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Nicola Marotta si colloca nel filone della pittura italiana. La prima formazione, legata all’informale, trova, a partire dagli anni Sessanta, una evoluzione associata a una figurazione astratta e concettuale, che unifica i tempi antichi con le ricerche delle avanguardie artistiche del Novecento. In questo, l’artista considera Villa R di Paul Klee un testo fondamentale.

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Nicola Marotta, l’intervista

Manlio Brigaglia fece un affermazione (secondo me molto calzante) nei suoi confronti. “Puoi andare dove vuoi, caro Marotta, il paese dove sei nato non te lo scrolli di dosso”. Secondo lei pensa rifletta il suo stato umano e artistico?

Lasciare il proprio luogo di nascita, con i suoi misteri, con la vita che si perpetua come un rituale antico, in cui le persone dialogano all’esterno come se il foro della città fosse sempre aperto, significa portarsi dietro un patrimonio culturale di emozioni, di forme, di strutture sociali. Questa valigia di conoscenze, una valigia per molti versi vuota fisicamente (la realtà degli anni Cinquanta e Sessanta era difficile per un artista, come era complesso il periodo storico dell’entroterra campano), aveva per contro-spazio una ricchezza di contenuti. Un artista vive il luogo, lo spazio, il proprio tempo sempre in una dimensione intrecciata, che non può essere isolata: sono sequenze inestricabili, sovrapposte. Ma nella pittura che ho elaborato in oltre sessant’anni il suolo partenopeo non l’ho mai dimenticato, né cancellato. È una memoria che riemerge dal teatro del tempo, come una lacuna, una mancanza, forse un vuoto non colmabile.

Campano, nato a Brusciano nel 1936, ma di fatto adottivo algherese: questo dualismo quanto ha influito sia nella sua vita che nella pittura e che ricordo ha in mente degli inizi della sua carriera pittorica?

Provenivo da una famiglia umile ma eroica. Mio padre era un artigiano, un falegname. Da lui ho ereditato il piacere della manualità e dell’autoironia. Mia madre ha cresciuto me e mia sorella, ma l’ho persa presto per una malattia. Lei mi ha fatto crescere e dato credo le ragioni per essere un artista. Mi sono formato presso il Magistero e l’Accademia delle Belle Arti di Napoli, e sono giunto in Sardegna nel 1962 per insegnare nell’Istituto d’Arte di Alghero. Ho sempre sostenuto, con un misto di ironia e di coscienza, di essere nato a Pompei nel 79 d.C. È come dire che noi siamo il patrimonio e l’esperienza che si sono stratificati nei secoli, e che, in fondo, l’artista è colui che mette in luce questa grande area disponibile a tutti, ma spesso non visibile o mostrata. Brigaglia leggeva questa mia distanza, questa mia appartenenza ad una terra profonda, antica. “Ecco, è da qui che nasce tanta parte della tua pittura”, sosteneva, “dalla religione del luogo. Ogni posto, dicevano i romani, ha un suo dio particolare, che lì abita e da lì parla: basta coglierne la voce, e subito a distanza di millenni ci si rimette in sintonia con la storia eterna della propria terra, si ritrovano intatte le primigenie radici”. Quando sono giunto in Sardegna, nel 1962, ad accogliermi sono stati Salvatore Fara, Mauro Manca e Gavino Tilocca, che diventerà un mio amico fraterno. Una volta giunto sull’isola trovai una grande pittura regionale (Giuseppe Biasi, Mario Delitala, Stanis Dessy, Pietro Antonio Manca) che era legittima ed aveva un suo significato preciso. I Candelieri, gli scorci campestri o di villaggio: non c’era artista che non li facesse perché il pubblico vedeva solo quella pittura. Ho dovuto cercare, allora, una mia identità che da un lato mi consentisse di ricollegarmi all’informale (da cui provenivo) e, dall’altro, di introiettare la luce omerica della Sardegna che, essendo ad Occidente, raddoppia la luminosità perché il mare fa da specchio. Luce così originaria e unica per la qualità dell’arenaria che la cattura, l’assorbe. La luce sembra dentro la pietra. Questa si satura fortemente di colore. Ho lavorato tanto, con la necessità di dialogare, di non fossilizzarmi e parallelamente raccontare il mio punto di vista. Posso dirti che ad Alghero la luce del Mediterraneo si è intrecciata con l’ombra del Seicento napoletano.

