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Nicola Marotta si colloca nel filone della pittura italiana. La prima formazione, legata all’informale, trova, a partire dagli anni Sessanta, una evoluzione associata a una figurazione astratta e concettuale, che unifica i tempi antichi con le ricerche delle avanguardie artistiche del Novecento. In questo, l’artista […]
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Luciana Satta Musica PersonaggiAbbiamo avuto il piacere di incontrare Gianni Tetti nel suo studio al centro di Sassari. L’autore ci ha ospitato durante una pausa dal lavoro di scrittura. Alla parete una lavagna zeppa di appunti per futuri progetti, fogli sparsi vicini al pc su una grande scrivania […]
Arte Francesca Arca Libri PersonaggiNicola Marotta si colloca nel filone della pittura italiana. La prima formazione, legata all’informale, trova, a partire dagli anni Sessanta, una evoluzione associata a una figurazione astratta e concettuale, che unifica i tempi antichi con le ricerche delle avanguardie artistiche del Novecento. In questo, l’artista […]
Arte Benito Olmeo Personaggi PitturaNicola Marotta si colloca nel filone della pittura italiana. La prima formazione, legata all’informale, trova, a partire dagli anni Sessanta, una evoluzione associata a una figurazione astratta e concettuale, che unifica i tempi antichi con le ricerche delle avanguardie artistiche del Novecento. In questo, l’artista considera Villa R di Paul Klee un testo fondamentale.
Manlio Brigaglia fece un affermazione (secondo me molto calzante) nei suoi confronti. “Puoi andare dove vuoi, caro Marotta, il paese dove sei nato non te lo scrolli di dosso”. Secondo lei pensa rifletta il suo stato umano e artistico?
Lasciare il proprio luogo di nascita, con i suoi misteri, con la vita che si perpetua come un rituale antico, in cui le persone dialogano all’esterno come se il foro della città fosse sempre aperto, significa portarsi dietro un patrimonio culturale di emozioni, di forme, di strutture sociali. Questa valigia di conoscenze, una valigia per molti versi vuota fisicamente (la realtà degli anni Cinquanta e Sessanta era difficile per un artista, come era complesso il periodo storico dell’entroterra campano), aveva per contro-spazio una ricchezza di contenuti. Un artista vive il luogo, lo spazio, il proprio tempo sempre in una dimensione intrecciata, che non può essere isolata: sono sequenze inestricabili, sovrapposte. Ma nella pittura che ho elaborato in oltre sessant’anni il suolo partenopeo non l’ho mai dimenticato, né cancellato. È una memoria che riemerge dal teatro del tempo, come una lacuna, una mancanza, forse un vuoto non colmabile.
Campano, nato a Brusciano nel 1936, ma di fatto adottivo algherese: questo dualismo quanto ha influito sia nella sua vita che nella pittura e che ricordo ha in mente degli inizi della sua carriera pittorica?
Provenivo da una famiglia umile ma eroica. Mio padre era un artigiano, un falegname. Da lui ho ereditato il piacere della manualità e dell’autoironia. Mia madre ha cresciuto me e mia sorella, ma l’ho persa presto per una malattia. Lei mi ha fatto crescere e dato credo le ragioni per essere un artista. Mi sono formato presso il Magistero e l’Accademia delle Belle Arti di Napoli, e sono giunto in Sardegna nel 1962 per insegnare nell’Istituto d’Arte di Alghero. Ho sempre sostenuto, con un misto di ironia e di coscienza, di essere nato a Pompei nel 79 d.C. È come dire che noi siamo il patrimonio e l’esperienza che si sono stratificati nei secoli, e che, in fondo, l’artista è colui che mette in luce questa grande area disponibile a tutti, ma spesso non visibile o mostrata. Brigaglia leggeva questa mia distanza, questa mia appartenenza ad una terra profonda, antica. “Ecco, è da qui che nasce tanta parte della tua pittura”, sosteneva, “dalla religione del luogo. Ogni posto, dicevano i romani, ha un suo dio particolare, che lì abita e da lì parla: basta coglierne la voce, e subito a distanza di millenni ci si rimette in sintonia con la storia eterna della propria terra, si ritrovano intatte le primigenie radici”. Quando sono giunto in Sardegna, nel 1962, ad accogliermi sono stati Salvatore Fara, Mauro Manca e Gavino Tilocca, che diventerà un mio amico fraterno. Una volta giunto sull’isola trovai una grande pittura regionale (Giuseppe Biasi, Mario Delitala, Stanis Dessy, Pietro Antonio Manca) che era legittima ed aveva un suo significato preciso. I Candelieri, gli scorci campestri o di villaggio: non c’era artista che non li facesse perché il pubblico vedeva solo quella pittura. Ho dovuto cercare, allora, una mia identità che da un lato mi consentisse di ricollegarmi all’informale (da cui provenivo) e, dall’altro, di introiettare la luce omerica della Sardegna che, essendo ad Occidente, raddoppia la luminosità perché il mare fa da specchio. Luce così originaria e unica per la qualità dell’arenaria che la cattura, l’assorbe. La luce sembra dentro la pietra. Questa si satura fortemente di colore. Ho lavorato tanto, con la necessità di dialogare, di non fossilizzarmi e parallelamente raccontare il mio punto di vista. Posso dirti che ad Alghero la luce del Mediterraneo si è intrecciata con l’ombra del Seicento napoletano.
Gioca un ruolo fondamentale per la sua carriera artistica, l’incontro con l’uomo e l’artista Alberto Chiancone nel periodo della frequentazione del Magistero di Napoli. Per sua stessa definizione una presa di coscienza nel suo futuro lavoro da pittore.
In quei due anni del Magistero a Napoli feci un’esperienza, ancora oggi presente, che considero una presa di coscienza per la prima svolta nel mio futuro lavoro di pittore. Certamente ci fu il dialogo con un artista raffinato e gentile come il pittore Alberto Chiancone, mio insegnante presso il Magistero. In classe amava il dialogo amichevole, diretto, personale: era la sua modernità d’insegnamento; non interveniva mai su nessun elaborato, lasciando all’allievo la possibilità di esprimersi come voleva. Lui europeista conosceva il mondo dell’arte per il suo vissuto personale e per cultura: era un intellettuale. Appena l’argomento lo richiedeva ci parlava di Parigi, dove lui aveva soggiornato. Noi allievi del Magistero avevamo già maturato l’interesse per l’arte contemporanea e il professore si limitava a integrare le nostre lacune culturali con scambi di informazioni ed esaustivi suggerimenti. All’epoca la mia scuola era rigorosa sin dall’ingresso “il porticato di Palizzi”: nella ampia scalinata una colossale copia in gesso di una opera di Michelangelo, forse Cosimo dei Medici. La sezione pittura era situata all’ultimo piano; alla sala laboratorio si arrivava attraverso ampi corridoi, le cui pareti laterali servivano a noi studenti per le esercitazioni pittoriche. In quel periodo amavo le composizioni articolate; nei due anni di Magistero dipinsi due grandi pareti, la prima figurativa, in quanto conoscevo bene la pittura classica greca e romana e quella italiana. Feci interessanti esperienze di affresco dai contenuti innovativi. La seconda parete la dipinsi l’anno successivo; da poco avevo visto la mostra che si era tenuta nel Palazzo Reale di Napoli dedicata ad Osvaldo Licini: ne rimasi affascinato. Chiancone apprezzò moltissimo il mio lavoro, sia per l’interpretazione che per la libertà compositiva. Il suo gesto pittorico è sempre risolutivo e costruttivo. Vi sono diversi autoritratti belli, eseguiti in diverse età, pregni di un silenzio interiore: credo si ritraesse sempre con indosso uno spolverino da pittore; non penso si sporcasse le mani quando dipingeva, ma quando la necessità lo richiedeva. Alberto torceva il pennello per lasciare un bianco suggestivo o per ridisegnare la struttura incidente di una figura, anche se già definita. Un gesto che diventava una svolta diretta senza la mediazione di un racconto tematico. Se penso a quando i miei occhi incontrano quelli di un giovane talento, ricercando in essi lo specchio dell’anima, spero che sia stato lo stesso per Alberto Chiancone quando incontrava i miei occhi da ragazzo.
Altro aspetto molto importante è la passione per la pittura pompeiana che lei fa sua, donandogli uno stile onirico che da sempre contraddistingue i suoi lavori. L’affresco per un periodo ha fatto parte del suo modo di esprimersi e della sua ricerca in continua evoluzione. So che l’ispirazione è nata durante la sua visita alla mostra del grande Osvaldo Licini. Mi può parlare di questi due mondi apparentemente lontani e che si sono fusi nel suo lavoro?
Sin dalla prima giovinezza ho assorbito la cultura greco-romana che mi derivava, essendo campano, dalla città e dal territorio in cui ho vissuto e studiato: Napoli e i paesi vesuviani. Nella prima formazione, negli anni Cinquanta e Sessanta, ho appreso un modo di guardare il passato con occhi nuovi, attraverso una concezione moderna, innestata in una tradizione più antica. Questa nuova coscienza è diventata un filtro attraverso il quale intraprendere il mio futuro artistico. Con il tempo, la mia cultura formativa si è decantata a tal punto che rimangono in vita solo i valori pittorici, al di là del racconto oggettivo della pittura occidentale. Nella metà degli anni Cinquanta ho conosciuto le avanguardie nazionali e internazionali, unendo le esperienze più vive del Novecento con la passione per il mondo stratificato del nostro passato, lavorando sulle lacune degli affreschi pompeiani. Su questa linea del tempo eroico ed esistenziale, arcaico e contemporaneo, ho cercato di tracciare un mio personale racconto in cui aleggiano esistenze sospese nel cielo della storia: icone di un paesaggio mentale e di una geografia sociale. Nel mio lavoro ho cercato di raccontare il nostro tempo, come somma di più registi culturali, sovrapposti inesorabilmente nei labirinti esistenziali. Ho prediletto la composizione pre-umanistica, quella dell’assenza della prospettiva, che mi consentiva una composizione libera da condizionamenti oggettivi e descrittivi, a favore di un racconto atemporale e concettuale. Posso citare opere come gli Hortus conclusus, gli Avversari immaginari e reali, le Ultime sentinelle, gli Amanti in volo, le Lettere d’amore, sempre alla ricerca di un corto circuito che determina lo straniamento, il ritrovarsi in situazioni inattese e coinvolgenti. Ho voluto raccontare dell’uomo e del suo destino, del viaggio inteso come porta, come passaggio per altre dimensioni. Mi sono occupato degli spazi della mente, che sono quelli della memoria, accumulata nel tempo, con i suoi depositi e le sue stratificazioni inquiete, che non trovano mai pace. Questa formazione classica diventa per me un telaio mediante il quale attraversare i movimenti artistici contemporanei e costruire un alveo comune. Oggi, a distanza di tempo, quello che mi interessa della pittura non è tanto l’aspetto figurale delle composizioni, ampiamente indagato dalla critica, quanto il metodo di lavoro: un approccio concettuale e mentale di alcune aree del pensiero che posso definire archeologiche, ambientali, e legate al sublime. Sono campi che s’intrecciano uno nell’altro, che s’inseguono e si scambiano le parti e i ruoli. Posso asserire che la mia produzione sia una cartografia inconscia, dove le lacune, le aree mancanti del quadro, emergono come la parte più viva e intensa del mio operare. Le ho rilette nella mia mente di giovane artista, quando mi recavo al Museo Nazionale di Napoli per studiare i mosaici e le pitture pompeiane. Erano composizioni straordinarie di prospettive intuitive, di partiture regolari, di un senso di naturalezza che viveva solo nelle abili mani del pittore, pronto a cogliere il particolare, rapito nell’istante. Eppure il mio occhio si soffermava sulle parti perdute della composizione, quelle in cui è assente il disegno. In quelle parti perdute rientra la coscienza del presente. Per queste ragioni ho voluto superare quella dialettica che separa il presente dal passato, o che lo interpreta come sollievo o fuga. Il presente per me è solo una proiezione di un tempo più profondo. Così l’archeologia diventa l’occasione di indagare queste tracce dimenticate, celate sotto la coltre del tempo, ma di fatto sempre compresenti. La mia è una pittura di strati e di livelli soggiacenti, che necessita di una radiografia per essere colta nella sua complessità̀. Il territorio così vive in vedute simultanee che sommano lo sguardo dal basso di un uomo che attraversa lo spazio, con quelle zenitali. Sono territori compresenti, dai margini deboli, aperti, dai confini labili, perché il limite sfuma nello sguardo personale e aspira a una visione universale. Questi territori uniscono struttura e integrazione, si combinano, entrano uno nell’altro. Nel mio lavoro il paesaggio, il territorio, l’archeologia si fondono. Di conseguenza viene annullata una prospettiva univoca e il territorio si tramuta in una geografia più complessa, dove la mappa sintetizza il luogo reale e quello mentale della fantasia e della razionalità. In questo il mondo complesso di Osvaldo Licini, in una mostra vista da giovane presso il Palazzo Reale di Napoli, ha aperto in me una serie di porte, offrendomi spazi in cui alimentare la mia visione di artista.
