toccare con mano e di alloggiare nel luogo che è stato vissuto dall’artista. Nel nostro caso non si potevano effettuare restauri all’interno perché, visti i cambiamenti che aveva fatto papà, sarebbe stato un progetto troppo complicato. Ho scelto dunque di iniziare dal rifacimento della facciata, prima di tutto per identificare il luogo in cui lui era nato. I turisti si fermano a fare le fotografie. Così il ricordo rimane vivo. Poi, chi ha passione in più avrà anche la possibilità di fermarsi nel B&B. L’ho immaginato con due stanze: la stanza del mare e la stanza della musica. Per la stanza del mare, ad esempio, sto scegliendo delle fotografie che immortalano alcune delle sue pescate e in quella della musica pensavo di inserire una postazione con un computer, in cui sia raccolta tutta la sua discografia e magari si possano inserire le basi musicali. Il visitatore potrà lasciare, se avrà piacere, la registrazione della sua versione di quel brano. Non dovrà essere un doppione, ma un approfondimento in cui trovare ciò che non trovi nel Museo.
Da qualche tempo sei anche impegnato insieme al musicista Domenico Bazzoni nel progetto Sonos, una scultura realizzata dalla scultrice Cinzia Porcheddu che sarà collocata a Balai per ricordare e rendere omaggio alla figura di tuo padre.
L’idea di realizzare quest’opera è nata, appunto, più di due anni fa da una proposta di Domenico Bazzoni, noto musicista di Porto Torres e grandissimo fan di papà, tant’è vero che sulla spalla ha anche un tatuaggio che lo rappresenta. Credo nelle coincidenze e l’incontro con l’artista a cui è stata affidata la realizzazione dell’opera me lo conferma. Nel 2009 la scultrice Cinzia Porcheddu aveva partecipato a un concorso per realizzare una scultura da dedicare ad Andrea Parodi e destinata all’Auditorium dell’Istituto commerciale di Sassari. Per il concorso, che poi fu in seguito annullato, aveva già realizzato un lavoro, Sonos. È una miniatura che rappresenta la coda del pesce, ma anche la nota musicale. Sulla scultura sarà incisa la scritta “In Balai abba frisca in coro bajanu”. Ci teneva a rappresentare entrambi i mondi, la musica e la pesca. La sua idea artistica mi è sembrata molto più rappresentativa, profonda, rispetto ad altre proposte. Ho deciso a occhi chiusi che dovesse essere assolutamente lei a realizzarla. Abbiamo avviato una campagna di raccolta fondi, ma il problema del Covid ha rallentato, perché il vero sostegno era stato ipotizzato potesse arrivare durante gli eventi. Fino adesso non c’è stata una grandissima risposta, soprattutto a causa di questo problema, ma speriamo che le persone capiscano l’importanza dell’opera e vogliano contribuire a realizzarla .
Qual è il valore che ti ha trasmesso tuo padre?
Lui mi ha trasmesso un valore con cui ogni tanto mi trovo anche a combattere, che è quello di seguire le proprie passioni. Lui sicuramente ha avuto la fortuna di avere un grande dono, una grande passione che non gli ha lasciato moltissimi dubbi su cosa fare nella vita e quale direzione seguire. Però certamente nel seguire questa passione si è trovato di fronte a un grande bivio: seguire il successo attraverso la via più breve, che era sicuramente quella più commerciale, nei canoni del mercato di questo settore, in sfavore di quella che era diventata la sua passione, il suo credo: la World Music, la lingua, la cultura sarda. Ha dovuto fare delle grandi rinunce in questo senso e credo che l’ultima pagina della sua vita, scritta assolutamente tutta di suo pugno, cioè con i collaboratori ma senza influenze esterne, sia a mio avviso sicuramente la più bella, la più interessante. Confesso anche con grandi scontri con me, io con alcune decisioni che ha preso a suo tempo non ero esattamente d’accordo nella totalità, perché comunque hanno compromesso molto la sua vita e in alcune fasi gli hanno creato dei problemi, anche se poi è stato premiato, in seguito. Ritengo infatti che i più grandi riconoscimenti li abbia presi post mortem… come tanti altri artisti… ma, se guardiamo alla storia, la maggior parte dei più grandi artisti ha avuto problemi di questo tipo. Ne faccio addirittura un canone di riconoscimento dell’artista col “bollino DOC”.
Al termine del viaggio nel Museo, alla fine del percorso multimediale nella storia di Andrea Parodi, resta particolarmente impresso il brano Armentos… si parla dei pascoli divini e del ritorno, di un qualcosa che rimane comunque per sempre nel tempo, come la sua voce, unica, un timbro che esprimeva tutto il senso della vita…
Armentos cela un retroscena che lo avvalora ancora di più: è stato il brano del rincontro con i Tazenda, perché quel brano è stato scritto da Gino Marielli e loro l’hanno realizzato nel periodo in cui le loro carriere erano separate. Da lì poi è nata la famosa “reunion” e avevano ripreso a collaborare. Sanciva l’incontro tra i Tazenda e Andrea Parodi. È stato scritto assolutamente per quell’occasione, l’idea di Gino era di rendere attraverso il brano il concetto di ciò che c’è tra i due pascoli, quello divino e quello terreno, di ciò che li divide ma anche l’auspicio che poi ci si possa rincontrare, perché questi rapporti non terminano mai. Quando sono così importanti, così forti, non terminano mai. Quello era un brano molto caro a papà.
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di Benito Olmeo Fabio Saiu, algherese è il primo artista sardo emergente a pubblicare una monografia completa e ambiziosa, destinata al grande pubblico e alla distribuzione allargata tramite i più importanti circuiti nazionali e internazionali. In questi ultimi due anni, quando non dipinge, Saiu si […]
Arte Benito Olmeo Personaggi PitturaFabio Saiu, algherese è il primo artista sardo emergente a pubblicare una monografia completa e ambiziosa, destinata al grande pubblico e alla distribuzione allargata tramite i più importanti circuiti nazionali e internazionali. In questi ultimi due anni, quando non dipinge, Saiu si dedica interamente a questo progetto di visone e di valore, che raccoglie 23 anni di carriera in 38 opere, in cui si racconta non solo attraverso la sua tecnica ma anche attraverso le parole degli amici eccellenti che firmano i testi in catalogo.
È Pinuccio Sciola che nel 1992 nota i colori di Fabio Saiu, allora studente all’Accademia delle Belle Arti di Sassari, curando e inaugurando nello stesso anno la sua prima mostra “Debuttante” ad Alghero. È Paolo Fresu il primo estimatore ad acquistare le sue opere invitandolo poi, nel 1997, a esporre il suo lavoro in occasione del Time Jazz Festival di Berchidda.
È Massimo Sgroi il critico esperto, nonché curatore di mostre di grande rilievo, a descrivere l’artista e il suo coraggio di mostrare con ironia e irriverenza le contraddizioni dell’umano. A questi personaggi manifesti si aggiunge il nome non manifesto di un importante collezionista del nord Italia, che nel 2017, dopo aver visitato la personale di Saiu presso il Museo di Arte Contemporanea di Caserta, acquista le sue tele supportando e appoggiando vivamente la produzione della monografia.
Quei dipinti oggi compaiono in una raccolta inestimabile accanto alle opere di artisti del calibro di Basquiat, Richter e Warhol. L’intesa ventennale con Antonio Rossi Direttore della Galleria Studio Legale di Caserta, punto di partenza di artisti quotati come Ryan Mendoza, e location di esposizioni personali di notevoli talenti nazionali come Luca Pancrazzi, Loris Cecchini e Andrea Salvino, sanciscono la sua carriera e la consolidano fissando i presupposti per un riconoscimento internazionale.
Ci sono diverse cose che ti legano all’artista Nicola Marotta, una fra tutte quella di averti fatto avvicinare all’arte in modo ancora più deciso. Come nasce questo incontro e cosa ti ha lasciato a livello umano e artistico?
Fabio Saiu:
Quella con Nicola Marotta è un’amicizia storica, nata tantissimi anni fa. Nicola è stato mio insegnante all’Istituto d’Arte, dunque il nostro rapporto iniziale era alunno-professore, che poi, con il passare del tempo, si è evoluto sfociando in una splendida amicizia. Stimo moltissimo
il suo lavoro come artista e so che la cosa è reciproca. E’ un artista campano, trasferitosi giovanissimo ad Alghero per insegnare all’Istituto d’Arte. Si è innamorato del posto tanto da decidere di rimanerci e mettere su famiglia. Mi chiedi perché se ne parli poco? Forse per un fatto caratteriale, essendo lui una persona schiva e taciturna, molto educata e allo stesso tempo altrettanto diretta. Sicuramente negli anni ’70 il sistema dell’arte non era come quello odierno, e ritornando alla questione caratteriale, credo che nel contesto artistico lui sia stato frainteso. Lo stesso Marco Magnani, il critico più illuminato degli anni ’80 e ’90, che seguì anche il mio lavoro, probabilmente non capì l’importanza del lavoro di Nicola, che in Sardegna è stato in qualche modo ghettizzato. Nonostante ciò, a mio parere, tra gli artisti della sua generazione è il più interessante. Nella sua poetica artistica ha fatto sua la lezione di Osvaldo Licini e ha abbracciato l’immaginario di Pompei ed Ercolano prediligendo le figure stilizzate. Tra gli aneddoti che ricordo maggiormente, la volta in cui, quando studiavo in Accademia, mi invitò a tenere una lezione durante la quale realizzai un lavoro al centro della classe interagendo con gli studenti. Oppure quando alle superiori, durante i colloqui con i genitori, ripeteva sempre a mio padre “Suo figlio vive di rendita”, perché avendo io una mano più felice degli altri a fine mese mi bastava eseguire due o tre lavori per accontentarlo, a differenza dei miei compagni di classe che invece si impegnavano assiduamente in ogni lezione. Nicola ha sempre chiuso un occhio perché ero talentoso e gli bastavano quei pochi disegni. Ho capito solo dopo, con il tempo, molte delle cose che mi diceva e cercava di insegnarmi. Vorrei infine aggiungere che da un po’ di tempo stiamo pensando di fare una doppia personale ad Alghero e ciò sarebbe molto bello per la stima che ci lega. Come già ho fatto nel 2001 a Cagliari con Primo Pantoli. Mancano da definire lo spazio e il periodo.
