Antonio Marras: «Dentro di me tracce, trame, ricordi, memorie di popoli che vogliono prepotentemente ancora vivere»
«Amo la contaminazione, la variazione, e penso che solo dalle relazioni fra le arti possano nascere strade nuove. Io, poi, ho la fortuna di fare il lavoro che, per eccellenza, mi permette le commistioni più impensate. Dalla moda non faccio che sconfinare in altri ambiti. Non faccio alcuna distinzione né ho alcun pregiudizio e una delle mie caratteristiche è proprio il mescolare, mettere insieme, invadere i diversi campi artistici per poi scoprirne gli effetti, le conseguenze, i risultati».
L’intervista ad Antonio Marras
“Non riuscivo a leggere, solo i disegni, la fotografia e la poesia mi facevano respirare”. Come era Antonio Marras da bambino?
Un bambino insicuro, ombroso e meditabondo. Sicuramente affetto da sindrome di dislessia non riconosciuta. Torturato da un maestro burbero, anaffettivo, manesco e completamente disinteressato all’insegnamento. Trascorrevo tutte le ore scolastiche con l’incubo di essere interrogato o comunque chiamato in causa e non vedevo l’ora che finisse la scuola. Ma non finiva qui, perché a casa non potevo lamentarmi (non erano i tempi e poi mio padre era amico del maestro) e c’erano i compiti infiniti da svolgere. Mi ricordo che mia mamma mi mandava a ripetizione dalla signorina Vittorianna, che abitava nel nostro palazzo, al piano superiore, e io facevo quelle scale con una lentezza esasperante cercando di allontanare ancora per un po’ il momento di leggere a voce alta o di scrivere. Mi sono riconciliato con la parola scritta solo molto più tardi, con la poesia. Breve, efficace e determinata.
Suo padre aveva un negozio di tessuti, fu il primo a portare Fiorucci in Sardegna negli anni Settanta. Cosa porta con sé antonio Marras di questo insegnamento? Che ricordo ha di suo padre?
Fin da bambino ho frequentato “les botigues”, i negozi storici che mio padre e mio zio avevano nel centro storico di Alghero, familiarizzando con stoffe e tessuti di ogni genere. Ho iniziato a lavorare con mio padre, ad occuparmi dei negozi, con i contrasti “tipici” tra un padre e un figlio che svolgono la stessa attività. Uno con l’esperienza e il vissuto e l’altro con l’entusiasmo e un po’ di arroganza. Ma mio padre incuteva rispetto, soprattutto. Mio padre comprava i tessuti, di cui ancora conservo centinaia di rotoli, e li rivendeva a sarte oppure a clienti che poi metteva in contatto con le sarte.
Poi cambiò il tipo di negozio trasformandolo in una delle prime boutiques della città. Ricordo molto bene il mio primo viaggio, avevo tredici anni e a giugno, appena finite le lezioni, mio padre mi portò con lui a Buccinasco, dove c’erano le sedi di Fiorucci, una specie di hangar, un capannone enorme, con pareti di bracciali infilati in una sorta di rastrelliera, centinaia e centinaia di bracciali che venivano dall’Uganda. C’erano, accatastati, secchi di latta, che arrivavano dall’India… mille cose. Oggetti, capi d’abbigliamento, accessori, quaderni, ombrelli, soprammobili, fotografie, adesivi, animali di plastica che raccoglieva nei suoi viaggi per tutto il mondo. Mio padre era molto “avanti”, molto aperto alle novità e il suo negozio, nel tempo, era diventato un punto di riferimento per tutta la Sardegna.
Il 2011 è l’anno della svolta: Antonio Marras viene chiamato a esporre alla Biennale d’Arte di Venezia. Nel 2016 gli viene dedicata una retrospettiva alla Triennale di Milano “Nulla dies sine linea”, dalla citazione di Plinio. Che ricordi ha di quegli anni?
Non è mia abitudine voltarmi a guardare il passato. Quando una qualsiasi cosa è finita, per me, non esiste più. Sono talmente coinvolto nel presente con milleseicento cose da fare contemporaneamente che non ho proprio tempo per le considerazioni su ciò che è stato. E’ certo che l’esperienza di Venezia del 2011 e la Laurea ad honorem per Arti visive che ho ricevuto nel 2013 dall’Accademia di Brera mi hanno dato grande energia e un po’ di quella sicurezza che mi ha convinto ad esporre i miei lavori in Triennale. La mostra è stata quasi un momento di arrivo, un punto che mi ha consentito di far convergere tutti i miei lavori di trent’anni. È stata soprattutto una retrospettiva di tanti lavori rivisitati e tanti inediti.