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Gioca un ruolo fondamentale per la sua carriera artistica, l’incontro con l’uomo e l’artista Alberto Chiancone nel periodo della frequentazione del Magistero di Napoli. Per sua stessa definizione una presa di coscienza nel suo futuro lavoro da pittore.

In quei due anni del Magistero a Napoli feci un’esperienza, ancora oggi presente, che considero una presa di coscienza per la prima svolta nel mio futuro lavoro di pittore. Certamente ci fu il dialogo con un artista raffinato e gentile come il pittore Alberto Chiancone, mio insegnante presso il Magistero. In classe amava il dialogo amichevole, diretto, personale: era la sua modernità d’insegnamento; non interveniva mai su nessun elaborato, lasciando all’allievo la possibilità di esprimersi come voleva. Lui europeista conosceva il mondo dell’arte per il suo vissuto personale e per cultura: era un intellettuale. Appena l’argomento lo richiedeva ci parlava di Parigi, dove lui aveva soggiornato. Noi allievi del Magistero avevamo già maturato l’interesse per l’arte contemporanea e il professore si limitava a integrare le nostre lacune culturali con scambi di informazioni ed esaustivi suggerimenti. All’epoca la mia scuola era rigorosa sin dall’ingresso “il porticato di Palizzi”: nella ampia scalinata una colossale copia in gesso di una opera di Michelangelo, forse Cosimo dei Medici. La sezione pittura era situata all’ultimo piano; alla sala laboratorio si arrivava attraverso ampi corridoi, le cui pareti laterali servivano a noi studenti per le esercitazioni pittoriche. In quel periodo amavo le composizioni articolate; nei due anni di Magistero dipinsi due grandi pareti, la prima figurativa, in quanto conoscevo bene la pittura classica greca e romana e quella italiana. Feci interessanti esperienze di affresco dai contenuti innovativi. La seconda parete la dipinsi l’anno successivo; da poco avevo visto la mostra che si era tenuta nel Palazzo Reale di Napoli dedicata ad Osvaldo Licini: ne rimasi affascinato. Chiancone apprezzò moltissimo il mio lavoro, sia per l’interpretazione che per la libertà compositiva. Il suo gesto pittorico è sempre risolutivo e costruttivo. Vi sono diversi autoritratti belli, eseguiti in diverse età, pregni di un silenzio interiore: credo si ritraesse sempre con indosso uno spolverino da pittore; non penso si sporcasse le mani quando dipingeva, ma quando la necessità lo richiedeva. Alberto torceva il pennello per lasciare un bianco suggestivo o per ridisegnare la struttura incidente di una figura, anche se già definita. Un gesto che diventava una svolta diretta senza la mediazione di un racconto tematico. Se penso a quando i miei occhi incontrano quelli di un giovane talento, ricercando in essi lo specchio dell’anima, spero che sia stato lo stesso per Alberto Chiancone quando incontrava i miei occhi da ragazzo.

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Altro aspetto molto importante è la passione per la pittura pompeiana che lei fa sua, donandogli uno stile onirico che da sempre contraddistingue i suoi lavori. L’affresco per un periodo ha fatto parte del suo modo di esprimersi e della sua ricerca in continua evoluzione. So che l’ispirazione è nata durante la sua visita alla mostra del grande Osvaldo Licini. Mi può parlare di questi due mondi apparentemente lontani e che si sono fusi nel suo lavoro?