Durante i tuoi studi Accademici la svolta, Pinuccio Sciola nota i tuoi lavori e tra voi nasce un sodalizio umano e artistico che durerà fino alla sua morte (13 Maggio 2016). Cos’ha significato per te vivere l’arte e sentirla raccontare dalle parole di un “gigante” come Pinuccio Sciola?
Fabio Saiu:
Con Pinuccio è stato amore a prima vista. Vide il mio lavoro nell’inverno del 1992 mentre studiavo in Accademia. Lui non era uno dei miei docenti ma quando notò alcuni dei miei lavori esposti nel corridoio dell’istituto se ne innamorò subito. Mi guardò e mi disse “Lavora per tutta questa stagione accademica, e se trovi uno sponsor sarò io a presentare la tua prima personale ad Alghero”. Praticamente fu il mio padrino nel mondo dell’arte sarda. Nell’agosto del ’92, l’allora consulente artistico della Torre di Porta Terra, Manlio Masu, pittore e amico algherese, mi diede lo spazio per la mostra e si strinse un rapporto di stima reciproca anche negli anni a seguire. Il giorno della mia inaugurazione, Pinuccio
mi presentò Marco Magnani, all’epoca critico militante più influente della regione, che apprezzò subito il mio lavoro tanto da coinvolgermi successivamente in diverse mostre. Marco era una persona molto attenta all’arte contemporanea, sapeva leggere molto bene la pittura e scriveva pagine intere nella sezione Cultura de La Nuova Sardegna. Ha curato tante mostre importanti attraverso l’isola e collaborava con la casa editrice Ilisso di Nuoro per la realizzazione di monografie sugli artisti storicizzati sardi. Fu un grande divulgatore e promotore dell’arte in genere. Tornando alla frequentazione con Pinuccio, fu molto lunga e intensa e lui continuò a venire spesso a trovarmi ad Alghero fino a invitarmi, nel ’93, a San Sperate per realizzare un murale in occasione del 25° anno del muralismo in Sardegna. Ci sentivamo spesso e io andavo anche a trovarlo a casa sua. Pinuccio era un vulcano di idee, ne aveva milioni ogni giorno. Era critico, gallerista e mercante, tutto in un’unica grande personalità. Aveva contatti con tutti i comuni e assessorati alla cultura della Sardegna. Era una persona esplosiva e mi voleva molto bene.
Un aneddoto che ricordi con piacere del maestro Pinuccio Sciola?
Fabio Saiu:
Ci sono tanti aneddoti che ricordo sulla frequentazione con Sciola. Quando veniva a trovarmi mi regalava sempre le panadas e le pardulas perché sapeva che ne andavo ghiotto e, come sempre, arrivava scalzo, proprio come all’inaugurazione della mia mostra nel 1992. In quell’occasione mi rimproverò severamente perché prima dell’evento allestii il rinfresco al centro della Torre Porta Terra dove esponevo. Tempestivamente mi fece spostare tutto in un angolino appartato, per non disturbare l’osservazione degli ospiti durante la visione delle opere. Naturalmente feci ciò ingenuamente, era la mia prima mostra in assoluto. Comunque lui da scalzo guidava anche la macchina. Era un uomo immerso nella natura, a contatto con la pietra, e per lui avere i talloni duri come le sue sculture forse era scontato. Ricordo che una volta, poco prima di andare in spiaggia per una performance con alcune delle sue sculture ispirate alle bagnanti, mi regalò un catalogo di Georg Baselitz, un artista neoespressionista tedesco degli anni ’80 su cui feci la tesi nel 1994. Riprendendo il discorso della performance, che era bellissima, mentre andavamo al mare in macchina io pensavo che nella sua borsa ci fosse il suo asciugamano, invece all’interno c’erano delle sculture grandi come una mano che rappresentavano delle bagnanti in varie posizioni. Le dispose sul bagnasciuga e quando le onde le investivano le statue si ritraevano e l’effetto bagnato sulle sculture era stupendo. I passanti incuriositi si fermavano a parlare con Sciola mentre io regalavo loro dei fogli con la sua biografia, che Pinuccio mi aveva dato prima della performance. Un altro ricordo che porto nel cuore riguarda l’inaugurazione nelle tenute vinicole di Sella&Mosca tenuta da Pinuccio. Prima del taglio del nastro, mentre il Sindaco di Alghero parlava e lui era lì accanto, mi vide da lontano in mezzo alla folla e con la mano m’invitò ad avvicinarmi. Sebbene un po’ intimidito, mi feci largo tra le persone e lo raggiunsi. Per coincidenza, in quel momento vicino alla mia fidanzatina c’era la moglie del direttore della cantina, che stizzita dal fatto che mi stessi avvicinando a Sciola, disse all’amica “ma chi si crede di essere questo ragazzino?”. In quell’istante di impeto, la mia fidanzata le rispose che ero l’artista prediletto di Pinuccio, e si ammutolì subito. Questo solo per far capire il bene che mi voleva. Ricordo anche quando, sempre in Accademia a Sassari, un docente mi disse di cambiare scuola dopo aver esaminato il mio lavoro. Ero giovanissimo, talmente amareggiato che piansi e mi risolsi a interrompere gli studi accademici. Fortunatamente mi confidai con Sciola, che prima mi tranquillizzò e poi andò a parlare con il docente, che da quel momento in poi cambiò il suo atteggiamento nei miei confronti. Un’altra cosa bellissima che ricordo ancora è l’enorme aranceto che Piunuccio aveva nella sua casa studio. Il ricordo olfattivo di quelle arance bellissime e buonissime è sempre vivo in me. Ogni volta che tornavo da San Sperate, facevo mia madre felice perché, come al suo solito, Pinuccio mi regalava una cassa intera di arance. Forse non è un caso che l’arancione sia il mio colore preferito.
Nel 1997 partecipi ad una collettiva curata da Carmelo Meazza dal titolo “Artisti Isolani” e sempre in quel periodo Paolo Fresu (uno tra i tuoi primi collezionisti) ti invita ad esporre una tua opera al Time Jazz Festival di Berchidda. Questi momenti cosa hanno portato nella tua formazione artistica?
Fabio Saiu:
Sì, nel ‘97 feci la mostra a Berchidda e anche una collettiva alla Galleria Kairòs di Sassari diretta da Carmelo Meazza, che in seguito, nel 2000, mi invitò a fare anche la mia personale. In quel periodo il suo spazio era uno dei fulcri dell’arte a Sassari, e non solo. Era uno spazio molto bello, articolato su due piani. In quegli anni io collaboravo anche con Giannella Demuro, critica d’arte di Sassari presentatami da Sciola. Ricordo che vennero a farmi una visita a casa, e da quel momento collaborai con lei in diversi progetti. Dopo qualche tempo lei si fidanzò con Antonello Fresu, fratello di Paolo, ed entrambi facevano parte del direttivo del Time Jazz Festival, oltre che organizzare anche delle mostre al PAV, Museo di Arti Visive di Berchidda, che contiene una collezione permanente, con donazioni degli artisti sardi, che durante il periodo del Time Jazz Festival è aperta al pubblico. Sempre nel ’97, in occasione del festival, Giannella e Antonello organizzarono una collettiva intitolata “Tutti giù per terra”. In quell’occasione Paolo Fresu vide i miei lavori e si innamorò di un quadro che poi acquistò. L’amicizia durò nel tempo e mi invitò anche al suo matrimonio. Di Paolo posso dire che è una persona con una grande sensibilità artistica, è un amante dell’arte e la sua firma non poteva mancare nella mia monografia recentemente pubblicata.
In quegli anni la Sardegna vive un momento molto intenso a livello artistico, in quel periodo eri un giovane emergente che viveva tra il classico e il contemporaneo come hai vissuto questo cambiamento. Sempre tenendo presente che già a cavallo degli anni 50/60, Mauro Manca (docente dell’Istituto Filippo Figari di Sassari) aveva fatto da spartiacque tra la pittura tradizionale e l’arte contemporanea in Sardegna.