Durante la visita nel suo studio una serie denominata “Carte ritrovate” ha colto la mia attenzione. Ci racconta come sono nati questi progetti e cosa l’ha spinta a tenere una sorta di libro artistico molto intimista?
Le Carte ritrovate sono nate quasi per caso. Ho sempre interpretato la dimensione dell’essere (umano) in costante richiesta di un riconoscimento, di una certezza d’identificazione. Sono stato attratto dagli eteronimi pessoani, dalle identità plurime, dalle strutture mentali, astratte, che vivono nella mente di un autore che invoca il suo duplicato, offrendogli una vita reale e una coscienza, almeno letteraria. Gli studi su Luigi Pirandello, su Bertolt Brecht, su Franz Kafka, su Bernard Shaw, su Jorge Luis Borges, su Fernando Pessoa, su José Saramago hanno orientato il mio pensiero e a questi straordinari scrittori ho dedicato negli anni Settanta alcune opere. Era una visione che parlava dell’uomo, e lo faceva con il peso della coscienza. Sono letterature dure e incerte per soggetti reali e drammatici, isolati nella loro ragione che indaga, percepisce, scruta con ingegno e razionalità il mondo. Eppure da questa ragione nella mia pittura è rimasta la lacuna, le parti perdute di un mondo forse da ricostruire. Da queste premesse sono nate le Carte ritrovate. Nel mio operare sono solito mettere sotto le tele su cui lavoro fogli di carta comune, di colore giallo-ocra. Alla fine del processo ideativo rimanevano delle macchie, delle colature casuali su cui sono intervenuto successivamente. Sono nate così, reinterpretando i segni di un mondo possibile, mappe concettuali di un mediterraneo a me caro, diagrammi del tempo, figure mitologiche, racconti e frammenti di un mio immaginario sviluppato in decenni di attività. Queste Carte ritrovate raccontano, in maniera sostanziale, la mia visione dell’arte, in cui le sostanze sono sottese e il mio lavoro consiste nel farle emergere, al pari della attività di un archeologo.
Altra figura che ha segnato il suo percorso è stato l’incontro con Klaus Hemmerle (Teologo, Filosofo, Artista, Professore). Come e quando è nata la vostra conoscenza e collaborazione?
Ho avuto la fortuna di incontrare e diventare amico, a partire dagli anni Settanta, di un raffinato uomo di pensiero, artista e intellettuale, teologo e filosofo qual è stato Klaus Hemmerle, Vescovo di Aquisgrana, che mi ha offerto, con la sua amicizia, la possibilità di poter mostrare il mio lavoro in Germania, in diverse occasioni e opportunità. Per quasi venticinque anni si era recato ad Alghero con gli amici Wilfried Hagemann, Hans Peter e successivamente Peter Klasvogt. Hemmerle parlando della mia pittura così scriveva: “Marotta ha sviluppato un proprio stile, la sua arte possiede una sua unità, è genetica, nasce da se stessa in un processo forte e drammatico, non riceve passivamente le influenze dall’esterno ma le traduce in una maniera personale come in un dialogo”. Klaus aveva compreso questo continuo e instancabile confronto con me stesso, dove ricercavo il quadro assoluto, riscrivendo spesso su opere già storicamente datate, come se il processo fosse senza fine. Mi aveva colpito una frase da lui scritta: “L’arte di Marotta è inconsueta, non interessa a colui che cerca solamente effetti effervescenti sul mercato di moda. Essa cammina sulla via dell’uomo, in un mondo pieno di dubbi, limiti, prospettive e speranze”. Klaus era un amante dell’arte e mi onorava la sua passione verso il mio lavoro: era anch’egli un disegnatore, con acquerelli delicati, quasi ispirati ai quadri di Paul Klee. Nelle sue lunghe camminate era solito ritrarre i paesaggi sardi con una delicatezza di rappresentazione. Klaus mi ha voluto molto bene. Mi vedeva come in un suo specchio, in cui prendevo le sembianze del padre pittore. Accade che una chiave, Klaus ne aveva individuato quattro, ti consente l’ingresso in un non luogo, dove si formano i pensieri, dove si accendono le idee, dove si illuminano le intuizioni; un posto di cui oggi si sa poco o niente. L’uomo si è costruito nella sua evoluzione una mappa genetica, e, oggi, non siamo in grado di vederne le future proiezioni. Mi piacerebbe che la morte non fosse diversa dalla vita e che avesse le stesse evoluzioni, che la sua memoria potesse evocare se stessa, per raccogliere dati e vederne gli sviluppi, come accade per la vita. Un percorso parallelo, per sapere di più sulle distanze che ci separano.
Quanto l’arte ha cambiato la sua vita e quanto la sua vita ha cambiato la sua arte? Tirando le somme cosa le ha dato e tolto l’arte e cosa le ha insegnato a livello umano?
Ho avuto la fortuna di fare una attività che era al contempo mentale, spirituale, esistenziale e tecnica. Ma soprattutto, lavorando una vita ho scoperto che il mio impegno non mi recava stanchezza, ma nutriva la mia visione del mondo. Arte e vita non si possono disgiungere: una ha alimentato l’altra e viceversa. Ho sempre asserito che le mie composizioni non fossero precostituite ma i contenuti nascessero nel processo artistico, rivelando i loro aspetti più reconditi, emergendo dalle proprie strutture sotterranee. Nel mio percorso ho cercato di portare alla luce questi mondi sommersi e nel farlo ho imparato a comprendere le cose. Le ho capite proprio nell’azione del mio operato, alimentando la mia percezione attraverso il pensiero di intellettuali e artisti che mi hanno preceduto. Quindi l’arte mi ha solo insegnato e offerto codici per interpretare la realtà.
Pablo Picasso dichiarava “L’artista è un ricettacolo di emozioni che vengono da ogni luogo: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una forma di paesaggio, da una tela di ragno”. Penso che questa affermazione possa riassumere tutto quello che ci siamo raccontati.
Penso sia una affermazione vera. Ho sempre amato la definizione di Picasso che sosteneva: “io non cerco, trovo”. Un pensiero che ritengo essere anche parte della mia concezione delle cose. Le idee possono nascere da un qualsiasi spunto, ma si alimentano solo se possiedi un territorio profondo in grado di accogliere l’intuizione. Prima mi chiedevi del mio arrivo in Sardegna, della mia vita ad Alghero. Posso ribadirti che il territorio della Sardegna in cui ho vissuto mi ha offerto una nuova luce, quella mediterranea che, gradualmente, dopo gli anni Sessanta, ha sostituito le ombre che provenivano dell’arte del Seicento napoletano. La mia produzione, a partire dagli anni Settanta, ha interiorizzato la luce del Mediterraneo, mentre l’esistenza dell’uomo che vive le mie opere, quella ha seguito una sua naturale evoluzione, parallela alla mia di individuo. I quattro elementi: l’aria, l’acqua, il fuoco e la terra, che tu citi nella tua domanda, sono parte integrante della mia attenzione all’universo che, sin da ragazzo, ho cercato di comprendere attraverso letture scientifiche e umanistiche. Non è un caso che nei miei lavori la terra e il cielo siano sempre in tensione tra loro, con traiettorie e metriche che rimandano ad antiche cartografie e mappe, dove l’uomo, piccolo rispetto al creato, sente il peso di questa distanza, di questa complessità.
Sono rimasto colpito da alcune tue interviste impossibili con artisti del passato. Me ne può parlare, anche per capire chi è in realtà Nicola Marotta?
Mi fa molto piacere che hai colto anche questo aspetto della mia attività. Ho dialogato con artisti del passato, diversi da me, ma che mi hanno sempre affascinato. Per esempio parlando di Saul Steinberg avevo intrapreso questa riflessione: La sua infanzia è vissuta come incantata. In un fotomontaggio strepitoso Saul Steinberg tiene per mano se stesso da vecchio. Vedendo oggi il fotomontaggio saremmo in grado di dire che entrambi sono la stessa persona, ma si deve aggiungere che nel bambino di allora c’era già l’adulto che sarebbe diventato. C’è da chiedersi se quel senso di appartenenza che un figlio sente nei riguardi della propria madre, nel guardarla in una fotografia giovanile, ancor prima che concepisse il proprio figlio, cioè sentirla madre, ancor prima che questa lo sia realmente, sia da considerarsi pura fantasia, oppure se ci sia qualcosa di più complesso. Se così fosse, saremmo tutti uno negli altri, come le cellule prima di duplicarsi. Così ripenso alla vita degli artisti e a quella mia personale. Nel caso di Costantino Nivola, egli si stabilirà in America nel 1940. Steinberg, fuggendo a causa delle persecuzioni razziali, si imbarcherà per gli Stati Uniti nel 1940. Per entrambi fu una vita da protagonisti, in quanto hanno operato con artisti innovatori del pensiero dell’arte contemporanea. Penso a quando conobbi personalmente Costantino Nivola, una taglia d’uomo di misura d’altri tempi, forse intorno a un metro e sessanta, un viso modellato con grande destrezza alla Giovanni Pisano, i capelli con la scriminatura al centro e le due bande di capelli opposte. Aveva un aspetto fiero. Oggi penso che avrei potuto chiedergli del suo amico Saul, e pensare che proprio nello stesso periodo che io lo conobbi, Antine, come lo chiamavano gli amici sardi, aveva fatto uno straordinario ritrattino a figura intera – alto circa 16 centimetri – in argilla cotta a Steinberg. Nivola modellava la creta come le donne sarde manipolavano la pasta lievitata per fare il pane. Così è nata una intervista impossibile con Steinberg e spero che tu possa ritrovare in questa mia riflessione il nesso della tua domanda.