Opere datate dai primi anni della mia attività ad oggi sono state esposte durante tutto il percorso della mostra. Si tratta di 1200 metri quadri completamente invasi di istallazioni, quadri e opere miste. È stato naturale fare riferimento alle due grandi artiste con le quali ho collaborato per TRAMA DOPPIA, la rassegna a quattro mani che ho tenuto ad Alghero dal 2003 al 2007. Maria Lai è stata di fondamentale importanza. Lei è stata a casa mia nel 2003 per tutta la durata della preparazione della mostra LLENZOLS DE AQUA e mi ha consegnato le chiavi di una stanza segreta.A Carol Rama mi lega una profonda dedizione e passione confluita nella mostra ad Alghero NOI FACCIAMO LORO GUARDANO, nel 2006. L’ho conosciuta a Torino nella sua casa meravigliosa e lei e la sua magica treccia non finiranno mai di agitarsi nella mia testa. In mostra ho quindi esposto dei miei lavori ispirati alla figura delle due grandi artiste.
Artiste determinanti, decisive, fondamentali e essenziali per tutto il mio percorso.
La mostra alla Triennale è stata una prova ciclopica che ho affrontato da incosciente, con terrore, umiltà e dedizione. Dietro c’è un lavoro folle da disegnatore seriale e il lavoro di installazioni frutto di collaborazioni ormai storiche e quotidiane con le persone che lavorano con me da anni e che con me condividono immaginifiche visioni.Insieme alla curatrice Francesca Alfano Miglietti ho aperto cassetti, armadi, cantine e soffitte dove avevo accumulato i lavori realizzati per “Trama doppia” e nel corso degli anni. Ho poi lavorato sul pittorico realizzando di avere qualcosa come 500 opere appese alle pareti di quell’enorme corridoio buio curvilineo che è il luogo che la Triennale ci aveva destinato. 1200 metri quadri di percorso scenografico nel quale accedevi attraverso un “muro” di camicie bianche e di fili rossi alle quali erano appesi i campanacci che i pastori usano per riconoscere il loro gregge.
E’ stato liberatorio e allo stesso tempo come immergersi in un mare che mi ha completamente assorbito e liquefatto. Sì, come banalmente si dice, è stata un‘esperienza totalizzante, un’esperienza che continua perché ha dato l’avvio ad altre mostre, come per esempio questa che ora è a Matera, e una mostra “Memorie dal sottosuolo” di ceramica a Mondovì. E poi , grazie a “Nulla dies sine linea” , ho realizzato la piéce teatrale “ Mio cuore, io sto soffrendo, cosa posso fare per te” che dopo Milano, Cagliari, Reggio Emilia andrà a New York a maggio.
La sua grande casa-laboratorio si trova su una collina che sovrasta il mare. Un giorno lei ha detto che quella particolare luminosità del cielo di Alghero è riuscita a ritrovarla solo a New York. Quanto questi elementi della natura sono fonte di ispirazione per Antonio Marras?
Non lo so. Tutto per me è ispirazione. Io sono insaziabile. Ho fame di tutto, vedo tutto e sono interessato a tutto. Tutto mi attrae senza differenze e distinguo: libri, film, mostre, giornali, mercatini, racconti, persone, arte, teatro, danza, marchè aux puces, riviste, fotografie, romanzi, poesie. Metto tutto nella cassettiera della mia mente e ogni volta, a sorpresa, si apre un cassettino e mi vengono in mente “fiumi di immagini”.
La cosa fondamentale è lavorare in un posto bello, che mi piaccia, che mi faccia stare bene. Per questo è importante la mia casa, la mia collina, Alghero, il mare e il cielo. Il tramonto da casa mia è uno spettacolo che lascia senza fiato per qualche secondo. Ogni volta esprimo un desiderio e per ogni tramonto che non trascorro a casa è un desiderio incompiuto. Certe volte a New York ho riconosciuto un cielo alto pieno di nuvole vaganti che mi hanno ricordato casa.
Sua moglie Patrizia è una grande e attenta collaboratrice. Quanto conta questo vostro sodalizio?
Io e Patrizia siamo una cosa unica. Molte volte parlo al singolare ma includo lei di default. Stiamo insieme da quando io avevo sedici anni e lei quattordici. Abbiamo iniziato a lavorare insieme nell’86 e abbiamo fatto sempre tutto insieme. Non si sa quando finisce il mio lavoro e inizia il suo e viceversa. Ci capiamo senza bisogno di parole. Siamo come yin e yang con i bioritmi sbalzati, così ci compensiamo. Siamo diversissimi e complementari.
Recentemente ha donato cento copricapo di seta e cachemire alle pazienti di oncologia degli ospedali di Ozieri, Sassari e Alghero con la collaborazione dell’Associazione di Oncoematologia «Mariangela Pinna» Onlus. Come è nata questa iniziativa?
E’ nata con l’amicizia con Maria Mantero che lavora nella Mantero, grande azienda di famiglia. Seta e foulard come se piovesse. Maria, nel 2016, ha fondato l’iniziativa “DEE DI VITA” e quest’anno abbiamo realizzato l’evento da noi al Circolo Marras, a Milano. Dieci magnifici turbanti di seta ricamati e dipinti a mano sono stati messi all’asta con Geppi Cucciari come battitrice. E’ stato un successo e il ricavato dell’asta è stato convertito in cento turbanti da donare alle pazienti affette da tumore.