Fabio Saiu:
Gli anni ‘90 per me, artista emergente, sono stati molto stimolanti. Nel 1994, conclusi gli studi nell’Accademia delle Belle Arti di Sassari, nell’aria sassarese si respirava un grande fermento riguardante gli eventi artistici. Dopo la personale del 1992, feci delle collettive soprattutto a Sassari, come quella nelle sale della Provincia, grazie a Marco Magnani, che si operava per divulgare l’arte contemporanea in tutta la regione. Ricordo con affetto gli inserti su La Nuova Sardegna, uno riguardante la scultura e un altro la pittura. In quest’ultimo, il giornale mi citò tra gli artisti emergenti degli anni ’90. Nel 1996 feci una collettiva itinerante Milano-Caserta, e il mio nome apparve accanto a quello di artisti del calibro di Mimmo Rotella, Ugo Nespolo, Mario Schifano e Jim Dine. Per me era un sogno vedere i miei lavori accanto a quelli di maestri storicizzati, che avevo recentemente studiato in Accademia. A Milano la mostra ebbe luogo presso la galleria Ammiraglio Acton, mentre a Caserta presso la Galleria Studio Oggetto. Il direttore delle due gallerie era Massimo de Simone, promotore della Pop Art italiana, e uno dei suoi pupilli era Franco Angeli, che lavorava con lui. Ricordo che un giorno de Simone, invitatomi nella sua casa milanese, mi fece vedere decine di quadri dello stesso Angeli, tutti bellissimi. Ospitava frequentemente l’artista per lunghi periodi nella sua amatissima Caserta, per consentirgli di continuare la sua ricerca artistica. La mostra ha anche un precedente simpatico nel 1995, quando decisi di mostrare il mio lavoro a Milano. In quell’occasione fu mia madre a supportarmi fortemente, regalandomi un milione di lire, cifra che mi permise di stare a Milano per un certo periodo. Lì avevo un amico, che decise di ospitarmi durante questo soggiorno, consentendomi di risparmiare tanti soldi. E’ stato buffo il rientro in Sardegna, perché restituii a mia madre novecentomila lire. Una settimana dopo il rientro mi contattò la galleria Ammiraglio Acton, dicendomi che a breve si sarebbe tenuta a Milano una mostra collettiva in cui sarebbero apparsi anche i miei lavori. Feci un salto di gioia, perché quello fu il vero primo riconoscimento nazionale. La mostra fu supportata da un bellissimo catalogo.
Nel 2001 è il momento di una doppia personale con Primo Pantoli, la mostra dal titolo “Personalità e nuove presenze” si svolge al Man Ray di Cagliari curata da Mariolina Cosseddu. Altro tassello fondamentale per la tua ricerca artistica.
Fabio Saiu:
Si, ho un bel ricordo di quella mostra con Primo Pantoli, artista cagliaritano scomparso da poco. Andai all’inaugurazione con il direttore dell’Accademia di Belle Arti, Nicola Maria Martino, che stimava molto il mio lavoro, tanto che nel 1994 mi fece rappresentare l’Accademia di Sassari con una mostra collettiva alla Casa Dantesca a Firenze. All’inaugurazione, a Cagliari, venne a trovarmi anche Pinuccio Sciola. Con Primo c’è sempre stato un rapporto di amicizia, affetto e stima reciproca.
Per tua stessa ammissione un altro elemento determinante e fondamentale del tuo percorso artistico è stato vedere nel 2000 i lavori di Daniel Richter alla fiera di Bologna. Il tuo soggiorno a New York nel 2006 e l’antologica di Peter Doig nel 2009 a Francoforte. Cos’è cambiato o meglio maturato in te in quei tre periodi diversi?
Fabio Saiu:
Sono sempre stato un frequentatore di fiere. Nel 2000 quando vidi le opere di Daniel Richter, che io conoscevo tramite le riviste specializzate, fu un colpo di fulmine. Ricordo che i costi erano anche bassi, quadri di 200 x 150cm costavano intorno ai 10.000 euro, ma dopo poco ci fu un’impennata delle quotazioni. Mi piacque così tanto che poiché la galleria di Berlino che lo rappresentava, la Contemporary Fine Arts, aveva a disposizione un solo catalogo dell’artista, per averlo fui costretto ad attendere fino all’ultimo giorno di fiera. Di Peter Doig ho visto l’antologica itinerante a Francoforte, in precedenza era al Pompidou di Parigi e alla Tate Gallery di Londra. Rimasi folgorato. Con Daniel Richter e Adrian Ghenie, è uno degli artisti che ammiro di più. Anche New York è stata determinante per la mia ricerca. Devo ammettere che in quel periodo mi trovavo un po’ spaesato perché in Italia vigeva una pittura fredda, chiamata mediale, attenta ai dettagli. Per chi come me prediligeva una pittura più libera, più legata al neoespressionismo tedesco, era difficile farsi strada. A New York mi trovai subito a casa, soprattutto quando visitai Chelsea, dalla 16ma alla 22ma strada, dove le gallerie si susseguivano una dopo l’altra. Spazi bellissimi, ottenuti dalla ristrutturazione di vecchie fabbriche. Pittura di tutti i generi, in tutte le prospettive, dalla più figurativa a quella più astratta. Un’esperienza esaltante per me. Sono rientrato in Sardegna pieno di idee, e ancora più motivato e consapevole che la direzione che stavo seguendo fosse quella giusta. Ricordo che la direttrice del Chelsea Museum, incuriosita dalle mie richieste di cataloghi di pittori emergenti, come Matthias Weischer e Dana Schutz, mi chiese di cosa mi occupassi, e mostrandole dal telefono alcune delle mie opere, mi consigliò di restare a New York, perché osservando i miei quadri trovò delle attinenze con quello che realizzavano i giovani pittori in quel momento a New York. Decisi comunque di tornare in Sardegna.
Altro punto fermo della tua carriera sono Antonio Rossi direttore della Galleria Studio Legale di Caserta (tuo gallerista). Come sei venuto in contatto con questa galleria e cosa ha aggiunto alla tua carriera artistica?
Fabio Saiu:
Il sodalizio con Antonio Rossi dura da ben 20 anni. Lo conobbi nel 2000 a Torino in occasione della sua partecipazione ad Artissima. Io ero molto incuriosito, conoscevo la sua galleria, ricordo che nel suo stand aveva dei quadri di Ray Mendoza, artista da lui scoperto nel 1997, e poi riconosciuto a livello internazionale, tanto da esporre alla galleria White Cube di Londra, che ha sempre seguito il lavoro di Damien Hirst, uno degli artisti più famosi al mondo. Avvicinandomi al suo stand, e complimentandomi per quelle opere, iniziammo a dialogare, gli mostrai delle foto e da lì in poi nacque la nostra amicizia. Ogni tanto gli mostravo le mie opere e dopo alcuni anni, quando il mio lavoro fu più maturo, mi invitò a varie collettive, fino ad arrivare alla mia personale al MAC3 di Caserta nel 2017. La Galleria Studio Legale è sempre stata riconosciuta a livello nazionale come una galleria propositiva, con un occhio molto attento alla pittura. Ha promosso artisti che hanno poi avuto fama nazionale, come Luca Pancrazi, Andrea Savino, Loris Cecchini e tanti altri. Tra le mostre di spicco della galleria, una su tutte quella del 1995 di Enzo Cucchi tenutasi alla Reggia di Caserta. Il mio approdo in questa galleria sembra quasi un segno del destino, perché nel lontano 1996, come detto in precedenza, il gallerista era anch’esso casertano.
Il tuo stile è riconoscibile, le tue opere riflettono il tuo inconscio con una gestualità precisa e sensibile. Un tuo lavoro ha colto la mia attenzione, Mal di Denti 2017, un lavoro drammatico e ironico come la tua poetica, che in me ha provocato sensazioni contrastanti, mi racconti com’è nata l’opera?
Fabio Saiu:
L’opera riflette sempre lo stato d’animo dell’artista. Molto banalmente in quel momento soffrivo di mal di denti. Le cose nascono in maniera casuale quando sei in studio. Guardi la tv, vedi un’immagine, sfogli un giornale e a un tratto ti si accende la lampadina. A proposito di quel quadro, un giorno sfiorandomi il dente dolorante, ho avuto l’idea. Mi è piaciuto così tanto da farne tre versioni. Una con tecnica ad olio in bianco e nero, una ad olio a colori e un disegno con la grafite.
Proprio in questi giorni esce la tua prima monografia frutto di più di 20 anni di lavoro, ce ne parli?
Fabio Saiu:
La monografia è nata dopo trent’anni di ricerca artistica, e venti di sodalizio con il gallerista Antonio Rossi. Ha motivato anche questo progetto un grosso collezionista del Nord Italia, che acquistando i miei lavori, ha sollecitato il gallerista a creare la mia monografia. Il collezionista in questione è un amante della pittura, e la sua collezione vanta nomi del calibro di Andy Wharol, Gerhard Richter e Basquiat. Oramai era giunta l’ora, il lavoro era maturo, e quindi abbiamo deciso di investire i soldi della vendita dei quadri di questo collezionista nel progetto in questione. La monografia ripercorre il mio percorso artistico dal 1996 al 2019, con all’interno tre preziosi contributi critici. Uno è di Pinuccio Sciola, che ricordo sempre con grande affetto, riportando il testo che lui scrisse nel leaflet della mia mostra che lui stesso presentò nel 1992. Gli altri due testi in catalogo sono invece di Massimo Sgroi e Paolo Fresu. Sgroi, critico e direttore del MAC3 di Caserta, ha curato mostre in gallerie private come Raucci/Santamaria a Napoli e in spazi pubblici come la Reggia di Caserta. Sotto la sua curatela mostre prestigiose, come quella del famoso artista Miltos Manetas. L’intervento del jazzista Paolo Fresu può sembrare inusuale per una monografia d’arte, ma ritengo che la musica jazz si accompagni bene con le pennellate e i toni di colori quando dipingo, creando una sinergia unica. Nel catalogo, inoltre, non appare solo la parte pittorica, ma anche la ricerca di diverse tecniche su carta. Mi piace molto disegnare e lavorare usando tecniche miste nella stessa opera. Sulle stesse carte convivono tecniche con pastelli, pastelli a olio, acquarello, olio, grafite, che interagiscono tra loro.