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La lingua più internazionale? La musica. Le mie collaborazioni sono un atto di stima e di amore. Elena Ledda La sua non è solo una voce. È un timbro inconfondibile che sa di vento, di terra e di cielo, di lentischio e di ginepro, di […]
Luciana Satta Musica PersonaggiLa lingua più internazionale? La musica. Le mie collaborazioni sono un atto di stima e di amore.
Elena Ledda
La sua non è solo una voce. È un timbro inconfondibile che sa di vento, di terra e di cielo, di lentischio e di ginepro, di mare e di roccia. Di incontri e contaminazioni tra ciò che siamo stati, ciò che siamo e i popoli del mondo. Di una donna che ha portato e continua a portare il suo sguardo fiero oltre i confini dell’Isola e le sue canzoni che parlano d’amore, di nascita, di bambini, di guerra, i temi a lei cari.
«Perché – dice Elena Ledda – il linguaggio musicale è più semplice di quanto non sembri. Di recente ho avuto un incontro con un violinista americano. Giuro che era difficile parlare, ma appena abbiamo iniziato a suonare non c’è stato bisogno di altro. Ho cantato anche con le voci bulgare e i nostri mondi, che sembravano così lontani, invece si sono incontrati ed è stato bellissimo e “facile”, che non significa che non devi studiare o non devi concentrarti. Ma che il linguaggio musicale è più internazionale di qualsiasi lingua».
Elena Ledda: Non ho mai dovuto riscoprire o apprendere una lingua sconosciuta. Quando ho iniziato a cantare in sardo era naturale per me. È la mia prima lingua, quella che parlavo normalmente, non solo in casa ma anche con gli amici e con tutte le persone che conoscevo. Dopo è stata anche una scelta di vita, un’affermazione più consapevole. Mi dicevano: “Ma perché con la voce che hai non canti in italiano? Il sardo ti chiude!”. Mi sembravano pazzi. Pensavo: “Ma perché il sardo mi dovrebbe chiudere? Quando usciamo dall’Italia, che io canti in sardo o in italiano è assolutamente lo stesso, anzi… l’italiano è comunque nel mondo una lingua minoritaria, anche se bella, anche se la adoriamo”. Più sentivo questi discorsi e più per me la lingua sarda diventava una scelta politica e culturale. Ho cantato in tantissime lingue. Quando cambio lingua, cambia anche il suono della mia voce. Per me l’espressione è fondamentale e io credo di essere sempre più espressiva quando mi esprimo nella mia lingua madre, che è il sardo.
Elena Ledda: La mia carriera come professionista era già iniziata qualche anno prima, nel 1975. Nel ‘79 mi venne data la possibilità di realizzare il mio primo disco, Ammentos, album di canti tradizionali della cultura del Campidano e del Logudoro. Si presentò la necessità di individuare un musicista che suonasse le launeddas e il mio produttore di allora mi suggerì di chiamare Mauro Palmas, allora giovane musicista (a quei tempi suonava la chitarra e già la mandola e poi si è specializzato con la mandola e con il liuto cantabile).
Che ricordi ho? Meravigliosi! Era un momento di grande fermento culturale. In verità a quei tempi non avevo ancora terminato gli studi al Conservatorio (li ho conclusi nel 1984). Da una parte ero impegnata nei concerti da solista, accompagnata da mio fratello alla chitarra (Marcello Ledda, n.d.r.), poi ho iniziato ad avvicinarmi al gruppo che in quel momento si occupava di world music, Suonofficina. Avevo intrapreso queste carriere parallele, insieme alla classica, perché ho continuato ad occuparmi di canto lirico. Finché, quando ho finito gli studi, ho deciso da quale parte volessi andare.
Ho un ricordo meraviglioso di quel periodo, perché era un momento in cui a Cagliari, in Sardegna, nel mondo c’era un vasto movimento culturale nel teatro, nella danza, nella musica contemporanea. Ricordo quei tempi con grande affetto, avevo grande voglia di studiare e di apprendere. Avevo anche un gruppo di musica rinascimentale. Era un momento di sperimentazione, in tutti i sensi.
L’accostamento tra me, che provenivo dalla tradizione, e Suonofficina, che invece guardava verso un’altra direzione, è stato un connubio molto importante: dalla mia parte portavo dentro il gruppo tutta la mia conoscenza della musica tradizionale, mentre loro invece mi conducevano verso un mondo che per me, a quei tempi, era sconosciuto. È stato molto bello.
Elena Ledda: Negli anni Novanta avevamo una carriera internazionale molto intensa. Il novanta per cento delle nostre esibizioni si tenevano in Italia, in Germania, in Francia, in Svizzera, in Austria. Quindi era anche naturale avere produttori all’Estero. Il titolo della canzone Maremannu è dedicato a un nostro caro amico ma, soprattutto, a uno degli intellettuali più importanti della Sardegna: Sergio Atzeni. Ho incontrato Lino Canavacciuolo due anni dopo. Nel ‘95 avevamo partecipato alla realizzazione di un disco dedicato a Fabrizio De André. Undici gruppi italiani vennero contattati per tradurre, ognuno nella propria lingua, una canzone di André. Questo lavoro era Canti randagi.
In quel progetto c’era anche Peppe Barra che aveva tradotto Bocca di Rosa. Noi avevamo tradotto Le tre madri. Con Lino Canavacciuolo ci siamo incontrati spesso. Era uno dei musicisti di Beppe Barra – che conoscevo già da molti anni – e, soprattutto, era il suo arrangiatore. Nel 2002 mi chiese di cantare due canzoni del suo primo disco da solista. Questo connubio è andato talmente bene che è stato naturale pensare di produrre il mio disco totalmente. Quindi è nata questa collaborazione con Lino che ha composto quasi tutti i brani di Amargura (alcuni sono di Mauro Palmas).
Ho amato molto questo disco, forse lo reputo uno dei miei lavori più maturi, più belli, più ricchi di sonorità ma anche i testi erano molto importanti. Amargura sembra un testo scritto oggi, per i bambini che muoiono senza nome. Dice: Quando muore un bambino è una tragedia, ma almeno ha una mamma che lo piange, mentre ci sono bambini che non hanno neanche una madre che possa piangerli. Era inoltre un disco incentrato già da allora sull’incomunicabilità tra le persone. Sa neghe ad esempio, parla della difficoltà di comunicazione tra due adulti che parlano ma non si capiscono.
E poi in Amargura ci sono canzoni d’amore e i temi da sempre a me cari, come la guerra: “Supra sas àndalas de s’amargura/ Cando falant a terra sas aeras/ E su chelu promissu non b’est/ Como chi sa culpa nos leat/ Ca mai si morit sola una criatura/ Ateros milli ruent umpare a issa/ Si ch’andant e no l’ischis mai/ E no est nùmene de l’ammentare” (“Sui sentieri dell’amarezza/ Quando i cieli discendono sulla terra/ E il cielo promesso non c’è/ Ora che la colpa ci prende/ Perché non muore mai da sola una creatura/ Altri mille cadono insieme a lei/ Se ve vanno e non lo sai mai/ E non è un nome da ricordare”)
Questo disco ha avuto un’importanza particolare per me, perché mi ha dato l’opportunità di cantare alcune cose che erano un po’ più lontane dalle mie corde, ma scritte da Lino sempre con un’attenzione particolare, nel senso che conosceva bene la mia vocalità, sapeva dove andare a cercare per renderla al meglio. Alcune canzoni del disco sono diventate successi internazionali, hanno milioni e milioni di ascolti sui canali Spotify, o su Youtube. Non riusciamo a capire come sia potuto avvenire.
La collaborazione con Lino poi è andata avanti per molto tempo, nel senso che ho lavorato tantissimo nei suoi dischi, nei suoi concerti. In seguito ha iniziato a scrivere soprattutto per il cinema, per la televisione, e in qualche modo la sua carriera si è incentrata sulla composizione di musiche per film, ma è una collaborazione aperta, che può sempre ricominciare».
Elena Ledda: Con Mauro è facile: abbiamo gli stessi obiettivi, abbiamo iniziato questo percorso insieme e non si è mai fermato. Ormai sono quarantatré anni. Non è difficile, io ho sempre avuto “amori lunghi”. Tutti i miei musicisti sono con me da moltissimi anni, ad esempio la collaborazione con Simonetta Soro è nata prima di quella con Mauro Palmas, eravamo compagne al Conservatorio e abbiamo percorso insieme una strada lunga, sia nella musica classica, sia nella musica della ricerca, in quella Rinascimentale e Barocca. Poi nel Duemila le avevo chiesto una collaborazione, perché dovevo fare un concerto di musica sacra in Francia. Da quel giorno non è mai uscita dal nostro gruppo.
Silvano Lobina, il mio bassista, è entrato nel 1993. Amo circondarmi di persone che in qualche modo condividano il progetto. Non mi piace suonare con i turnisti, per quanto bravi. Le collaborazioni sono un atto di stima e d’amore. Io non potrei mai salire su un palco con una persona che non stimo. Tutte le mie collaborazioni sono con persone con le quali condivido una visione della musica e che, soprattutto, ammiro.
Elena Ledda: Ti ringrazio per questa domanda. Quando ho fatto Cantendi a Deus erano trascorsi trent’anni dal mio primo disco, era il 1979/2009. Avevo tre progetti in mente. Non realizzo molti dischi, ma avevo qualcosa da dire, avevo tre progetti pronti e ho pensato di farmi un regalo. Non pensavo che sarebbe stato un disco di successo, così come poi è stato. Avevo studiato tanto la musica della tradizione sacra. Mi piace la musica sacra, perché è sempre bella, particolarmente quella sarda, con tante varietà, con tante possibilità ritmiche, melodiche differenti. Poi anche perché la protagonista è sempre Maria, che racconta attraverso la sua sofferenza la Passione di Cristo. Il mondo viene raccontato dai maschi, però le protagoniste poi sono le donne. Mi piaceva questo sguardo femminile. Ho fatto questo disco spiegando anche che non sottintendeva nessuna crisi mistica.