Abbiamo voluto che tutto ciò avesse una ricaduta sul nostro territorio perciò ho coinvolto le meravigliose persone che lavorano nell’associazione “Mariangela Pinna Onlus” di Sassari. Avevo avuto modo di conoscere l’associazione in una precedente occasione e avevo apprezzato la dedizione, il lavoro e la sensibilità delle persone coinvolte. E’ importante pensare alla bellezza in un momento di grande sfasamento come può essere quello della malattia. L’associazione, fornendo supporto psicologico, parrucche, corsi di make up e quant’altro è molto attiva a Sassari ed Alghero e a Ozieri. Faremo altre cose insieme.
Nella sua arte sin dagli esordi c’è un filo conduttore, legacci rossi, che ora ritornano nella collezione “The crazysewing machine and the sparkling Jana” alla Milano Fashion Week 2020. Un viaggio ancora una volta nel segno di Maria Lai, nell’anno del centenario dalla nascita. Per lei “Una compagna di viaggio, una musa, un’amica geniale affettuosa e custode dell’anima”, tanto che la accolse nella sua casa dedicandole una stanza tutta per sé. Ci parli del vostro rapporto. C’è qualche aneddoto in particolare legato alla vostra grande amicizia ?
Scrive Francesca Alfano Miglietti a proposito della mostra di Matera “Trama doppia” dove ci sono i lavori di Maria e i miei : “Uno degli aspetti dell’arte che viene privilegiato da Maria Lai e da Antonio Marras è quello di consentire una serie complessa di relazioni sociali, e in questo momento storico, momento in cui tutto è movimento, la mostra vuole intessere un orizzonte che pone al centro della ricerca proprio il flusso. Un terreno poetico, questo, dalle frontiere indefinite, al confine con i territori dell’arte e della relazione. La mostra che si propone è un’arte che vuole profondamente radicarsi nel territorio e inserirsi nel tessuto sociale di Matera, un’arte capace di contribuire alla definizione dell’identità culturale di un luogo”.
E’ questo che mi ha accomunato a Maria: lo stesso amore per il diverso, per il territorio, per l’anima e la memoria.
La collezione di Antonio Marras tra fiaba e realtà autunno/inverno 2020-2021 ha portato in passerella pizzi, piume, tessuti eleganti, ma anche modelli che mischiano stili. Qual è il messaggio?
La missione degli abiti non è solo quella di coprire, di tener caldo. Gli abiti cambiano l’aspetto del mondo ai nostri occhi e cambiano noi agli occhi del mondo. Il vero io è profondamente nascosto e attraverso gli abiti si va alla ricerca e scoperta di sé e dell’altro. Non esistono più schemi fissi. Contaminazione è la parola d’ordine.
La contaminazione in quanto tale è sempre esistita in qualsiasi arte e in qualsiasi parte del mondo. La danza contemporanea, ad esempio, è un’evidente commistione tra i passi e i ritmi sudamericani e africani e la tradizione europea. La musica di oggi è un fiume di derivazioni e di collegamenti. L’arte non ne parliamo. Io vivo di contaminazioni, di mutazioni, di relazioni.
Ma soprattutto penso che il mio lavoro, la moda, abbia bisogno, anzi necessità direi, di intrecciare arte, cinema, musica, video, letteratura e teatro per poter restituire le tensioni dello spirito del tempo. Di questo tempo. Dunque fenomeni, stili, tendenze di una dimensione in continua mutazione.
La moda è uno dei luoghi privilegiati dell’ibridazione e della contaminazione tra linguaggi e non solo. Un outfit è il risultato di intrecci di stili, di volumi, di forme, di epoche, di provenienze, di luoghi, di suggestioni, di influenze, di stimoli e di amicizie.
Sono convinto – e lo ripeto spesso – che sono quel che sono proprio perché (da algherese, sardo, italiano, cittadino del mondo ) sono il risultato di misture, mescolanze, contaminazioni formatesi in Sardegna e nel Mediterraneo nel corso di millenni. Popoli di confine, abituati al contatto e allo scambio, pronti ad andare di porto in porto, a scambiare parole, comunicare, accogliere, accettare l’altro, il diverso, lo straniero, amalgamare culture, tradizioni, usi e costumi, lingua, musica, arte, cibo, abbigliamento.
L’uso di abiti vintage come materiale di base ben sintetizza il tema della memoria, della contaminazione e quello delle sovrapposizioni culturali che nascono dall’incontro con la diversità e con nuovi contesti. Evidentemente porto dentro di me tracce, trame, ricordi, memorie di popoli che vogliono prepotentemente ancora vivere, un substrato a cui inconsciamente attingo.
Almeno, così mi piace pensarlo.
Antonio Marras ama la poesia. C’è qualche poesia in particolare che la rappresenta?
Felice chi è diverso
Sandro Penna da “Appunti”, 1938–1949, in “Sandro Penna, Poesie”, Garzanti, 1987
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
di Luciana Satta
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