Riferito alla tua ricerca, quanta sofferenza e difficoltà hai trovato nel mondo dell’arte?
Fabio Saiu:
La carriera di tutti gli artisti è in salita, soprattutto all’inizio, quando bisogna farsi notare dal sistema dell’arte, nel contesto in cui ci si trova. Il sentiero è fatto di percorsi ripidi e piani e ricordo che inizialmente faticai molto per farmi notare in Sardegna. Mostravo la mia ricerca agli addetti ai lavori e nello stesso tempo venivo invitato a delle mostre. Nel 1998 quando Nicola Maria Martino, direttore dell’Accademia di Belle Arti di allora, fece una mostra nelle sale della Provincia di Sassari, conobbi il curatore Luca Beatrice, che in quel momento era un critico di
grido nel panorama nazionale. Per anni ha collaborato con Flash Art, occupandosi quasi esclusivamente di pittura, e nel 2009 diventò direttore del padiglione Italia della Biennale di Venezia. Lo conobbi all’inaugurazione e volle vedere il mio lavoro, così gli mandai del materiale a Torino. Gli piacque, e incuriosito venne a trovarmi in studio un paio di volte; prese due lavori per mostrarli e mi promise che nell’arco di un anno avremmo organizzato la mostra a Milano o a Torino, avendo lui in quel periodo tanti contatti con molti galleristi. La sorte ha voluto che nel giro di un anno non si fece nulla, perché a nessun gallerista piacque il mio lavoro. Un altro aneddoto per capire il paradosso del mondo dell’arte riguarda Ray Mendoza. Mostrò anche lui il proprio lavoro a tanti galleristi importanti, ma nessuno gli diede retta, tranne il mio gallerista, che nel giro di un paio di anni gli organizzò la mostra personale a Caserta, e in poco tempo divenne un’artista conteso a livello internazionale. Nell’arte oltre ad essere molto bravi, serve anche molta fortuna, cioè trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Ma in fin dei conti, come diceva Maria Lai, un’artista deve lavorare solo per risolvere le proprie inquietudini e non per diventare una star. Lei un giorno mi ribadì che era stanca di incontrare artisti frustrati che pensavano solo alla carriera, e non a lavorare seriamente. Sosteneva anche il fatto che l’opera d’arte “va da se”, perché gli altri la giudicano tale, senza bisogno di strategie da parte dell’artista.
“Noi artisti siamo dotati di una particolare sensibilità nell’assorbire e nell’esprimere quello che ci sta attorno, a volte senza nemmeno capire dove si può arrivare”. Questa frase di Arnaldo Pomodoro penso che sia il sunto di quanto ci siamo detti, sei d’accordo con me?
Fabio Saiu:
Questa frase mi trova assolutamente d’accordo. La sensibilità è legata allo stato d’animo del momento, e se, ad esempio, un giorno sono di malumore allora non riesco a lavorare. Noi artisti siamo molto curiosi e assorbiamo tutto come delle spugne, e tutto ciò si riversa sulla ricerca artistica. Come diceva Picasso, agli artisti rimane tutta la vita la curiosità dei bambini, che si riflette quotidianamente sul lavoro. Lo stesso Picasso, a proposito di sensibilità, provato dalle guerre e dai bombardamenti su Guernica nel 1937, dipinse il suo grande capolavoro.
Se dovessi rappresentarti con un tuo lavoro come lo faresti?
Fabio Saiu:
Non c’è un lavoro che mi rappresenta. Tutti i lavori che ho realizzato sono lo specchio della mia anima e del momento che vivevo. Gioie, dolori e tensioni. Rappresentano tutti il mio essere e la mia personalità, come ad esempio La mia Viola del 2018. Ho concepito questo lavoro in una fase esaltante della mia vita, quando mia moglie era in gravidanza. In quel momento ero talmente teso e felice che sono riuscito a realizzare una bellissima opera ispirata alla nascita di mia figlia. Sono talmente affezionato a questo lavoro che l’opera resterà sempre nella mia collezione.
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di Luciana Satta Ho iniziato a scolpire migliaia di anni fa. Molti si stupiscono per il gran numero di opere che ho prodotto, una dopo l’altra, nel corso di molti anni. Perché avrei dovuto limitarmi? Ho qualcosa da dire e attraverso la pietra riesco a […]
Arte Luciana Satta Personaggi SculturaHo iniziato a scolpire migliaia di anni fa. Molti si stupiscono per il gran numero di opere che ho prodotto, una dopo l’altra, nel corso di molti anni. Perché avrei dovuto limitarmi? Ho qualcosa da dire e attraverso la pietra riesco a dirlo.
Pinuccio Sciola
Quando nasce l’incontro tra l’artista Sciola e la sua principale fonte di ispirazione, la pietra?
MARIA SCIOLA: «Il legame di Pinuccio Sciola con la pietra è un rapporto di vero e reciproco amore.
L’oggetto della sua arte è principalmente la pietra, un qualcosa di sterile, muto, che sotto le sue sapienti mani si trasforma, si evolve e acquisisce capacità comunicativa. Sciola non considera questa come un’evoluzione, bensì un ritorno alle origini, alla Madre Terra.
Sin dagli inizi della sua carriera, è fin da subito notato per le grandi possibilità d’intervento, perché in lui bene si amalgamano istinto e cultura, desiderio di conoscenza, entusiasmo nel lavorare i diversi materiali: conserva una mobilità artistica considerevole, accanto all’ininterrotto e diversificato dialogo personale con la pietra. Intraprende negli anni un’intensa lavorazione materica con esiti di alta qualità, quali la sperimentazione grafica e pittorica, la scultura lignea, la terracotta, il ferro e il bronzo.
Le sue creazioni, infatti, si susseguono e si intrecciano, sospendendosi e riattivandosi. Questo avviene perché tali percorsi materici sono nati dall’impulso di creare per la comunità e hanno come finalità la riappropriazione e promozione delle origini antropologiche, culturali, artistiche e naturali della Sardegna.
La natura e la pietra sono sempre state un punto di partenza per le sue creazioni artistiche. Sono i soli modelli di cui si abbia una conoscenza reale: la Sardegna, la più bella scultura al centro del Mediterraneo, è per Sciola un esempio particolarmente interessante di natura che conserva la stratigrafia della memoria della civiltà e la memoria che vive il presente.
Le sue sculture sono espressione di questa continuità di dialogo nel tempo. In questo contatto con la pietra vi è tutto il legame di Sciola con la Sardegna. L’isola fatta di pietra.
L’artista dialoga con la pietra per rispondere alla sua vocazione e si pone come proprio amanuense. È convinto che la materia abbia una storia da raccontare, essendo stata testimone dell’età dell’uomo, del tempo e dello spazio, del clima e della geografia.
L’elemento più arcaico nella plastica di Sciola è quel particolare «farsi presente» dell’immagine. Sciola non crea, si limita a scoprire ciò che “sente” come già creato. In ciò si riconosce l’unicità di approccio dell’artista verso i materiali e verso la scultura, ovvero un rapporto di sacrale rispetto.
Lo stile, nel corso degli anni, non è cambiato. Si tratta sempre di opere dove l’intervento dello scultore è ridotto al minimo per accentuare, senza snaturare, il messaggio che la materia porta racchiuso in sé. Non esiste, nell’intera produzione di Sciola, un’immagine levigata e segnata dal finito. L’universo della forma è solo periferico rispetto alla centralità della materia, perciò i segni dello scalpello non hanno mai prevaricato su quest’ultima, in stretta relazione con il grande esempio di Henry Moore, lo scultore che ha fatto parte del filone della scultura vitalista inglese, caratterizzata dal rinnovato interesse nei confronti di una riscoperta delle caratteristiche intrinseche dei materiali, che ha fortemente influenzato tutta la produzione italiana a partire dagli anni ’50 del ‘900. Con Moore l’orpello del dettaglio viene eliminato per una comunicazione più diretta ed efficace: comune a Sciola è l’intimo atteggiarsi delle forme in modo così rude e immediato e comune è la semplificazione arcaistica che caratterizza le loro sculture.
Ha cercato nei massi quello che si poteva cavarne, senza infierire, esaltandone la forma con interventi minimi, che in alcuni casi dalla produzione dagli anni ’80 in poi suggeriscono all’occhio nervature di foglie o escrescenze vegetali o assumono un valore totemico, i cui significati esatti rimangono un mistero.
Le figure simili a stele, ritagliate da trachite e basalto ricordano i Menhir, le loro disposizioni spaziali evocano Dolmen preistorici. I megaliti di Sciola però, parlano una lingua moderna, perché incisa sulla loro superficie è una cicatrice cesellata, una proliferazione di buchi equidistanti, una traiettoria di linee incrociate e forme geometriche. Le forme astratte giocano elegantemente sull’interazione tra arte e natura, forma e contenuto, idea e materia.
La natura con Sciola diventa complice, non è più soggetto per l’arte, bensì è Arte. La sensibilità nei confronti dell’ambiente naturale lo porta a sviluppare in scultura una poetica legata al rapporto tra l’uomo e la terra, il rispetto che necessariamente l’essere vivente deve avere con l’universo vegetale per una convivenza in perfetta armonia».
La pietra è natura. E la natura è madre.
Pinuccio Sciola
Scultura, architettura, musica sono gli elementi fondamentali dell’arte di Pinuccio Sciola. Aligi Sassu lo definì “Un autentico creatore di forme, erede degli antichi costruttori di Nuraghi”. Sciola ha portato la sua arte in tutto il mondo. Un’esperienza fondamentale nell’immaginario dell’artista fu la frequentazione del Museo Nacional de Antropologia di Città del Messico. Quanto è presente il connubio e la mescolanza tra le radici sarde e la cultura precolombiana in Pinuccio Sciola?