Sin dalla prima giovinezza ho assorbito la cultura greco-romana che mi derivava, essendo campano, dalla città e dal territorio in cui ho vissuto e studiato: Napoli e i paesi vesuviani. Nella prima formazione, negli anni Cinquanta e Sessanta, ho appreso un modo di guardare il passato con occhi nuovi, attraverso una concezione moderna, innestata in una tradizione più antica. Questa nuova coscienza è diventata un filtro attraverso il quale intraprendere il mio futuro artistico. Con il tempo, la mia cultura formativa si è decantata a tal punto che rimangono in vita solo i valori pittorici, al di là del racconto oggettivo della pittura occidentale. Nella metà degli anni Cinquanta ho conosciuto le avanguardie nazionali e internazionali, unendo le esperienze più vive del Novecento con la passione per il mondo stratificato del nostro passato, lavorando sulle lacune degli affreschi pompeiani. Su questa linea del tempo eroico ed esistenziale, arcaico e contemporaneo, ho cercato di tracciare un mio personale racconto in cui aleggiano esistenze sospese nel cielo della storia: icone di un paesaggio mentale e di una geografia sociale. Nel mio lavoro ho cercato di raccontare il nostro tempo, come somma di più registi culturali, sovrapposti inesorabilmente nei labirinti esistenziali. Ho prediletto la composizione pre-umanistica, quella dell’assenza della prospettiva, che mi consentiva una composizione libera da condizionamenti oggettivi e descrittivi, a favore di un racconto atemporale e concettuale. Posso citare opere come gli Hortus conclusus, gli Avversari immaginari e reali, le Ultime sentinelle, gli Amanti in volo, le Lettere d’amore, sempre alla ricerca di un corto circuito che determina lo straniamento, il ritrovarsi in situazioni inattese e coinvolgenti. Ho voluto raccontare dell’uomo e del suo destino, del viaggio inteso come porta, come passaggio per altre dimensioni. Mi sono occupato degli spazi della mente, che sono quelli della memoria, accumulata nel tempo, con i suoi depositi e le sue stratificazioni inquiete, che non trovano mai pace. Questa formazione classica diventa per me un telaio mediante il quale attraversare i movimenti artistici contemporanei e costruire un alveo comune. Oggi, a distanza di tempo, quello che mi interessa della pittura non è tanto l’aspetto figurale delle composizioni, ampiamente indagato dalla critica, quanto il metodo di lavoro: un approccio concettuale e mentale di alcune aree del pensiero che posso definire archeologiche, ambientali, e legate al sublime. Sono campi che s’intrecciano uno nell’altro, che s’inseguono e si scambiano le parti e i ruoli. Posso asserire che la mia produzione sia una cartografia inconscia, dove le lacune, le aree mancanti del quadro, emergono come la parte più viva e intensa del mio operare. Le ho rilette nella mia mente di giovane artista, quando mi recavo al Museo Nazionale di Napoli per studiare i mosaici e le pitture pompeiane. Erano composizioni straordinarie di prospettive intuitive, di partiture regolari, di un senso di naturalezza che viveva solo nelle abili mani del pittore, pronto a cogliere il particolare, rapito nell’istante. Eppure il mio occhio si soffermava sulle parti perdute della composizione, quelle in cui è assente il disegno. In quelle parti perdute rientra la coscienza del presente. Per queste ragioni ho voluto superare quella dialettica che separa il presente dal passato, o che lo interpreta come sollievo o fuga. Il presente per me è solo una proiezione di un tempo più profondo. Così l’archeologia diventa l’occasione di indagare queste tracce dimenticate, celate sotto la coltre del tempo, ma di fatto sempre compresenti. La mia è una pittura di strati e di livelli soggiacenti, che necessita di una radiografia per essere colta nella sua complessità̀. Il territorio così vive in vedute simultanee che sommano lo sguardo dal basso di un uomo che attraversa lo spazio, con quelle zenitali. Sono territori compresenti, dai margini deboli, aperti, dai confini labili, perché il limite sfuma nello sguardo personale e aspira a una visione universale. Questi territori uniscono struttura e integrazione, si combinano, entrano uno nell’altro. Nel mio lavoro il paesaggio, il territorio, l’archeologia si fondono. Di conseguenza viene annullata una prospettiva univoca e il territorio si tramuta in una geografia più complessa, dove la mappa sintetizza il luogo reale e quello mentale della fantasia e della razionalità. In questo il mondo complesso di Osvaldo Licini, in una mostra vista da giovane presso il Palazzo Reale di Napoli, ha aperto in me una serie di porte, offrendomi spazi in cui alimentare la mia visione di artista.

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Durante la visita nel suo studio una serie denominata “Carte ritrovate” ha colto la mia attenzione. Ci racconta come sono nati questi progetti e cosa l’ha spinta a tenere una sorta di libro artistico molto intimista?