Non sono credente, però credo nella spiritualità, nella forza di questi canti. Mi sembrava ci fosse bisogno di fermare l’odio, di cercare di concentrarci su altri sentimenti piuttosto che sulla guerra. Ho portato questi canti indifferentemente in tutte le chiese della Sardegna, in Europa, fino alla Chiesa Santa Marta in Vaticano, ma anche nei paesi musulmani, in Algeria, in Tunisia, dappertutto, anche nei Festival più importanti di musica sacra in Marocco, a Fes. Credo nella forza di questi canti. Due anni fa è stato giudicato dalla Radio di Stato Polacca tra i 25milioni di dischi di world music degli ultimi venticinque anni ed è arrivato secondo. Avevo visto bene quando dico che la forza di certi canti supera certe regole. Felice che un disco che nasce senza nessuna velleità commerciale abbia avuto questo grande riconoscimento.
Elena Ledda: Quel concerto è stato uno dei momenti più belli e anche più difficili non solo della mia carriera, ma della mia vita. Siamo arrivati a quel concerto senza la certezza che Andrea sarebbe arrivato, perché quando abbiamo programmato quel concerto non eravamo certi che sarebbe stato ancora con noi e ancora di meno lo eravamo il giorno del concerto, perché aveva saltato tutte le prove. Non ha potuto mai raggiungerci per le prove ed è arrivato al concerto in barella. Era una situazione per noi di una emotività unica, inenarrabile. Se uno non vive una cosa del genere non può capire, tant’è che per i musicisti presenti su quel palco, per tutti noi, è stato indimenticabile.
Andrea è arrivato e noi eravamo sempre dietro il palco pronti ad entrare in scena nel caso lui avesse avuto necessità di uscire. Quando è entrato, eravamo tutti lì ad accompagnarlo, è partito l’applauso e dietro le quinte è scoppiato il finimondo: siamo scoppiati a piangere, eravamo tutti in lacrime. Dovevamo far finta che tutto fosse regolare, ma avevamo tanta tensione, però una volta che si è sentito l’applauso ci siamo lasciati andare. Poi sappiamo come è andata. Lui è entrato in scena e non è più uscito per due ore e dieci e ha cantato in maniera inspiegabile.
È stata una lezione di vita per noi e a me, personalmente, ha cambiato completamente il rapporto tra la vita e la morte. Per me la morte da quel momento non è una cosa sconosciuta: è qualcosa che fa parte della vita. Mi ha messo in maniera talmente violenta davanti alla morte che ho quasi imparato non ad apprezzarla e a non pensarla più come una sconosciuta, ma quasi come una compagna che è irrimediabilmente vicina a noi. È vero, ci ha tolto Andrea, è stato un dolore per tutti fortissimo, ma ha consolidato delle amicizie e dei rapporti importantissimi, il mio rapporto con la famiglia di Andrea, con Valentina (Casalena, n.d.r.) e con le figlie. Io e Valentina siamo “sorelle”. Prima ci conoscevamo, ma certamente il rapporto era più stretto con Andrea che con Valentina. Ora penso a Valentina come una sorella, assolutamente. Fa parte della mia vita, così come le bambine, che adesso sono ragazze.
Elena Ledda: L’idea del Premio è nata così, naturalmente, non c’è niente di forzato. Lo facciamo per Andrea, per tutto quello che avrebbe voluto fare e su cui stava lavorando, perché aveva iniziato a fare il produttore: accompagnare i giovani. Niente di più. Noi cerchiamo di portare avanti un progetto credibile, che abbia le gambe per andare verso il mondo, per camminare da solo. Il nostro obiettivo è solo illuminare un artista o un gruppo.
La Fondazione segue i vincitori anche dopo, vengono accompagnati negli altri Festival, coccolati, premiati. Se questo progetto finisse con me sarebbe veramente drammatico e non avrebbe valore. Dunque è importante che dietro di me, che mi avvio verso una carriera che prima o poi si dovrà fermare, ci siano già le altre persone, che siano già in cammino da un po’ per proseguire questo lavoro, perché la nostra musica (lo dico senza polemica) non ha le stesse possibilità di altri generi musicali.
Andiamo per la nostra strada, è un cammino differente, che io ho scelto e sono ben felice. Ciò che facciamo è questo: dare la possibilità nei giorni del Premio a giovani e meno giovani (non ci riferiamo a un’età anagrafica, ma al fatto che non siano conosciuti al grande pubblico) da un pubblico formato da operatori del settore e in quei giorni vengono in contatto con una serie di Festival europei che in qualche modo permette loro di farsi conoscere e notare. Vogliamo che questo cammino non si fermi.
Elena Ledda: Mi occupo della rassegna di world music Mare e Miniere. Da nove anni il cuore di questa manifestazione sono i seminari. Per una settimana Porto Scuso si anima di questi “strani personaggi” che arrivano da tutta Italia e da tutta Europa, che girano con tamburi, launeddas, chitarre, perché dentro la vecchia tonnara, che è un posto meraviglioso, dalle dieci del mattino fino alla sera diamo lezioni di chitarra, di canto popolare, di canto a tenore, di tamburi, di mandola, di musica d’insieme, di tutto quello che riguarda la musica popolare e poi, nell’ultimo giorno, mettiamo insieme uno spettacolo.
Non è un saggio, ma un vero e proprio spettacolo. È un’esperienza esaltante vedere come da tutto il mondo (dalla Norvegia, dalla Francia, dalla Germania, dall’Italia, dalla Sicilia, dal Friuli, dall’Ungheria) arrivino tutte queste persone che per una settimana si trasferiscono lì per lavorare come matte. Quando finisce la settimana la sera siamo stravolti di stanchezza, perché si inizia tutti i giorni alle dieci del mattino e si finisce a mezzanotte (perché terminati i seminari, iniziano i concerti). Ma è un lavoro meraviglioso che mi ha fatto scoprire alcuni talenti che adesso sono in carriera. Mare e Miniere mi terrà impegnata tutta l’estate. È molto gratificante avere con noi il maestro Luigi Lai che ha novant’anni e che guida la classe di launeddas.
Elena Ledda: Credo che lui sia uno dei più grandi musicisti che io abbia mai conosciuto nella vita (e non parlo di musica popolare, ma in generale). È veramente una forza della natura per costanza di studio e per la volontà che ha nell’insegnare. Lui studia tutti i giorni, per quattro o cinque ore al giorno. Arriva ai nostri seminari, entra alle dieci della mattina ed è l’ultimo che chiude la porta della sua classe la sera. Assiste ai concerti, va in giro per il mondo a suonare. Ha un entusiasmo incredibile.
Ha la stessa età di mia madre, ma io ho una tale confidenza con Luigi da viverlo non tanto come un padre, ma come un “fratellone”, perché ci conosciamo da più di quarant’anni e abbiamo un affetto grande. Abbiamo iniziato insieme a fare gli spettacoli nelle piazze, perché lui prima viveva in Svizzera. Abbiamo frequentato insieme i palchi della Sardegna e i palchi del mondo per tantissimo tempo. È uno di quei musicisti che ti stupiscono sempre. Tu lo senti mille volte, ma ti fermi sempre ad ascoltarlo.
È un monumento, penso che sia il musicista più importante che noi abbiamo avuto nel Novecento e che anche nel 2000 si sta difendendo. Penso che la Sardegna dovrebbe veramente dargli più riconoscimenti. Quando Luigi mancherà, sarà come se crollassero tutti i Nuraghi in Sardegna! Dovrebbe essere tutelato dall’Unesco! (ride n.dr.). Luigi conosce tutti i saperi dei suonatori antichi, poi è andato avanti, è uno studioso, un ricercatore. Io amo Luigi Lai, non ci posso far niente. Abbiamo fatto un concerto a San Saturnino, finito il concerto mi ha detto: “Concerti così ne dovremmo fare uno al giorno!”. Ha un tale entusiasmo che è difficile che si possa trovare un altro musicista così!
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Abbiamo avuto il piacere di incontrare Gianni Tetti nel suo studio al centro di Sassari. L’autore ci ha ospitato durante una pausa dal lavoro di scrittura. Alla parete una lavagna zeppa di appunti per futuri progetti, fogli sparsi vicini al pc su una grande scrivania […]
Arte Francesca Arca Libri PersonaggiAbbiamo avuto il piacere di incontrare Gianni Tetti nel suo studio al centro di Sassari. L’autore ci ha ospitato durante una pausa dal lavoro di scrittura. Alla parete una lavagna zeppa di appunti per futuri progetti, fogli sparsi vicini al pc su una grande scrivania al centro della stanza, librerie piene di volumi e quaderni. L’ambiente è accogliente e informale. La conversazione si snoda amichevole al riparo dal caldo di una mattina di inizio estate.
Gianni Tetti: Sognavo di fare lo scrittore fin da piccolo. Hai presente il classico tema delle elementari “Descrivi cosa vuoi fare da grande”? Io scrissi che mi sarebbe piaciuto diventare uno scrittore. Chiesi alla mia maestra cosa potesse fare uno scrittore a parte scrivere. Lei mi rispose che avrei potuto partecipare a molti premi. “Quali premi?” chiesi io. “Ad esempio il Premio Strega” mi disse. Il mio sogno era sempre stato questo.
Gianni Tetti: Mio nonno era di Bonorva. Era un archeologo, un professore di latino e greco e un cultore della lingua. Leggeva correntemente il greco, sia antico che moderno. Era abbonato addirittura a un quotidiano greco che gli veniva spedito. Insomma una figura di riferimento non solo per noi nipoti. Capitava che a volte ci portasse con lui nei siti archeologici. Tutti i nipoti stipati in una Panda, del pane e formaggio per merenda e poi liberi di giocare per i campi. Mentre lui compiva i suoi studi noi dovevamo fare attenzione nel caso trovassimo dei cocci o qualcosa di particolare. In genere dopo la gita ci chiedeva di scrivere una sorta di resoconto della giornata passata insieme che avremmo poi dovuto leggergli. Posso dire che questa è stata la mia prima esperienza di scrittura al di fuori della scuola. Mentre gli altri cugini si defilavano dall’impegno o comunque non ne erano particolarmente entusiasti io invece ero felicissimo!
Gianni Tetti: Posso dire che sentire l’appoggio della mia famiglia è stato fondamentale. Quando arrivò il momento di scegliere che indirizzo prendere alla scuola superiore, io optai per il Liceo Classico. I miei non erano particolarmente felici. Avrebbero preferito un diploma che potesse dare qualche certezza lavorativa in più ma io non ne volli sapere. Sentii di aver fatto la mia scelta e cercai sempre di assumermi le mie responsabilità e di non sbagliare mai. Loro lo hanno visto, lo hanno capito e apprezzato e per questo motivo mi hanno sempre supportato.