MARIA: «Dopo aver conseguito la maturità al Liceo Artistico di Cagliari nel 1964, Pinuccio Sciola vince una borsa di studio per poter frequentare il Magistero d’Arte di Porta Romana, a Firenze. L’anno dopo si iscrive all’Accademia Internazionale di Salisburgo, dove ha l’opportunità di seguire i corsi di Minguzzi, Kokoschka, Wotruba, Vedova e Marcuse.
Negli anni ’60 durante i suoi numerosi viaggi di studio per l’Europa, utili per alimentare la sua sete di conoscenza e per cercare una sua autodeterminazione artistica, entra in contatto con diverse personalità artistiche come Giacomo Manzù, Aligi Sassu e Henry Moore.
Nel periodo di formazione degli anni Sessanta si evidenzia un riferimento da parte sua, ricco tuttavia di fermenti popolari, alla tradizione classica della scultura italiana. In primo piano vi è il suo entusiasmo per la lezione plastica michelangiolesca e un’acuta sensibilità per la forma, proiettata verso maestri come Arturo Martini, Marino Marini e Giacomo Manzù, quest’ultimo conosciuto nel 1964 a Roma tramite l’artista sardo Aligi Sassu, dal quale il giovane Sciola ricava una forte assonanza stilistica di gusto gotico per quanto riguarda la serie dei Vescovi e Cardinali (1965-1966), fatta salva la sua libertà inventiva e originalità.
Un particolare approccio è frutto degli incontri avuti con vari artisti conosciuti nell’ambito dell’Accademia Internazionale di Salisburgo, tra cui spiccano Emilio Vedova, Oskar Kokoshka, Luciano Minguzzi e Friz Wotruba. Da ciascuno di essi Sciola trae degli elementi artistici che reinterpreta e fa propri: da Vedova attinge una costante sperimentazione tecnica e materica, nonchè una libera e dinamica gestualità informale, carica di tensione emotiva che Sciola sembra tradurre nel legno; da Kokoshka recepisce la capacità di esprimere l’intimo dell’umanità moderna in modo incisivo ed efficace; da Minguzzi assorbe una resa figurativa densa di accenti espressivi ed esistenziali che offrono soluzioni diverse ma pur sempre rivolte ai valori materici e strutturali; da Wotruba, che realizzava sculture astratto-geometriche, accoglie l’idea di una decisiva preferenza verso la pietra.
Però, l’esperienza formale che maggiormente conta nella precisione di uno stile e di una tematica e che ha influenzato la sua Arte è quella vissuta nella penisola iberica nel 1967, quando frequenta l‘Università della Moncloa a Madrid entrando in contatto con diverse espressioni artistiche, tra cui spiccano i casi della scultura romanica spagnola e delle pitture rupestri delle Grotte di Altamira.
Nell’incontro con la scultura romanica spagnola Sciola trae stimoli su cui insistere in un territorio tematico-stilitico a lui abituale e familiare, cogliendo una dimensione arcaica configurata come spessore di una quotidianità senza tempo. Nelle immagini di Altamira e nell’idea di graffito, invece, Sciola individua un rapporto di stretta appartenenza alla materia pietra, la quale, più che un utensile della cultura materiale, è stata per questa civiltà un medium nel quale liberare l’interiorità immaginativo-fantastica della cultura umana.
Al giovane Sciola non interessa tanto la forma di quella testimonianza quanto il rapporto formatosi tra l’uomo e la pietra. Di fronte alle pitture rupestri lo scultore riesce a risolvere il suo personale rapporto con il passato protosardo a cui si sente particolarmente legato, sviluppando la sua Arte in direzione di un’autolegittimazione delle proprie radici.
Nel 1973 si reca, in seguito all’invito da parte dell’Unesco, a Città del Messico per conoscere e collaborare con uno dei padri fondatori del muralismo messicano, David Alfaro Siqueiros, dando vita, nel 1975, ad un gemellaggio artistico tra il paese di San Sperate e Tepito, un quartiere popolare di Città del Messico.
Le esperienze formali vissute in Spagna sono l’inizio di una dialettica di autoriconoscimento che ha avuto il suo punto di massima intensità nell’incontro, avvenuto in terra messicana con le sculture precolombiane e con David Alfaro Siqueiros, il quale ha riconosciuto nella sua opera una manifestazione convergente con i linguaggi maya ed un’essenzialità di forme, mossa da origini neolitiche.
Quel viaggio – ricordava Sciola – fu come un percorso in una vita precedente.
In Messico, Sciola proietta il senso della sua ricerca verso una dimensione più arcaica ed integra in sintesi il significato delle esperienze precedenti.
Sciola, quindi, andato a studiare in Messico le grandi opere muralistiche e secondo Aligi Sassu anche per misurare l’eguaglianza e la diversità che accomunava due civiltà tanto diverse e lontane nello spazio e nel tempo, eppure tanto simili nell’anima delle forme, ha trovato terreno fertile per propagandare l’esperienza del suo Paese Museo; è stata una permanenza ricca di incontri e iniziative che interessarono Sciola non solo come promotore sociale ma anche come scultore. La notorietà dell’artista interessò anche i più importanti quotidiani nazionali, i quali pubblicarono fotografie e lunghi articoli riguardanti il suo operato artistico.
Sciola in Messico, inaugura anche un’esposizione personale intitolata Disegni e impressioni riguardo il Messico (Dibujos e impresiones sobre Mexico), nell’Istituto Italiano di Cultura dell’ambasciata italiana I disegni esposti, realizzati durante la sua permanenza, esprimono artisticamente i suoi concetti riguardo il Messico, come frutto e testimonianza della sua prima esperienza messicana che lo ha avvicinato alla storia artistica e alla cultura pre-ispanica del Paese, della quale Sciola rimase “impressionatissimo”. Siqueiros vedendo l’operato artistico di Sciola ha constatato che nelle sue opere ci fosse il concetto della sintetizzazione della forma, del volume e della relazione tra i volumi .
Alla domanda “Cosa ne pensa delle sculture che ha visto in Messico?” del critico Francisco Zenteno per la rivista Vision, Pinuccio Sciola ha risposto con queste parole:
Mi interessa spiegare quello che ho visto nel Museo di Antropologia. Avevo letto riguardo gli abitanti di Atlantide e di Tula e credevo che tutto il paesaggio messicano fosse plasmato da queste figure monumentali, poi però ho scoperto delle piccole figure che sono state create in gran quantità dalla gente del Paese. Ho conosciuto, quindi, non solamente le opere grandi e monumentali ma anche quelle realizzate dalla massa. Queste figure, con la loro sensibilità, raccontano della passata vita quotidiana perciò non contengono la retorica del grande artista, spesso molto lontana dalla comprensione della massa. E per me le civiltà antiche messicane avevano un alto livello di sviluppo artistico perché arrivarono a fare cose che tutti potevano comprendere. Questo è molto importante se teniamo in considerazione i giacimenti di altri luoghi in cui si trovano anfore, vasi, piatti e oggetti piccoli utili alla vita quotidiana. Qui oltre agli utensili esiste una grande quantità di piccole statue e piccole opere d’arte, non sono solamente di dei o guerrieri ma sono anche scena di vita quotidiana, questo è ciò che più mi ha commosso perché parla di quanto sia importante la relazione tra artista e popolo rispetto alla relazione tra l’artista affermato e gli studenti e intellettuali.
La visita in America Latina è dunque per Pinuccio Sciola una grande rivelazione, una tappa necessaria ai fini della sua formazione e un motivo in più per diffondere l’esperienza artistica di San Sperate. È l’incontro in prima persona con David Alfaro Siqueiros a determinare l’avvicinamento tra due realtà apparentemente distanti e l’intesa tra i due artisti, tanto che Siqueiros si potè sbilanciare chiamando il giovane Sciola Maestro e affermando: Hombre, tu eres un maya que ha vivido muylejo de aqui (“Tu sei un maya che ha vissuto molto lontano da qui”)».
Oltreoceano lo scultore ha avuto occasione di conoscere David Alfaro Siqueiros, il grande padre del muralismo. Così Sciola ha trasformato San Sperate in un Paese Museo. Tanti giovani artisti hanno dipinto i muri del paese con i noti murales che rappresentano il mondo tradizionale sardo. Cosa resta oggi di questa visione del mondo di Sciola, ovvero “trasformare l’arte e la cultura da interesse di pochi a interesse popolare”?
MARIA: «Sciola è stato un trascinatore, un generoso mediatore culturale e politico, ha sacrificato o esaltato una parte della sua personalità artistica per farsi organizzatore culturale, per mettere in contatto l’arretratezza della Sardegna con il mondo artistico internazionale. Nonostante questa sua universalità, Sciola è rimasto legato alla sua terra, in maniera profonda e viscerale.
San Sperate, ancora oggi, si impone come centro artistico tra i più importanti della Sardegna e della penisola: oltre che Paese-Museo, con più di 400 murales ed installazioni, è un punto di riferimento di arte contemporanea dove studenti e artisti soggiornano per collaborare e contribuire allo sviluppo dell’attività culturali.
La Fondazione Sciola prosegue lo spirito di apertura e di condivisione di Pinuccio Sciola, soprattutto attraverso il legame con la comunità di San Sperate alimentando lo scambio con artisti che ogni anno provengono da tutto il mondo.