Le Carte ritrovate sono nate quasi per caso. Ho sempre interpretato la dimensione dell’essere (umano) in costante richiesta di un riconoscimento, di una certezza d’identificazione. Sono stato attratto dagli eteronimi pessoani, dalle identità plurime, dalle strutture mentali, astratte, che vivono nella mente di un autore che invoca il suo duplicato, offrendogli una vita reale e una coscienza, almeno letteraria. Gli studi su Luigi Pirandello, su Bertolt Brecht, su Franz Kafka, su Bernard Shaw, su Jorge Luis Borges, su Fernando Pessoa, su José Saramago hanno orientato il mio pensiero e a questi straordinari scrittori ho dedicato negli anni Settanta alcune opere. Era una visione che parlava dell’uomo, e lo faceva con il peso della coscienza. Sono letterature dure e incerte per soggetti reali e drammatici, isolati nella loro ragione che indaga, percepisce, scruta con ingegno e razionalità il mondo. Eppure da questa ragione nella mia pittura è rimasta la lacuna, le parti perdute di un mondo forse da ricostruire. Da queste premesse sono nate le Carte ritrovate. Nel mio operare sono solito mettere sotto le tele su cui lavoro fogli di carta comune, di colore giallo-ocra. Alla fine del processo ideativo rimanevano delle macchie, delle colature casuali su cui sono intervenuto successivamente. Sono nate così, reinterpretando i segni di un mondo possibile, mappe concettuali di un mediterraneo a me caro, diagrammi del tempo, figure mitologiche, racconti e frammenti di un mio immaginario sviluppato in decenni di attività. Queste Carte ritrovate raccontano, in maniera sostanziale, la mia visione dell’arte, in cui le sostanze sono sottese e il mio lavoro consiste nel farle emergere, al pari della attività di un archeologo.

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Altra figura che ha segnato il suo percorso è stato l’incontro con Klaus Hemmerle (Teologo, Filosofo, Artista, Professore). Come e quando è nata la vostra conoscenza e collaborazione?

Ho avuto la fortuna di incontrare e diventare amico, a partire dagli anni Settanta, di un raffinato uomo di pensiero, artista e intellettuale, teologo e filosofo qual è stato Klaus Hemmerle, Vescovo di Aquisgrana, che mi ha offerto, con la sua amicizia, la possibilità di poter mostrare il mio lavoro in Germania, in diverse occasioni e opportunità. Per quasi venticinque anni si era recato ad Alghero con gli amici Wilfried Hagemann, Hans Peter e successivamente Peter Klasvogt. Hemmerle parlando della mia pittura così scriveva: “Marotta ha sviluppato un proprio stile, la sua arte possiede una sua unità, è genetica, nasce da se stessa in un processo forte e drammatico, non riceve passivamente le influenze dall’esterno ma le traduce in una maniera personale come in un dialogo”. Klaus aveva compreso questo continuo e instancabile confronto con me stesso, dove ricercavo il quadro assoluto, riscrivendo spesso su opere già storicamente datate, come se il processo fosse senza fine. Mi aveva colpito una frase da lui scritta: “L’arte di Marotta è inconsueta, non interessa a colui che cerca solamente effetti effervescenti sul mercato di moda. Essa cammina sulla via dell’uomo, in un mondo pieno di dubbi, limiti, prospettive e speranze”. Klaus era un amante dell’arte e mi onorava la sua passione verso il mio lavoro: era anch’egli un disegnatore, con acquerelli delicati, quasi ispirati ai quadri di Paul Klee. Nelle sue lunghe camminate era solito ritrarre i paesaggi sardi con una delicatezza di rappresentazione. Klaus mi ha voluto molto bene. Mi vedeva come in un suo specchio, in cui prendevo le sembianze del padre pittore. Accade che una chiave, Klaus ne aveva individuato quattro, ti consente l’ingresso in un non luogo, dove si formano i pensieri, dove si accendono le idee, dove si illuminano le intuizioni; un posto di cui oggi si sa poco o niente. L’uomo si è costruito nella sua evoluzione una mappa genetica, e, oggi, non siamo in grado di vederne le future proiezioni. Mi piacerebbe che la morte non fosse diversa dalla vita e che avesse le stesse evoluzioni, che la sua memoria potesse evocare se stessa, per raccogliere dati e vederne gli sviluppi, come accade per la vita. Un percorso parallelo, per sapere di più sulle distanze che ci separano.

Quanto l’arte ha cambiato la sua vita e quanto la sua vita ha cambiato la sua arte? Tirando le somme cosa le ha dato e tolto l’arte e cosa le ha insegnato a livello umano?

Ho avuto la fortuna di fare una attività che era al contempo mentale, spirituale, esistenziale e tecnica. Ma soprattutto, lavorando una vita ho scoperto che il mio impegno non mi recava stanchezza, ma nutriva la mia visione del mondo. Arte e vita non si possono disgiungere: una ha alimentato l’altra e viceversa. Ho sempre asserito che le mie composizioni non fossero precostituite ma i contenuti nascessero nel processo artistico, rivelando i loro aspetti più reconditi, emergendo dalle proprie strutture sotterranee. Nel mio percorso ho cercato di portare alla luce questi mondi sommersi e nel farlo ho imparato a comprendere le cose. Le ho capite proprio nell’azione del mio operato, alimentando la mia percezione attraverso il pensiero di intellettuali e artisti che mi hanno preceduto. Quindi l’arte mi ha solo insegnato e offerto codici per interpretare la realtà.