Gianni Tetti: Ce ne sono due legati alla figura di mio padre. Il primo risale a quando avevo circa 13 anni. Avevo scritto una piccola silloge poetica. Gliela lessi e lui la apprezzò ma aggiunse una frase che mi fece riflettere. “Con le poesie non si fa il pane. Se vuoi vivere di scrittura devi scrivere anche altro.” Capii subito il suo discorso e pensai quindi di dirigermi verso il romanzo e la sceneggiatura, lavorando e studiando su entrambi. Il secondo momento importante è invece avvenuto molto tempo dopo. Avevo circa 28 anni, avevo già un libro all’attivo (I cani là fuori) ma vivevo un momento di crisi. C’erano delle difficoltà per l’uscita del secondo libro (Mette pioggia) e mi sembrava di non riuscire a trovare una direzione precisa per la mia vita. Presi la decisione di domandare a mio padre l’opportunità di poter lavorare con lui nell’impresa di famiglia, cosa che in passato egli stesso mi aveva chiesto dopo il conseguimento della mia laurea. Mi portò fuori a pranzo e parlammo. Ancora ricordo che mi disse: “Se ti fermi adesso te ne pentirai per tutta la vita. Continua e ne riparleremo più avanti.” Per me è stato fondamentale sapere di avere il suo appoggio. Continuai. Ho sempre avuto l’orgoglio di mantenermi da solo. Subito dopo il Master avevo iniziato a lavorare per Un posto al Sole, poi è arrivato il Dottorato… ci vuole impegno ma è fondamentale sapere di avere intorno persone che ti supportano e ti appoggiano nelle tue scelte. Le parole di mio padre sono state importantissime. Poi nel frattempo sono diventato padre anche io. Nel 2014 è uscito Mette pioggia ed è anche arrivato il mio primo figlio seguito dal secondo, nato nel 2016.
Gianni Tetti: Un posto al sole, nella sua versione estiva, è stato il mio primo lavoro pagato che avesse a che fare con questo tipo di mondo. Avevo fatto un master di sceneggiatura che si svolgeva in gran parte tra Roma e Teramo e che coinvolgeva parecchi importanti professionisti del settore fiction. Mi impegnai molto perché la concorrenza era tanta e riuscii molto bene. Ebbi così la possibilità di fare due stage. Il saggio finale era ovviamente un progetto di scrittura e io presentai quello che poi divenne il mio primo libro “I cani là fuori”. Partii quindi a Roma per fare La Squadra e poi a Napoli per fare Un posto al sole. Dopo lo stage, l’head writer Paolo Terracciano mi chiese di rimanere a lavorare con loro. Dovetti superare un test che consisteva nello scrivere una puntata. Il primo test non andò bene ma il secondo per fortuna sì. Ci volle un grande impegno da parte mia perché prima di allora non avevo seguito la fiction. Fu un’esperienza davvero importante che mi insegnò come si lavora in questo ambiente. Rimasi con loro per due stagioni e tra una stagione e l’altra feci la New York Film Academy.
Gianni Tetti: La New York Film Academy è stata un’esperienza veramente importante. Vennero qui in Sardegna e selezionarono una ventina di studenti di cinema. In quel contesto conobbi Bonifacio Angius, Stefano Deffenu, ritrovai Domenico Montixi che era stato anche mio compagno di scuola. Conobbi anche Alessandro Gazale che poi è diventato un grandissimo amico e che tra le conoscenze che ho fatto in questo mondo è una delle più belle. All’epoca lui faceva parte di un elenco di nomi di attori che già lavoravano in importanti compagnie teatrali, tra i quali noi studenti avremmo dovuto scegliere il cast per il saggio. Mi ritrovai così a lavorare con Alessandro per la prima volta. Era più grande di noi e allora la differenza si notava di più. Lui, già un uomo fatto intorno ai quarant’anni, noi ragazzi di venticinque ancora agli esordi. Ora che è passata molta acqua sotto i ponti la differenza d’età si nota purtroppo di meno. (ride, ndr)
Gianni Tetti: Per quello che riguarda il libro pensai che per il saggio del Master fosse la cosa migliore presentare una storia sulla quale stavo già lavorando. Il mio fu un ragionamento di tipo pratico. Avrei avuto più tempo per concentrarmi sullo stile e fare qualcosa di buono piuttosto che partire da zero e dover lavorare a una nuova storia. C’è però un altro aneddoto su questo libro. Partecipai a un concorso a Sulmona la cui giuria era presieduta da Aldo Nove. Bisognava girare per la città e scrivere un racconto d’amore. Io presentai Adela, un altro dei racconti che poi saranno inseriti ne I cani là fuori. Lì conobbi Massimo Avenali che doveva curare un’antologia per Neo Edizioni. Fece il mio nome agli editori e fui inserito in questo progetto. Quando in seguito mi chiesero che cosa avessi di pronto da sottoporgli, io inviai il mio saggio del master che, dopo il lavoro insieme all’editor, divenne I cani là fuori, il primo dei miei tre libri. Per quello che invece riguarda SaGrascia posso definirla un’esperienza mistica attraverso la quale siamo cresciuti in tanti e per cui ringrazierò sempre Bonifacio. Poi c’è stato Perfidia e poi Ovunque Proteggimi. I concetti de I cani là fuori non sono lontani da quelli di Perfidia. La pensavamo allo stesso modo su tante cose, su Sassari, su come rappresentare la città, sulla gente… C’era una bella sintonia artistica. Nello stesso anno di SaGrascia ho avuto anche modo di girare il mio documentario Un passo dietro l’altro, prodotto dall’Istituto Superiore Regionale Etnografico e vincitore del premio AviSa, con le magnifiche musiche di Carlo Doneddu che ancora ringrazio.
Gianni Tetti: Benissimo. Sono amici fraterni. Mi hanno sempre trattato in maniera incredibile facendomi a volte anche sentire importante. Per un ragazzo di 26 anni è fondamentale sapere che ci sono persone che hanno la tua stessa passione e che ti supportano. Anche loro erano molto giovani e stavano iniziando. C’è sempre stato un bel clima di collaborazione che poi, nonostante tutti gli impegni di cui abbiamo parlato, ha portato al mio secondo libro Mette pioggia.
Gianni Tetti: Venivo da un periodo molto pieno di cose da fare. Avevo delle idee ma ancora non sapevo come metterle in pratica. Un giorno iniziai a vedere un documentario molto particolare sulle formiche e su un fungo parassita che, infettandole, era in grado di renderle simili agli zombie. Questo tipo di atmosfera diventò il collante di Mette pioggia. All’inizio voleva essere una sorta di raccolta di storie simile al primo libro e invece diventò un romanzo.
Gianni Tetti: Devi anche tenere conto che dopo tagli sanguinosi è rimasta fuori una buona parte del libro. (ride, ndr). Queste parti tagliate sono poi diventate un racconto intitolato Santa Cenere che è stato inserito in un’antologia dal titolo Propulsioni d’improbabilità edito da Zona42. Torniamo però al romanzo. Avvertii Neo Edizioni che la storia era talmente articolata da poter diventare una trilogia. Loro però volevano far uscire il libro nel periodo natalizio e in un’unica soluzione. Iniziò così un lavoro febbrile. Io inviavo loro le parti che avevo scritto e loro mi rimandavano le correzioni. Nel mentre io continuavo a scrivere per poter mandare in correzione una ulteriore parte del lavoro. Non è stato semplice perché contemporaneamente stavamo scrivendo il film Ovunque Proteggimi ma siamo riusciti ad arrivare alla fine. Io però volevo aggiungere in conclusione al romanzo una sorta di vocabolario per spiegare i termini sardi. Non volevo che fosse un elenco sterile bensì che risultasse una sorta di narrazione parallela in grado di far sorridere. Devo dire che anche in questo frangente ho trovato terreno fertile. Per questo motivo che penso che siano davvero dei grandi! L’ultimo problema da risolvere era il prezzo. Per la casa editrice era stato un libro molto dispendioso e quindi il prezzo doveva essere alto. Grazie anche ai ragionamenti fatti con Emiliano Longobardi siamo riusciti a pubblicarlo ad un prezzo di copertina tutto sommato contenuto. Questo ha sicuramente favorito sia la diffusione che la vendita.
Gianni Tetti: Abbiamo visto dei posti che non avevo mai visto, percorso delle strade che non avevo mai percorso. Siamo stati in paesi quasi spopolati dove la biblioteca diventa un vero punto di aggregazione. Il passaparola sembrava funzionare e le presentazioni si moltiplicavano. Siamo stati sostenuti in questo da Lìberos, dal sistema bibliotecario Coros Figulinas e dai giornali locali, anche grazie al grande lavoro di Giovanni Dessole che ha curato l’ufficio stampa di Grande Nudo prima e durante il tour. Eravamo presentissimi sui quotidiani. Ogni settimana facevamo almeno due o tre presentazioni sfiorando alla fine il centinaio.
Gianni Tetti: Eravamo a Osilo. C’erano moltissime persone e anche un giornalista de La Nuova che avrebbe dovuto scrivere un pezzo per la cronaca locale. Ad un certo punto Emiliano prende il cellulare e inizia a riprendermi. Mi dice che i miei editori vogliono un video. Sapendo che sono dei ragazzi goliardici ho pensato a qualche scherzo finché Emiliano non ha detto che avrebbero voluto vedere la mia faccia alla notizia della mia selezione per lo Strega. Ancora sento l’emozione nel raccontarlo. La gente iniziò ad applaudire. Ero senza parole. Una gioia infinita. Da quel momento le presentazioni triplicarono e il nostro tour si trasformò in un tour de force. Anche la distribuzione fu differente perché in questo caso il libro entra in una rosa di una ventina di titoli che sono sulla bocca di tutti.
Gianni Tetti: Avevo conosciuto Paolo Pisanu al tempo della collaborazione con Bonifacio Angius. Abbiamo scritto insieme la sceneggiatura di Tutti i cani muoiono soli, suo esordio alla regia. Paolo ebbe l’idea di presentarla al Premio Solinas e io mi trovai d’accordo. Mi sembrava un buon modo, qualora fossimo stati selezionati per la fase finale, per poter avere accesso a eventuali sostegni finanziari. Inoltre il Premio Franco Solinas è il più importante premio nazionale di sceneggiatura dove si ha la possibilità di essere valutati dai migliori addetti ai lavori di questo settore. Da quest’anno ho l’onore di far parte della giuria e posso dirti che è un lavoro serissimo. Ogni sceneggiatura ha un numero e nessuno conosce i nomi degli autori se non dopo la selezione quando vengono aperte le relative buste. Ricevemmo quindi la chiamata di Annamaria Granatello, Direttrice del premio, che ci comunica che siamo stati selezionati per la finale. Tra l’altro io conoscevo già la Direttrice perché avevo scritto la tesi del mio Dottorato proprio su Franco Solinas. Rimanemmo piacevolmente stupiti di risentirci in quel modo del tutto inaspettato per entrambi. La premiazione si tenne al Teatro India di Roma. Se gli altri concorrenti erano piuttosto tesi, Paolo ed io eravamo più scanzonati. Avevamo incontrato degli amici che ci avrebbero accompagnato poi a teatro e ci eravamo fermati in una vicina enoteca romana a brindare, forse un po’ troppo, alla serata. Arrivammo in teatro allegri e un po’ brilli, già soddisfatti di essere tra i selezionati. Quando a fine serata ci è stato assegnato il premio eravamo increduli. Paolo, che soffre d’asma, non riusciva quasi a respirare e ha addirittura dovuto cercare il suo inalatore prima di salire sul palco. Siamo stati davvero felici ed è stata una grande fortuna perché quest’anno dovrebbe uscire il film. Ma sono tanti i progetti in ballo e di alcuni purtroppo non posso ancora parlare. La sceneggiatura è così: lavori a un progetto e sai che ne vedrai i frutti solo dopo qualche anno.