Il Festival di Sant’Arte a San Sperate incarna perfettamente questo legame di compartecipazione. È un Festival nato da un’idea di Pinuccio Sciola e portato avanti dalla Fondazione Sciola nel 2017 con il preludio, nel 2018 con la I edizione Ambiente come Storia, Arte come racconto e nel 2019 con la II edizione Arte=relazione sociale.
Ci vorrebbe una festa, come quella che si fa ai Santi..la festa di Sant’Arte! L’unica festa del calendario da festeggiare tutti i giorni dell’anno. Perché è l’unica festa che salva l’uomo dall’appiattimento mentale.
Pinuccio Sciola
Il festival di Sant’Arte alimenta questo spirito unendo tutte le arti visive e performative che in continuo fermento caratterizzano lo scenario contemporaneo. Un festival popolare, dalla partecipazione condivisa, che mette l’Arte in strada, seguendo la provocazione delle scuole antiaccademiche internazionali, l’arte fuori dai musei, dalle gallerie, dai teatri e dai libri.
Attraverso la messa in scena di molteplici spettacoli dal vivo, si fondono i nuovi linguaggi espressivi con forme di interazione tra artisti e spettatori, che diventano protagonisti attivi.
Alla fine degli anni Sessanta, Sciola quasi inconsapevolmente inizia una delle prime forme di Arte Pubblica in Italia, trasformando il suo piccolo paese in un Paese Museo e portando il muralismo in Sardegna.
Durante la primavera del ’68 in tutta l’Europa un’enorme quantità di giovani protesta contro un sistema chiuso e repressivo affollando le piazze e le Università in nome di uno spirito di rinascita. Pinuccio Sciola si trova prima a Madrid in mezzo alla repressione franchista poi a Parigi scampando per poco ai subbugli in corso all’Università della Sorbona, in coincidenza del maggio francese; respira l’atmosfera di queste rivolte studentesche, tanto da assorbire quella carica vincente da utilizzare nella sua terra natia. È la fine di maggio del 1968 quando l’artista ritorna dai primi viaggi di studio e quando il piccolo centro di San Sperate, paese di fango, poiché interamente costruito con i tipici mattoni crudi campidanesi, si sveglia da un torpore quasi secolare. Sciola si rende conto del divario culturale creatosi tra lui e le stesse persone con le quali prima condivideva ogni momento della sua giornata, perciò decide di coinvolgerle con il mezzo migliore che conosceva: l’Arte.
Come afferma lo stesso Sciola:
Le basi del mio muralismo sono stati i miei primi viaggi di studio che mi hanno permesso di acquisire una maturità che i miei amici rimasti a San Sperate non potevano avere. Da lì nascevano i miei primi crucci; in particolare mi chiedevo perché soltanto a me era toccato quel grande privilegio. Mi dicevo che se anche gli altri avessero avuto la fortuna di essere educati dalla scuola la loro stessa vita poteva cambiare. Cominciai a pensare che fosse colpa della scuola a non aver dato a tanti giovani gli strumenti per capire e avvicinarsi all’arte. Per questo io mi immaginavo sempre di riuscire a trovare un modo per comunicare a tutti, agli amici, ai parenti, a tutto il paese, la sostanza delle esperienze che stavo facendo. Per questo ho sentito l’esigenza di coinvolgerle nelle mie esperienze, il modo migliore per farlo erano la strada e i muri. [..] La strada era l’unico mezzo di comunicazione tra me e i miei amici, perché nelle strade passano tutti. I muri sono un supporto ideale per poter scrivere le storie straordinarie dell’arte in maniera immediatamente visibile e comprensibile a tutti. [..] Allora ero convinto, sulla scia del movimento politico e sociale del ’68, che era un dovere “insegnare l’arte”, che avrei potuto alfabetizzare un’intera popolazione che non aveva mai sentito parlare di scultura e pittura. Con gli anni ho dovuto ricredermi: un artista non può mai essere un insegnante e l’opera d’arte non può mai essere didascalia.
L’esigenza di Sciola è stata quella di portare l’arte al popolo, in lui nasce un desiderio di condivisione, compartecipazione e volontà di smuovere le coscienze e di proiettare San Sperate in un panorama più ampio dove tutti in un modo o nell’altro potevano ritrovarsi.
Il caso vuole che in quel periodo San Sperate festeggiasse il Corpus Domini, una delle celebrazioni più sentite, alla quale tutti gli abitanti del paese vogliono prendere parte nel migliore dei modi, indossando gli abiti più nuovi e addobbando balconi e finestre con le coperte e le lenzuola più lussuose. Nella nona domenica dopo Pasqua si celebra il passaggio del Santissimo, da sempre era usanza comune nei piccoli centri di allestire alcune cappelle nei diversi vicinati, spargendo frasche di menta e fiori, canne e rami di alloro per terra lungo tutto il cammino della processione.
Sciola, senza pensarci due volte, si carica la pompa per la calce e comincia ad imbiancare i muri, soprattutto della sua strada di casa, la via Concordia. Una strada bianca, lattea, qualche giorno prima del Corpus Domini.
Quello di Sciola è il primo gesto di un’imminente trasformazione del paese attraverso il colore, per illuminarlo e staccarlo così dal colore dominante delle argille dei campi e dal grigiore delle strade sterrate.
La reazione del paese è immediata, la gente percorreva e ammirava, quasi incredula, quei muri bianchi dipinti e durante la festa reagisce positivamente accettando la proposta di Sciola di migliorare l’aspetto delle proprie abitazioni e quindi di tutto il paese, attraverso la rappresentazione di temi legati alla realtà ordinaria del mondo contadino.
Sciola si è posto come la sentinella che passava a scuotere ad uno ad uno gli abitanti di un centro contadino sopito da tempo.
Nei giorni che seguono a San Sperate non si parla d’altro. É proprio questo fatto a dargli la conferma: l’idea che gli balena in testa è quella giusta. L’idea di imbiancare e poi dipingere sui muri di tutto il paese deve però necessariamente sperare nel sostegno di altri artisti e della comunità che non subisce passivamente il progetto muralistico, anzi con la sua ospitalità e disponibilità è l’unico soggetto sociale a rendere possibile e prolungata nel tempo quell’esperienza.
Pinuccio Sciola non è stato un capo, ma un trascinatore, talmente genuino e spontaneo che la gente non si faceva domande, non si chiedeva minimamente se lo facesse per un qualche suo tornaconto personale. Il suo era lo spontaneismo più totale e la gente seguiva e a sua volta proponeva.
Pinuccio Sciola in poco più di un anno ha saputo caricare i suoi concittadini dell’entusiasmo necessario per affrontare un’opera che ha richiesto convinzione, fiducia, dedizione e soprattutto consapevolezza di agire per la collettività, è riuscito a trasformare il suo paese in un Paese Museo, grazie all’aiuto dei suoi concittadini e dei tantissimi artisti provenienti da tutto il mondo che hanno dipinto e continuano a dipingere i muri di San Sperate.
La rivoluzione degli anni Sessanta ha portato San Sperate nel mondo e il mondo a San Sperate, grazie all’arguzia di un giovane contadino pittore goloso di culture sconosciute e di orizzonti lontani».
La pandemia ha messo in luce la relazione presente tra distruzione delle risorse naturali e diffusione di nuove malattie. La vita di Sciola è stata segnata da una missione: ricreare un nuovo rapporto tra l’uomo e la natura. La Fondazione Pinuccio Sciola oggi più che mai ha la responsabilità di diffondere questo messaggio (l’importanza di preservare e rispettare la natura), soprattutto alle nuove generazioni. In che modo lo fate?
MARIA: «Durante il lockdown, dovuto all’emergenza sanitaria, il Giardino Sonoro è rimasto chiuso e la natura si è ripresa il suo spazio, ricoprendo opere e basamenti.
Come affermava lo stesso Sciola:
Spero che un giorno le mie opere ritornino ad essere parte della Natura, dove sono state create.
Però le attività della Fondazione, tramite il web e i social, non si sono mai fermate; soprattutto le attività di ricerca, per quanto riguarda l’Archivio dell’artista, le attività di divulgazione e di comunicazione dell’opera di Pinuccio Sciola in grado di parlare tutte le lingue del mondo e con tutte le culture: un’arte per tutti, perciò molto attenta anche all’inclusione e alle esigenze delle persone con disabilità.
Per questo motivo, durante questo periodo, la Fondazione si è impegnata nella creazione di video fruibili anche dal linguaggio CAA (Comunicazione Aumentativa e Alternativa), atto a semplificare la comunicazione nelle persone che hanno difficoltà ad utilizzare i più comuni canali comunicativi; e nella creazione di contest laboratori virtuali per bambini che, in particolare, si sono cimentati nella realizzazione dei “patamostri“, i giocattoli che il piccolo Pinuccio Sciola soleva inventare con la verdura e i legumi del suo orto.
Dal 22 maggio 2020 il Giardino Sonoro è nuovamente fruibile in totale sicurezza, grazie al nuovo servizio di audioguida che prevede un percorso itinerante tra le 8 opere principali dell’artista che esemplificano il suo percorso artistico e stilistico. Un viaggio introspettivo in totale connubio con la natura, reso più emozionante dalla voce di Pinuccio Sciola che racconta alcuni aneddoti collegati alle opere stesse».