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Pablo Picasso dichiarava “L’artista è un ricettacolo di emozioni che vengono da ogni luogo: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una forma di paesaggio, da una tela di ragno”. Penso che questa affermazione possa riassumere tutto quello che ci siamo raccontati.

Penso sia una affermazione vera. Ho sempre amato la definizione di Picasso che sosteneva: “io non cerco, trovo”. Un pensiero che ritengo essere anche parte della mia concezione delle cose. Le idee possono nascere da un qualsiasi spunto, ma si alimentano solo se possiedi un territorio profondo in grado di accogliere l’intuizione. Prima mi chiedevi del mio arrivo in Sardegna, della mia vita ad Alghero. Posso ribadirti che il territorio della Sardegna in cui ho vissuto mi ha offerto una nuova luce, quella mediterranea che, gradualmente, dopo gli anni Sessanta, ha sostituito le ombre che provenivano dell’arte del Seicento napoletano. La mia produzione, a partire dagli anni Settanta, ha interiorizzato la luce del Mediterraneo, mentre l’esistenza dell’uomo che vive le mie opere, quella ha seguito una sua naturale evoluzione, parallela alla mia di individuo. I quattro elementi: l’aria, l’acqua, il fuoco e la terra, che tu citi nella tua domanda, sono parte integrante della mia attenzione all’universo che, sin da ragazzo, ho cercato di comprendere attraverso letture scientifiche e umanistiche. Non è un caso che nei miei lavori la terra e il cielo siano sempre in tensione tra loro, con traiettorie e metriche che rimandano ad antiche cartografie e mappe, dove l’uomo, piccolo rispetto al creato, sente il peso di questa distanza, di questa complessità.

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Sono rimasto colpito da alcune tue interviste impossibili con artisti del passato. Me ne può parlare, anche per capire chi è in realtà Nicola Marotta?

Mi fa molto piacere che hai colto anche questo aspetto della mia attività. Ho dialogato con artisti del passato, diversi da me, ma che mi hanno sempre affascinato. Per esempio parlando di Saul Steinberg avevo intrapreso questa riflessione: La sua infanzia è vissuta come incantata. In un fotomontaggio strepitoso Saul Steinberg tiene per mano se stesso da vecchio. Vedendo oggi il fotomontaggio saremmo in grado di dire che entrambi sono la stessa persona, ma si deve aggiungere che nel bambino di allora c’era già l’adulto che sarebbe diventato. C’è da chiedersi se quel senso di appartenenza che un figlio sente nei riguardi della propria madre, nel guardarla in una fotografia giovanile, ancor prima che concepisse il proprio figlio, cioè sentirla madre, ancor prima che questa lo sia realmente, sia da considerarsi pura fantasia, oppure se ci sia qualcosa di più complesso. Se così fosse, saremmo tutti uno negli altri, come le cellule prima di duplicarsi. Così ripenso alla vita degli artisti e a quella mia personale. Nel caso di Costantino Nivola, egli si stabilirà in America nel 1940. Steinberg, fuggendo a causa delle persecuzioni razziali, si imbarcherà per gli Stati Uniti nel 1940. Per entrambi fu una vita da protagonisti, in quanto hanno operato con artisti innovatori del pensiero dell’arte contemporanea. Penso a quando conobbi personalmente Costantino Nivola, una taglia d’uomo di misura d’altri tempi, forse intorno a un metro e sessanta, un viso modellato con grande destrezza alla Giovanni Pisano, i capelli con la scriminatura al centro e le due bande di capelli opposte. Aveva un aspetto fiero. Oggi penso che avrei potuto chiedergli del suo amico Saul, e pensare che proprio nello stesso periodo che io lo conobbi, Antine, come lo chiamavano gli amici sardi, aveva fatto uno straordinario ritrattino a figura intera – alto circa 16 centimetri – in argilla cotta a Steinberg. Nivola modellava la creta come le donne sarde manipolavano la pasta lievitata per fare il pane. Così è nata una intervista impossibile con Steinberg e spero che tu possa ritrovare in questa mia riflessione il nesso della tua domanda.

Benito Olmeo

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