Gianni Tetti: Quella su Franco Solinas è stata una tesi sperimentale il che implica andare a cercare una linea che parta dal principio, dalle poesie che scriveva da ragazzo quando ancora viveva a La Maddalena prima di trasferirsi a Roma. Sono andato alla sede del Premio Solinas dove ho studiato sulle sue sceneggiature originali. Ho conosciuto la Direttrice del premio e la figlia dello sceneggiatore. Ho imparato tantissimo. In particolare ho appreso che c’è un momento in cui la tecnica si può allentare per lasciare scorrere le parole. Per me che volevo fare anche lo scrittore e che all’epoca avevo già scritto un libro, è stata grande lezione.
Gianni Tetti: Sì, in quella occasione ebbi anche la fortuna di poterlo intervistare. Volevo fare la tesi sulla sceneggiatura di un film che mi aveva folgorato: Amores Perros di Alejandro González Iñárritu scritta per l’appunto da Guillermo Arriaga. Il materiale che trovai era solo in inglese e quindi iniziai a tradurre i testi in italiano insieme a mio cugino Angelo Manconi che mi diede una grossa mano. Finita la tesi sull’analisi di questa sceneggiatura mi misi in mente di fare un’intervista ad Arriaga a chiusura della tesi stessa. Era la prima metà degli anni 2000 e non avevo agganci per contattarlo. Provai quindi a fare delle ricerche su Internet. Arrivai al sito di un grafico che aveva fatto un lavoro pubblicitario scritto da Arriaga. Mandai una mail al grafico spiegandogli la mia situazione e chiedendogli di poter avere il contatto con lo sceneggiatore. Con mia sorpresa mi rispose Arriaga stesso che con grande disponibilità si prestò ad un nutrito scambio di mail. Tempo dopo venne in Italia per la presentazione di un suo libro e mi scrisse dicendo che gli avrebbe fatto piacere incontrarmi. La presentazione era a Roma e io partii immediatamente per raggiungerlo. Mi diede appuntamento in un hotel magniloquente. Dopo le interviste con la stampa si fermò a chiacchierare con me. Lo ricordo come un uomo altissimo, molto gentile, appassionato di basket e di baseball, che beveva solo Coca Cola. Mi invitò a pranzo e passammo insieme buona parte del pomeriggio. Mi ero laureato da poco e quando mi chiese che cosa volessi fare risposi di voler fare lo scrittore. Anzi, chiesi se avesse qualche consiglio da darmi. Mi rispose: “Se vuoi fare lo scrittore, scrivi e basta.” Questa frase così semplice mi liberò di colpo da un sacco di seghe mentali che le persone si mettono in mente quando decidono di intraprendere un mestiere. Avere conoscenze, tenere contatti… Da quel giorno non mi posi più quel genere di problema. Ho scritto e basta. Perché i contatti si creano attraverso il lavoro e attraverso il confronto che dal lavoro deriva.
Gianni Tetti: Ho sempre bisogno di scadenze e se non le ho me le auto-impongo. Ora che ho dei figli la mia routine è più ordinata. Accompagno i ragazzi a scuola e vengo qui in studio, organizzando le tempistiche insieme alla mia compagna. Sostanzialmente l’orario va dalle 9:00 alle 13:30, poi c’è una pausa pranzo e dalle 15 si riprende fino alle 20. Il mio lavoro parte tutto da appunti scritti a mano in decine di agende. Li studio e li riporto al pc e già mentre li rimetto in ordine diventano qualcosa di più. Quando iniziano ad avere il nucleo di un’idea incomincio a fare una scaletta. Penso a cosa possa accadere e cerco di arrivare mentalmente a un finale e a un punto mediano della storia, così da avere delle stelle polari da seguire. Poi ovviamente c’è da pensare allo stile che è altrettanto importante sia in un romanzo che in una sceneggiatura.
Gianni Tetti: Quando avevo 14 anni lessi Il giovane Holden di Salinger. Era come se mi sentissi vicino a Salinger, a quel libro e a quella meravigliosa semplicità, in apparenza così facile da raggiungere e in realtà così difficile. Salinger mi insegnò che si può fare. Poi arrivò Gàrcia Màrquez che mi fece capire che la scrittura poteva voler dire creare un mondo, essere come Dio. Se Salinger mi insegnò che si poteva fare, Gàrcia Màrquez mi insegnò che si poteva fare tutto. In ultimo ci fu Kurt Vonnegut che mi mostrò che con la scrittura si possono dire le cose più importanti anche sorridendo. Si può fare tutto quindi si può anche ridere. E poi c’è Pavese che descrivendo gli occhi di Valino ne La luna e i falò, per la vividezza dell’immagine, per lo stile e per le poche parole utilizzate per dire tanto, ha chiuso il cerchio sulla scrittura.
Gianni Tetti: Per quanto riguarda il cinema, Haneke è sicuramente uno dei miei registi preferiti. Aggiungo inoltre Lars Von Trier e senz’altro Paul Thomas Anderson. Sono i tre registi che veramente mi hanno dato l’idea di cosa voglia dire scrivere un film. Poi potrei dire Sorrentino per l’idea di come si fa un grande spettacolo. Oppure potrei citare il modo di girare di Garrone, che mi ha aperto gli occhi sulle possibilità del cinema italiano. Oggi apprezzo i fratelli D’Innocenzo che seguo con interesse. Ma i nomi sarebbero davvero tanti e non sarebbe possibile citarli tutti. Fellini, Monicelli, Petri, Leone. Nella sceneggiatura Ugo Pirro, Franco Solinas, Luciano Vincenzoni, Age e Scarpelli. L’elenco è davvero troppo lungo. Così come nella scrittura avrei potuto citare ad esempio Stephen King o le graphic novel di Gipi che ho iniziato a leggere quando avevo 13 anni e i suoi libri erano già dei capolavori. Entreremmo così in un altro mondo narrativo che è poi diventato parte del mio modo di lavorare e di pensare.
Gianni Tetti: Sono stato certamente molto contento e non posso che ringraziare La Nuova per questo omaggio. Anche perché dopo Grande Nudo non ho avuto la possibilità di dedicarmi a un nuovo romanzo. Il Premio Solinas vinto con Paolo Pisanu e quello vinto l’anno successivo con Sara Arango Ochoa, sono stati una spinta affinché il mio nome fosse richiesto per la scrittura di film nel cinema o nella serialità tv. Mi sono reso conto che non avevo più tempo per finire il libro che stavo scrivendo. Continuare a dedicarmici avrebbe voluto dire togliere tempo alla sceneggiatura che stava sempre di più diventando il mio lavoro principale. Quindi eccomi qua: sto facendo lo sceneggiatore. Ma il mio libro non è dimenticato. Aspetto solo di avere la possibilità per potermi fermare qualche tempo e poterlo terminare. Per adesso, purtroppo o per fortuna, ci sono dei progetti cinematografici che mi spingono a continuare a lavorare in questo ambito. Per un po’ ho scelto di seguire questa strada, anche se fin dall’inizio i due mondi sono sempre stati paralleli. So che un giorno o l’altro arriverà il momento di finire il mio prossimo romanzo.
Foto di copertina ©Gianfilippo Masserano
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Torna il Premio Rosilde Bertolotti dopo lo stop legato alla pandemia. Giunto alla XIV edizione, questo importante concorso di poesia e prosa in lingua sarda è ormai da decenni un fiore all’occhiello per gli appassionati e i cultori delle varie declinazioni del verso in limba. […]
Arte Attualità Francesca Arca SocialeTorna il Premio Rosilde Bertolotti dopo lo stop legato alla pandemia. Giunto alla XIV edizione, questo importante concorso di poesia e prosa in lingua sarda è ormai da decenni un fiore all’occhiello per gli appassionati e i cultori delle varie declinazioni del verso in limba. Dal logudorese al tabarchino, dall’algherese al sassarese, ogni sfumatura del linguaggio della nostra isola diventa tassello luminoso di un bellissimo mosaico di cultura in memoria di Rosilde Bertolotti.
Organizzato dalla Sezione di Sassari della FIDAPA BPW ITALY (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari) il premio si inserisce pienamente nello spirito di valorizzazione della cultura e dei territori sempre molto caro alla FIDAPA. Proprio nei giorni scorsi, il 23 Giugno, nella splendida aula magna dell’Università di Sassari il Premio Rosilde Bertolotti è giunto alla sua fase conclusiva.
Davanti a un nutrito pubblico di appassionati e a numerose autorità cittadine, la Presidente della Sezione di Sassari Martina Pinna, moderatrice dei vari interventi, ha ricordato la figura di Rosilde Bertolotti, artista, poetessa, scrittrice e insegnante alla cui importante figura il premio è dedicato. Ha inoltre ringraziato la giuria presieduta da Grazia Elisabetta Coradduzza per l’importante lavoro di valutazione svolto con coscienza e impegno. Ogni premio assegnato, menzione o segnalazione, è stato infatti corredato da ampie motivazioni lette nell’occasione da Serena Cansella Viale – realizzatrice anche del volume commemorativo dell’evento con il contributo e l’impegno di Auretta Carta Saba – e da Adele Loriga Camoglio. La giuria oltre alle già citate, era formata dalla stessa Presidente di Sezione, da Vannina Obino e da Francesca Arca.
Maria Lucia Fancellu, Presidente del Distretto Sardegna e ospite della manifestazione, ha sottolineato il ruolo attivo della FIDAPA nel territorio e l’importanza di mettere in luce l’arte delle varie culture identitarie al fine di preservarne storia e tradizione.
Nel corso della premiazione sono state lette tutte le opere in concorso. Alcune sono state affidate alla voce degli autori stessi, altre all’interpretazione sempre coinvolgente di due importanti nomi come Clara Farina e Daniele Monachella, mentre il componimento Nit de Nadal è stato sapientemente recitato in algherese dal Prof. Antonello Colledanchise. La serata è stata inoltre impreziosita dalla voce e dalle musiche del Maestro Franco Sechi.
Ogni autore ha ricevuto in premio un attestato e una medaglia. Le prime opere classificate hanno inoltre ricevuto in regalo un’opera pittorica messa a disposizione dalle socie artiste Serena Cansella Viale, Auretta Carta Saba, Maria Luisa Casiraghi, Rosalba Crillissi, Grazia Elisabetta Coradduzza e Adele Loriga Camoglio.