“Il calcare ha un suono liquido, semplicemente perché questa pietra dal punto di vista geologico non è altro che acqua fossilizzata. Il basalto ha invece origine vulcanica, si sente soltanto il suono del fuoco e della terra. Ogni materia ha la propria memoria, accarezzandola tiro fuori quello che c’è dentro.” “L’unica pietra che non suona? Il marmo di Carrara. E’ questa, secondo l’artista, la ragione per la quale il Mosé di Michelangelo non poteva parlare.” Mi ha affascinato l’omaggio che Sciola fece quando suonò le sue pietre davanti alla tomba del Buonarroti, in Santa Croce, a Firenze, per “dimostrargli che la pietra è viva”. Può ricordare quel momento?
MARIA: «Nel 2013 durante l’esposizione Semi di pace, Suoni di pietra, Città sonore nella chiesa di Santa Croce a Firenze, Sciola insistette per suonare di fronte alla tomba di Michelangelo, raccontando successivamente “Ho iniziato piano, piano per non svegliarlo di soprassalto”!
Sciola ha suonato le sue Pietre Sonore con la consapevolezza di aver scoperto il mistero che aveva tormentato fino alla morte il grande Artista: Perché non parli? chiedeva al suo Mosé che, racchiuso nel marmo di Carrara, rimaneva inesorabilmente muto.
Come ha affermato Sciola:
Michelangelo si è addormentato da tanti anni arrabbiato perché non riusciva a far parlare il suo Mosé, ma non poteva sapere, allora, quello che ho scoperto oggi con l’aiuto della moderna tecnologia. Anch’io ho provato a far suonare un pezzo di marmo di Carrara nel mio laboratorio ed ho rivissuto la stessa frustrazione di Michelangelo. Il marmo non rispondeva.
Il marmo di Carrara, detto anche marmo zuccherino, a causa della sua conformazione geologica non permette la propagazione delle vibrazioni e del suono, come invece succede con la pietra calcarea sarda.
Pinuccio Sciola persegue il suo dialogo con Michelangelo tre anni dopo, il 27 aprile 2016, due settimane prima della sua prematura scomparsa. La Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma ospita l’incontro, curato da Lorenzo Carrino, dal titolo La Voce della Pietra – Il Mosè di Michelangelo e le Pietre Sonore di Sciola, un “dialogo” tra il marmo (muto) di Michelangelo e le Pietre Sonore.
Un colloquio tra Pietre, apparentemente amorfe, che per mano di Sciola riacquistano vita.
Due storie distinte che trovano un punto di incontro: da una parte il Mosè di Michelangelo che racconta le sue tensioni emotive e quell’incapacità di dialogare con il proprio artefice; dall’altra le Pietre di Pinuccio Sciola, monumenti silenti che racchiudono suoni ancestrali, memorie che l’energia del tempo ha condensato e impresso nella roccia e che diventano strumenti musicali dialogando con quattro archi, nelle sinfonie composte da Andrea Granitzio». (*Si ringrazia Giulia Pilloni, Storica dell’Arte per la Fondazione Pinuccio Sciola)
Le ultime due domande della mia intervista sono rivolte a voi figli – Maria, Chiara e Tomaso:
Chiedo a ciascuno di voi di raccontare un ricordo o un aneddoto particolare legato a vostro padre. Cosa vi ha insegnato l’artista e l’uomo Pinuccio Sciola?
CHIARA: «L’essere artista era così connaturato al suo essere uomo che non era possibile scindere l’artista dall’uomo, la contaminazione era costante e incessante. La sua stessa vita raccontava e racconta di valori autentici, mai rumorosamente proclamati o didatticamente insegnati, ma vissuti e tramandati con azioni concrete. Ogni suo singolo comportamento era permeato di creatività e profonda libertà, come quando veniva a prendermi scalzo a scuola o quando mi diceva di ringraziare il sole, e io all’epoca non capivo e mi imbarazzavo. Attraverso la sua genialità, mio padre, ha liberato e continua a liberare, non solo i suoni dalla pietra, ma le emozioni di chi ascolta che si trova immerso in un ancestrale caos emotivo, che non va dominato, ma semplicemente vissuto. Le sue stesse opere sono la sintesi dei suoi insegnamenti perché sono la rappresentazione tangibile del rispetto per la natura, dell’amore per la propria terra e dell’importanza della condivisione. Sono in grado di far interagire l’arte, la musica e l’architettura e coinvolgono persone di ogni età, sesso, nazionalità e cultura, consacrando così di fatto quello che sicuramente rappresenta il suo messaggio più ambizioso. L’importanza dello scambio, del dialogo tra realtà diverse e quindi della cultura come fattore di arricchimento e inclusione sociale. Messaggi che oggi più che mai sono attuali e che devono essere ascoltati e tramandati».
MARIA: «Il mio più grande orgoglio nell’aver vissuto e amato un babbo così è stata la sua umanità. Il rispetto per le persone, per la natura, per la pietra. Il suo enorme esempio immateriale di grandezza. I sogni utopici in cui continuare a credere. Sempre mi diceva: “Se riesce a farlo qualcun altro, perché non dovresti riuscir tu?”
Sicuramente la mia missione ad ora è ancor più quella di tramandare oralmente i suoi principi di vita totalmente attuali in questo periodo storico e far sì che le persone conoscano e possano innamorarsi della sua arte, della sua poetica».
TOMASO: «Prima di tutto Pinuccio Sciola era nostro padre, e nel suo vivere il mondo da artista, gli insegnamenti erano tanti, ma sempre incentrati sul rispetto e l’umiltà. Tra le tantissime esperienze c’è un momento che ricordo con piacere, estremamente semplice, ma di grande impatto per tutta la mia vita. Spesso quando ero piccolo mio padre mi portava in giro con sé per la Sardegna, alla ricerca di pietre o per incontrare persone o realizzare mostre. Mio padre era un profondo conoscitore della morfologia della nostra isola e nei lunghi spostamenti durante le calde estati, ci fermavamo per una sosta nelle più recondite fonti di acqua fresca. Un giorno, fermata la macchina e raggiunta la fonte, trovammo una persona intenta a riempire le proprie bottiglie. Mio padre salutò e si mise a chiacchierare. Arrivato il nostro turno, ci abbeverammo e rinfrescammo mentre il signore sistemava le sue proprietà, continuando a parlare con mio padre. Quando ci allontanammo mio padre lo salutò e lo ringraziò. Rientrati in macchina gli chiesi perché lo avesse ringraziato, considerato che non aveva fatto niente per noi. Mio padre mi rispose che era stato cortese con noi e che era importante ringraziarlo per la sua presenza.
Credo che aver imparato da lui a ringraziare – le persone, la natura e la vita – per ogni piccolo dettaglio, sia stato uno degli insegnamenti più belli per percepire la fortuna che abbiamo nel vivere il nostro tempo e capire (molto tempo dopo) quanto tutta la sua filosofia di vita forse incentrata sul rispetto e la gentilezza, che, spesso, generano altrettanto rispetto e gentilezza».
Il 22 luglio 2016 costituite la Fondazione Pinuccio Sciola. Di cosa si occupa ognuno di voi all’interno della Fondazione e in tempi così complessi quali attività state portando avanti per non disperdere la memoria e l’eredità artistica e morale che vostro padre vi ha trasmesso?
CHIARA: «Il mio ruolo, dal 15 luglio 2020, è quello di Presidente della Fondazione. Fin dalla sua costituzione, la Fondazione si è data tra le linee guida quella di operare nel rispetto dei valori fondanti l’intera esistenza dell’artista, il rispetto per la natura e per il territorio e la più ampia fruibilità della cultura anche in termini di accessibilità e massima inclusione culturale.
La Fondazione è quindi da sempre impegnata nella divulgazione e valorizzazione dell’opera dell’artista, e quindi dell’intera Sardegna, nell’ambito dello stesso territorio e in contesti nazionali e internazionali, ed è costantemente attiva nel consolidare e ampliare importanti collaborazioni e interlocuzioni con le Università, gli Enti pubblici, gli Istituti di Cultura Italiana nel mondo, Festival di Arte o Architettura internazionali, Musei di arte contemporanea.
Numerosissimi sono stati gli eventi organizzati dalla Fondazione in questi anni, da ultimo a febbraio si è conclusa una importante tappa iniziata a dicembre 2019 presso l’Istituto di Cultura Italiana a Londra. Per tre mesi le Pietre Sonore sono state esposte e utilizzate in una serie di 5 eventi interdisciplinari – arte, architettura, scultura, musica – tra cui 3 concerti e 2 lectures inerenti alla produzione artistica di Sciola, che ha avuto un grande successo di pubblico.
Ogni anno poi la Fondazione organizza il Festival di Sant’Artem, Festival di arti visive e performative, nato da un’idea di Pinuccio Sciola, che l’anno scorso ha visto la straordinaria partecipazione dell’Odin Teatret, che ogni anno si ripete con un calendario ricco di eventi e richiama un numero sempre maggiore di persone.
La Fondazione è poi particolarmente attenta, insieme all’Associazione PS Museum, all’inclusione delle persone con disabilità e al coinvolgimento attivo dei bambini e degli studenti ed è costantemente impegnata nel lavoro di archiviazione della vasta e variegata produzione dell’artista.
L’emergenza sanitaria in atto e le misure di contenimento che ne sono derivate hanno sicuramente messo a dura prova l’intero sistema culturale.
La Fondazione però, pur con tutte le difficoltà e le conseguenze che andranno gestite, ha risposto in maniera attiva e propositiva, continuando, anche durante tutto il lockdown, a proporre offerte culturali grazie all’utilizzo della tecnologia e investendo il tempo a disposizione per strutturare maggiormente l’ente.
È stato infatti nominato il Direttore della programmazione musicale e avviato il servizio di effettuazione perizie che sarà operativo da novembre e che darà maggior impulso anche all’attività di archiviazione.