La premiazione è stata coadiuvata dal piccolo Antonio Campra, elegantissimo paggio, che ha rallegrato il pubblico con il suo sorriso e la sua diligente e attenta presenza.
Primo Premio ex aequo
Secondo Premio ex aequo
Terzo Premio ex aequo
Menzione d’Onore
Segnalazione
Premio Giuria per la Prosa
La Sezione di Sassari della FIDAPA ha ringraziato la FONDAZIONE FIDAPA che ha concesso un contributo il quale, unitamente a quello concesso dalla Camera di Commercio, è servito per la stampa dei libretti. Il ringraziamento è quindi stato esteso anche alla Camera di Commercio I.A.A. di Sassari, al Prof. Gavino Mariotti, Magnifico Rettore dell’Università di Sassari per il patrocinio e l’ospitalità concessa, alla Commissione Regionale per le Pari Opportunità per il patrocinio e alla Dott.ssa Antonietta Piras, notaio in Sassari, per la generosa disponibilità.
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Peppino Anfossi è nato a Sassari nel 1970, dove vive e lavora. Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte di Sassari e il Conservatorio “Luigi Canepa” si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Sassari. Ha seguito i corsi di violino con il maestro Bruno Pinna e successivamente […]
Arte Benito Olmeo Musica PersonaggiPeppino Anfossi è nato a Sassari nel 1970, dove vive e lavora. Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte di Sassari e il Conservatorio “Luigi Canepa” si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Sassari. Ha seguito i corsi di violino con il maestro Bruno Pinna e successivamente ha frequentato i corsi di perfezionamento con il maestro Felice Cusano. Prosegue la sua formazione frequentando numerosi corsi sull’improvvisazione e si specializza in musica popolare.
Dopo aver suonato in varie orchestre, intraprende la carriera violinistica fondando il gruppo musicale NASODOBLE, vincitore del premio nazionale MUSICA CONTRO LE MAFIE, con il quale ha suonato per diciotto anni, ottenendo numerosi successi nazionali condividendo palchi con artisti come CAPOSSELA, NEGRAMARO, PFM, AREA, AVION TRAVEL, NUOVA COMPAGNIA DI CANTO POPOLARE, PAOLO BENVEGNU’, PAOLO CIARCHI, JAMES SENESE, BRUNORI SAS e tanti altri.
Insieme a Carlo Doneddu, Peppino Anfossi fonda il gruppo de “I figli di Iubal” (Sony, Mescal). Ha suonato e suona con vari progetti musicali: Bordell (musica irlandese), Pasquale Posadinu (Primo chef del Cosmo), Andrea Desole (Ice), Il crack del ‘29 (gipsy jazz – manouche), NUNC (duo voce e violino, musica elettronica), Angela Colombino (cantautrice), Patrizio Fariselli (AREA). Ha registrato per numerosi dischi NASODOBLE, FIGLI DI IUBAL, PASQUALE POSADINU, JOE PERRINO, CORDAS ET CANNAS, PIERO MARRAS, CHICHIMECA, ALESSIA DESOGUS e tanti altri.
Nella vita, probabilmente condizionato dalla famiglia di Artisti, il padre Vidèo Anfossi pittore e il prozio Tosino Anfossi, fondatore insieme a Eugenio Tavolara del pupazzo sardo, Peppino Anfossi si è dedicato e si dedica anche all’arte visiva. Ancora studente dell’Istituto d’Arte, partecipa a numerose mostre e manifestazioni artistiche con opere pittoriche, installazioni e performance.
Ben presto si dedica all’arte della decorazione, specializzandosi soprattutto nella decorazione di locali, bar e discoteche in tutta la Sardegna. Decora due importanti locali a Bologna e la gradinata dello stadio “Vanni Sanna” a Sassari. Contemporaneamente si dedica alla grafica pubblicitaria realizzando importanti campagne pubblicitarie in ambito regionale.
Dal ’98 al 2000 lavora come grafico nel giornale “Il Quotidiano” di Sassari e subito dopo si trasferisce a Genova dove per due anni lavora presso la “EAGLE PICTURE” per la realizzazione di copertine dvd nella sezione home video. Nel contempo si dedica anche alla grafica di diversi lavori musicali e collabora con numerose compagnie teatrali ed emittenti televisive curando la scenografia.
Dal 2001 ha una scuola di pittura e nel 2015 inizia un’esperienza lavorativa come pittore nel cinema all’interno di produzioni cinematografiche, tra cui la casa di produzione TEMPESTA nel film ARIAFERMA di Leonardo di Costanzo con Toni Servillo e Silvio Orlando.
Realizza un murales a Badesi, omaggio al Maestro Tosino Anfossi. Nell’opera di Tosino Anfossi, che si laureò in chimica con la tesi riguardante la colorazione dei tessuti di orbace, è sempre molto presente l’utilizzo del tessuto. Per questo per la realizzazione di questo murales c’è stata un’accuratissima ricerca del colore. L’artista ha voluto dare anche una valenza storica al progetto generale dei murales per recuperare la memoria storica per lui sempre importante.
Peppino Anfossi: In realtà in questa macchina meravigliosa che è l’arte ci sono sempre stato a partire dal primo odore del colore ad olio e della trementina che ho respirato sin da bambino. Il primo suono invece è stato quello dei dischi che ascoltava mio padre mentre dipingeva, sia nel suo studio che all’aperto. Ricordo che quando ci portava al mare, soprattutto nei porti che amava dipingere, aveva sempre con sé la sua immancabile radiolina e noi figli, seduti accanto a lui, assistevamo a quello che era un vero e proprio spettacolo messo in scena con i pennelli, i colori, un cavalletto e l’accompagnamento musicale.
Mio padre aveva un rapporto molto fisico e gestuale nel compimento dell’opera: come uno spadaccino affronta l’avversario, lui affrontava la sua tela e tutto questo era accompagnato sempre da una “colonna sonora” che non mancava mai nel suo atto creativo. Tutto questo ha suscitato in me quel fascino e quella curiosità che hanno condizionato le mie scelta di vita.
Peppino Anfossi: Ho sempre ascoltato musica, sin da quando ero piccolo: classica, jazz, tango argentino e soprattutto tantissimi cantanti francesi. Ma sono entrato a contatto anche con la musica che ascoltavano i miei fratelli più grandi, quindi praticamente un genere totalmente diverso. Forse è per questo che ascolto sempre di tutto e non riesco a ragionare per “genere musicale”. Se un brano o un’opera mi piacciono non sento l’esigenza di doverli necessariamente catalogare o meglio racchiudere in un genere ben definito.
Non ricordo come nacque la mia passione per il violino perché ero molto piccolo. Però ricordo che a casa c’erano diversi strumenti musicali portati da mio padre ogni volta che rientrava dai viaggi per le mostre. Io ne sono stato sempre affascinato e incuriosito, tanto da provarli un po’ tutti, ovviamente quasi come fosse un gioco, e bene o male riuscivo a ottenere qualche suono un po’ da tutti, a parte il violino.
Credo che questa cosa abbia condizionato la mia scelta quando a nove anni feci l’esame di ammissione per entrare al Conservatorio. Portai una suonata per pianoforte, ma quando mi chiesero quale strumento desiderassi suonare, risposi sicuro: “Il violino”. Non dimenticherò mai la faccia stupita di mio padre che rimase ammutolito per tutto il viaggio durante il rientro a casa. Ovviamente non mi sono mai pentito di questa scelta.
Peppino Anfossi: Il progetto Nasodoble è stato molto importante per me, soprattutto per la mia crescita musicale. Noi componenti del gruppo arrivavamo da esperienze musicali molto diverse: chi , come me, dalla classica, chi dal punk rock, chi dal jazz, chi dal metal e chi dalla musica popolare. Questo ha fatto sì che il genere dei Nasodoble non prendesse mai una connotazione precisa, soprattutto perché per la nostra formazione non potevamo farlo.
È così che Nasodoble ha colmato la mancanza che sentivo proprio nella parte riguardante la sperimentazione a 360 gradi del violino, strumento decisamente meno versatile di altri. Cominciai così ad appassionarmi anche al mondo dell’elettronica, soprattutto quando suonammo con i “Quintorigo” e vidi per la prima volta dal vivo degli effetti collegati a un violino e un violoncello. Rimasi così folgorato da questa esperienza che non ho mai smesso di sperimentare nuovi suoni ed effetti.
Per anni i miei “mentori” sono stati soprattutto i chitarristi, non potendo purtroppo avere scambio con altri violinisti per questo tipo di approccio sull’utilizzo dell’effettistica. È stato comunque con i Nasodoble che ho potuto maturare quell’esperienza che mi ha fatto crescere musicalmente e che in questo momento si è concretizzata con la fondazione dei NUNC insieme a Manuel Attanasio. Con la sua voce ha fatto un percorso musicale molto vicino a quello mio violinistico.
Nasodoble mi ha permesso di sperimentare e mettere a frutto tutte le esperienze che raccoglievo in altri progetti e collaborazioni di tutt’altra forma e matrice musicale. In quegli anni presi parte anche alla fondazione con Carlo Doneddu del gruppo de I FIGLI DI IUBAL, prodotti da Sciopero Records e Mescal, grazie agli YO YO MUNDI. Con loro intraprendemmo un lungo e importante percorso artistico, fino a mettere in scena uno spettacolo musicale tratto dal libro “Un’anno sull’altipiano”, che ha visto sul palco una quindicina di musicisti, coinvolti anche nel compiere delle azioni sceniche.
Peppino Anfossi: Diciamo che mi è capitato di condividere palchi importanti, ma posso sicuramente dire che gli incontri che mi hanno cambiato la vita dal punto di vista musicale sono stati quelli con Patrizio Fariselli degli AREA e con Paolo Ciarchi, autore della famosa canzone “Ho visto un re”.
Fariselli mi ha dato una visione della musica che mai avrei pensato di poter esplorare, passando attraverso John Cage, grazie al progetto “Musicircus” ideato e diretto da Simone Sassu con l’Associazione Nasodoble, realizzato nelle miniere di Montevecchio e all’Ex-Q di Sassari. Grazie a questa esperienza, la conoscenza con Fariselli si è poi consolidata nel tempo.
Con Paolo Ciarchi, che posso affermare essere stato padre spirituale dei Nasodoble, ho invece imparato a respirare la musica, respirarla in tutta la sua essenza sia in quella terrena che in quella spirituale.
Peppino Anfossi: Conosco Federico da tanti anni, soprattutto come artista. Ho amato tantissimo gli “Chéri sulla luna”, il gruppo di cui è stato il cantante e da allora ho sempre seguito con interesse il suo percorso musicale. Nel suo ultimo lavoro, “Canzoni di mari”, sono stato coinvolto per curare l’immagine come una sorta di direttore artistico.
Ho realizzato la grafica del disco dopo aver intrapreso insieme a lui un lavoro di approfondimento del territorio e della “lingua turritana”. Il lavoro sta proseguendo grazie alla collaborazione di un altro grande artista che è Luca Noce con cui lavoro da tanti anni e con il quale ho condiviso parte della mia vita, sia in ambito lavorativo e soprattutto in quello per me forse più importante, quello umano.