Anche la programmazione artistica non si è mai fermata e la Fondazione è rimasta attiva nel pianificare e progettare nuove e ulteriori iniziative a medio e lungo termine che coinvolgano artisti, storici dell’arte e interlocutori culturali e istituzionali e nel proseguire e consolidare il processo di internazionalizzazione culturale già avviato negli scorsi anni e che si intensificherà negli anni a venire».
TOMASO: «L’idea della Fondazione nasce ben prima del 2016 e già da diversi anni discutevo con mio padre dell’opportunità di creare una Fondazione che lo supportasse nei suoi tanti progetti, ma con lui presente. Purtroppo abbiamo dovuto costituire la Fondazione senza di lui ma tenendo fermi e presenti tutti gli insegnamenti e i desideri che ci aveva indicato. Dalla data della sua costituzione e per i primi 4 anni di vita sono stato il Presidente della Fondazione. Ognuno di noi eredi ha ruoli specifici in base alle proprie esperienze e background e insieme abbiamo strutturato una realtà che oggi si confronta e collabora con le principali istituzioni culturali del panorama regionale e nazionale. Per formazione e attitudini mi sono occupato preliminarmente della ricerca dei fondi necessari per la realizzazione dei tanti progetti che ci ha lasciato nostro padre e/o che ci sono stati nel tempo proposti. Esiste poi un tema di rapporti istituzionali, da coltivare e sviluppare, inizialmente per far conoscere una nuova realtà e successivamente per operare in sinergia con gli altri attori del mondo culturale. Sicuramente viviamo in un luogo e in uno spazio in cui la cultura non si trova tra i primi pensieri né di chi ci governa, né di ogni singola persona. Ma la forza del messaggio che ci ha trasmesso nostro padre, la sua potenza e quella che noi chiamiamo la sua filosofia di vita ci consentono di presentare e far conoscere, sempre con maggiore intensità, progetti di grande qualità e richiamo per un vastissimo pubblico. Ancor più in momenti di difficoltà, di paura e di distanziamento sociale è importante riscoprire il rapporto con la madre terra e avvicinarsi in punta di piedi alla natura. La Fondazione, che non si è mai fermata, si sta sviluppando, adattandosi alle nuove disposizioni, per poter portare, anche grazie alle nuove tecnologie, le opere e il messaggio di Pinuccio Sciola laddove non è conosciuto e ci sia terreno fertile di scambio e confronto, senza barriere o limiti, nel valorizzare un patrimonio che è per noi eredità condivisa».
Si ringrazia Giulia Pilloni Storica dell’Arte per La Fondazione Sciola
Foto – Crediti ©Attila Kleb
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di Lorena Piras – criminologa Nessuno ha parlato di me. Nessuno ha detto chi ero. Nessuno ha chiesto. Un’ombra. Sono questo. Mi sento, questo. Mi hanno chiamata la ragazza, poi, chissà come mai, sono diventata quella che sono: l’infante. A stento di me si è […]
Lorena Piras Ricordi SocialeNessuno ha parlato di me. Nessuno ha detto chi ero. Nessuno ha chiesto. Un’ombra. Sono questo. Mi sento, questo. Mi hanno chiamata la ragazza, poi, chissà come mai, sono diventata quella che sono: l’infante. A stento di me si è detto il nome: Rosa. Curioso, no? Un nome così delicato, come i miei occhi pieni di sogni e curiosità, eppure mi hanno uccisa nel peggiore dei modi: lasciandomi viva e dimenticandosi di me.
Mi hanno detto che si chiama fascicolo, quella specie di libro dove si parla della mia storia. Mi hanno detto che ci sono un’ottantina di pagine e che sono state restaurate perché è passato tanto tempo, due secoli, tanti, vero? da quando avevo solo cinque anni e un frate ha abusato di me. Mi ha goduto, c’è scritto.
E forse non li avevo neanche, cinque anni. Forse ne avevo sei. Neanche la mia mamma, mamma Giovanna, lo sa. Non sa neanche chi fosse mio padre. Se Pietro, che le aveva promesso di sposarla ma poi è morto, o uno di quei signori con cui la vedevo quando non era impegnata a fare i lavori di casa, come quella mattina. Era l’ultimo giorno di agosto, faceva un gran caldo. La mamma mi aveva portata con sé alla Fontana delle Conce: doveva lavare dei panni, stenderli vicino alla chiesa di Sant’Anna, voi oggi non la conoscete perché è stata abbattuta nel 1890, e una volta asciutti saremmo tornate a casa. O sarei rientrata prima di lei, da sola, come ogni tanto facevo.
Io però quella mattina non avevo voglia di aspettare, così mi sono allontanata. Cammino saltellando, seguo il volo degli uccelli su nel cielo. A ogni saltello mi si muove la gonnellina, indosso quella e una camiciola. Ora la mamma non mi vede più, e neanche io vedo più lei. Lungo la strada incontro un signore. Ha un abito strano, è un frate. È giovane, basso e cicciottello, l’ho visto altre volte perché qui vicino c’è un convento e lui va in giro a fare la questua: chiede stracci per bendare gli ammalati e a volte anche qualcosa da mangiare.
Fra Gerolamo, si chiama, e viene da un paese qui vicino. Ma tutto questo l’ho saputo dopo. Ha delle susine, le ha prese da alcune signore poco prima di incontrarmi. In quel libro, nel fascicolo, c’è solo la sua versione. Io non ho potuto raccontare niente. La paura, il dolore, niente. L’unico ad aver parlato per me, è stato il sangue. Sangue tra le mie gambe, sangue sulla gonnellina, sangue sulla camiciola. Lo ha visto la mia mamma, quando sono tornata da lei con tre monete in mano.
Quello che le ho raccontato, non c’è scritto. Che lui mi ha offerto le susine e mi ha chiesto di seguirlo in una casetta abbandonata dietro al convento. Io sono andata, ma poi volevo andare via. Voglio tornare dalla mamma, dicevo. Ma lui mi ha dato uno schiaffo e mi ha chiuso la bocca con il palmo della mano. Era tanto grande, mi copriva tutta faccia. Poi mi ha buttata per terra e mi ha sollevato la gonnellina. Era pesante. C’era tanta polvere, tanta rovina. E io non ero diversa da tutte quelle cianfrusaglie abbandonate. Non potevo muovermi, vedevo il cielo perché non c’era il tetto. Seguivo il volo degli uccelli. Poi ho sentito tanto male, là. Quando ha finito mi ha dato tre monete e sono ritornata verso la chiesa.
– Rosa! Rosa, dove sei? Qualcuno ha visto la mia bambina?
Quando arrivo, la mamma sta urlando il mio nome, intorno a lei ci sono altre donne.
Lei mi prende per la mano, la seguo inerme, il mio braccio è come quello di una bambola rotta, stiamo andando al convento, le ho detto del vestito da frate. Bussa ma viene mandata via perché i frati stanno pranzando. Ma la mamma non va via. Aspetta. Alle 15, così è scritto, bussa ancora, e chiede se c’è un frate che va in giro a chiedere stracci. Uno c’è. E non è ancora neanche frate, non ha ancora preso i voti. È quel Fra Gerolamo. Quello delle susine. Quello che mi ha fatto male. Si è cambiato, non è vestito come prima ma lo riconosco. Gli altri frati e la mia mamma mi lavano con il vino. Devono disinfettare, dicono. Il giorno dopo mi visitano i dottori. Dicono parole che non conosco, che non capisco. Lacerazione, tumefazione, infiammazione, parti offese, membro virile. La ragazza si lagna, dicono.
Nessuno si preoccupa di me, nessuno mi accarezza. Anzi. Sapete cosa dicono? Mentre Fra Gerolamo è nelle carceri di San Leonardo, il signore che lo difende, l’avvocato, dice che la colpa è stata mia! Che io quel giorno, Fra Gerolamo, l’ho provocato e l’ho sedotto. Vi spiego. L’avvocato dice che io già nella pancia di mia mamma ho assorbito l’arte della malizia, così la chiama, perché lei aveva tanti uomini e quindi sono nata sapendo già che se mi fossi fatta godere avrei avuto in cambio cibo e denaro. E che alla mia età avevo già l’indole formata, che non c’era niente di strano nel mio comportamento anche perché era già successo che un altro ragazzo di nove anni avesse impregnato la balia. Inesigenza della pena, dice. Perché non ho pianto, perché sono tornata dalla mamma da sola, perché volevo. E che sono stata io a fermare Fra Gerolamo per strada, che mi sono offerta e gli ho chiesto in cambio le susine e un fazzoletto di seta. Che lui mi ha detto che ero troppo piccola e che io ho insistito.
Ma un giorno la mamma riceve una lettera da Fra Gerolamo, poi un’altra ancora. Vuole incontrarla in carcere, le dice di volermi sposare perché ormai ha perso l’abito e così il mio onore sarebbe stato salvo. Perché ho fatto il peccato di svergognarla, scrive proprio queste parole.
Senza sapere che quella si chiama confessione.
Non lo sapevo neanche io, ma io sono una bambina. Il giudice però sì che lo sapeva ed è così che Fra Gerolamo viene condannato a dieci anni.
Non si sa cosa ne è stato di me. Nei fascicoli non c’è scritto cosa succede dopo.
Sono diventata grande, non ho mai parlato. Sopravvissuta. Tormentata, fragile, spenta. Innocente. E questa è la mia storia. Mi chiamavo Rosa, avevo cinque anni, forse sei, ed era una mattina d’estate di duecento anni fa.
Lorena Piras
Fonte: Archivio di Stato di Sassari
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