Peppino Anfossi: Non è semplice rispondere perché avendo fatto tante esperienze in diversi campi non saprei dire se sono rimasto legato a qualcuno in particolare. In ogni lavoro cerco di mettere dentro sempre tutto me stesso in modo da trarne una crescita personale e professionale. Tutto quello che faccio deve per me avere delle caratteristiche fondamentali. Una di queste è la crescita artistica che deve andare di pari passo al mio impegno. Ritengo di essere emotivamente legato ad ogni lavoro anche se in modo diverso.
Peppino Anfossi: Ho dedicato e continuo a dedicare tanto tempo alle arti visive. Non posso farne a meno, come se sentissi un richiamo alle origini: è qualcosa che mi porto dentro e che in parte è legato anche alla mia famiglia. Come nella musica, anche nelle arti visive non smetto mai di sperimentare, sia che faccia decorazione sia che faccia illustrazione o grafica. Alla base di questo mio naturale approccio con l’arte credo ci sia proprio la curiosità, che per quanto mi riguarda, insieme alla passione, non deve mai mancare.
Mi sono reso conto, studiando la vita e l’opera di Tosino Anfossi, che quello che viene fuori è proprio la curiosità nell’utilizzo dei materiali. Attraverso la sua laurea in chimica, ha approfondito le conoscenze sulle sostanze coloranti adoperate in Sardegna e sulle tecniche di tintura. Le utilizzò tantissimo per realizzare le sue opere e soprattutto per la creazione, insieme a Eugenio Tavolara, del pupazzo sardo. Per questo suo voler sempre ricercare e sperimentare sento molto forte l’influenza della famiglia.
Peppino Anfossi: Ho lavorato per tre mesi come pittore nel reparto scenografia per il film ARIAFERMA girato a Sassari all’interno del carcere di San Sebastiano e diretto da Leonardo Di Costanzo. Sono arrivato con il bagaglio di tanti anni di decorazione, ma l’esperienza nel cinema, oltre che formativa, è stata molto forte anche dal punto di vista emotivo, visto il luogo dove è stato realizzato il set.
I primi giorni di lavorazione sentivo un’energia molto forte che ora posso affermare di aver provato solo lì, tra le mura del carcere, come una profonda inquietudine e sensazione di abbandono. Ma grazie a un grande Maestro come Leonardo Fabbri, al quale sono stato affiancato, tutta la mia energia è stata rapita dall’imponente lavoro di scenografia. Dal punto di vista professionale mi ha regalato una delle esperienze più belle e importanti della mia vita.
Peppino Anfossi: La realizzazione di un murale a Badesi è stato per quanto mi riguarda un consolidamento del legame che ho con la Sardegna e principalmente con la mia famiglia. Una dedica a Tosino Anfossi mi è sembrata doverosa, soprattutto per il suo operato artistico, purtroppo secondo me poco riconosciuto. Mio padre ha lavorato una vita perché gli venisse riconosciuta la sua importanza artistica e per questo sono contento di essere riuscito a realizzare il murale prima che mio padre venisse a mancare.
Nella mia opera dedicata a Tosino Anfossi credo di esser in qualche modo riuscito a rendere umilmente giustizia al “murale” come io credo debba essere inteso: come rappresentazione pittorica. Oggi mi sembra ci sia tanta confusione da questo punto di vista, soprattutto con l’avvento della street art. Vedo tantissime opere più che altro decorative e molto lontane da quello che un murale dovrebbe esprimere, senza ovviamente entrare in merito alla bellezza di molti lavori che conosco, ma manca proprio “l’anima” del murale, che soprattutto in Sardegna ci contraddistingueva.
Peppino Anfossi: Il mio rapporto con la spiritualità è molto complicato, come credo un po’ per tutti, visto che ovviamente si è anche modificato con il tempo. Mi condiziona molto l’energia che mi arriva dalle persone e dalla natura. La percepisco come una vibrazione che sento molto forte addosso, che inconsciamente assorbo ovunque mi trovi, ed è come se al mio interno non trovassi mai un equilibrio dove stare a mio agio. Lo stare fermo mi fa estremamente soffrire, così mi ritrovo sempre alla ricerca di un rifugio, ma poi, quando lo trovo, non mi basta più e ne cerco altri. Non so se questo sia esattamente un rapporto con la spiritualità, ma si avvicina molto a quello che credo sia il rapporto dell’uomo nei confronti della natura e della religione. Mi sento un po’ come intrappolato nella rete virtuale, una blockchain spirituale.
Peppino Anfossi: Sono allineato al suo pensiero!
Foto di copertina ©Salvatore Abbotto
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Luca Noce è un noto artista sassarese che per anni ha lavorato per un gruppo arabo dedicandosi alla valorizzazione di alcune tra le ville più prestigiose della Costa Smeralda. Oggi la sua opera va oltre la pittura e la decorazione parietale e si esprime nell’arredo, […]
Arte Benito Olmeo PitturaLuca Noce è un noto artista sassarese che per anni ha lavorato per un gruppo arabo dedicandosi alla valorizzazione di alcune tra le ville più prestigiose della Costa Smeralda. Oggi la sua opera va oltre la pittura e la decorazione parietale e si esprime nell’arredo, nel design e nella scultura. Negli ultimi anni ha firmato anche diverse scenografie per registi sardi. Attualmente vive e lavora a Sassari.
Luca Noce: La tua impressione, credo sia corretta. Penso che ogni volta si cerchi di fare arte, non si possa fare a meno di guardarsi allo specchio. La ricerca artistica, per come la vedo io è una continua introspezione a volte soddisfacente, altre volte frustante, divertente e faticosa. Ho sempre pensato di dipingere per capire e nell’intento di capire mi pongo infinite domande. Sono convinto che i miei lavori siano ricchi di domande e poveri di risposte. L’idea però, di condividere tutto questo è meravigliosa.
Se guardo indietro e ripercorro fino ad oggi le mie ricerche di carattere artistico, forse trovo poche cose ma abbastanza costanti.
Ricordo che da bambino, facevo di frequente una precisa domanda al mio caro maestro Moretti; gli chiedevo di spiegarmi l’infinito. Con tutti gli sforzi del povero maestro, non mi sentivo mai soddisfatto delle diverse spiegazioni che cercava di darmi. Non riuscivo ad afferrare il concetto. Oggi sono grande e continuo a pormi la stessa domanda.
Luca Noce: E’ sempre strano sentire quale sia la percezione degli altri nei tuoi confronti.
Luce e buio, sembrerà banale dirlo, ma sono due componenti presenti in ognuno di noi in modi diversi. La difficoltà forse sta nell’accettare e vivere anche in modo funambolico questa condizione. Una cosa, non potrebbe esistere se non esistesse l’altra. Il tema, comunque sia, lo vedo strettamente legato alla spiritualità, anche questa, in un modo o nell’altro, presente in ognuno di noi. Credo che possano esistere infinte strade per toccare la luce ad altrettante per toccare il buio.
E’ vero, in parte mi sento una persona riflessiva; se penso per esempio all’atto del dipingere un quadro, sì, devo dire che mi vedo molto riflessivo, posso stare un mese in attesa di dare un colore ad un determinato particolare, soggetto o fondo. Allo stesso tempo vedo sacra la fase embrionale dello stesso quadro, che per me, risiede nel disegno a matita su carta. E’ questo il momento dove tutto avviene, spesso senza capire ciò che sta avvenendo.
Non c’è dubbio, che l’arte per me sia la miglior terapia, è una cosa che ho sempre pensato. A volte penso di essere molto più agitato di quanto il mio corpo possa lasciare trasparire.
…un giorno il maestro Moretti entrò in classe (forse ero in terza elementare), accompagnato da un’altra maestra per farle vedere la mia incapacità di stare fermo, seduto al mio posto. Le disse: “guarda come agita le gambe, non riesce a stare fermo”. Oggi, credo mi avrebbero assegnato un’insegnante di sostegno. Penso di essere stato un bambino difficile, disubbidiente e distratto.
Abitualmente, quando il maestro abbandonava l’aula per qualche motivo, mi metteva in mano una scatola di gessetti colorati e mi assegnava il compito di fare un disegno alla lavagna. In quelle occasioni, entravo nel mio mondo e la terapia poteva quindi svolgere la sua funzione. Ricordo che disegnavo alla lavagna infinite guerre. Il tempo per me scorreva e mi sentivo isolato da tutto il resto. Il maestro, dal canto suo, guadagnava il silenzio in aula visto che era riuscito ad impegnare uno degli elementi di disturbo.
Luca Noce: “Disamistade” rappresenta una ricerca artistica che mi ha impegnato per diversi anni a più riprese. La prima ispirazione arriva certamente dall’omonimo brano di F. De André. In realtà, però posso dire che la scintilla mi è arrivata successivamente mentre ascoltavo il brano in questione rivisitato da un gruppo locale; gli Andira. Non so spiegare questo, forse semplicemente mi è stato necessario rivivere il brano da un’angolatura differente affinché si potesse scatenare qualcosa.
Ho iniziato come sempre mi accade a disegnare con la matita senza sapere. Più tardi, mi è nata una domanda: “perché dovrei stupirmi di un conflitto mondiale, quando nella mia terra, ci si uccide per molto meno? Per il furto di una pecora?” A volte, penso che per cercare di capire le grandi cose, bisogna cercare di capire le cose più piccole e forse anche quelle più vicine a noi. Quindi sono partito ancora una volta dalla mia terra e poi, in modo naturale, la ricerca si è ampliata fino ad arrivare a toccare l’argomento principale di questo mio percorso che evidentemente, risiede nella relazione tra la donna e l’uomo. Una relazione questa, legata a vari aspetti del sociale, della cultura, della tradizione e della religione. In quegli anni, ricordo per esempio, che parlavo spesso con diverse persone, le quali vedevano nell’infibulazione una “cultura” in qualche modo da rispettare.
Credo fortemente che esistano dei momenti nei quali “dobbiamo” avere la forza di esporci, di prendere delle posizioni precise. Alcuni atteggiamenti radical-chic, politically correct, laissez faire, credo mettano, e all’epoca mettessero in crisi un libero ragionamento. Spero che i quadri in questione possano raccontare ciò che non riesco a spiegare con le parole. Non credo di avere portato all’attenzione niente di nuovo. Credo purtroppo, di avere raccontato a modo mio una “realtà” già vecchia sul nascere.
Luca Noce: Sin da bambino, ho sempre amato la “Tiricca”, la sua forma mi incantava. Ovviamente amavo anche il suo sapore, è sempre stato il mio dolce sardo preferito. La prima volta che dipinsi una “Tiricca” era il 1994, era un piccolo quadretto. Nel 1997 dipinsi un grande quadro che raffigurava una “Tiricca” gigante sanguinante sospesa in un profondo cielo blu. Ancora non sapevo cosa significasse per me questa “cosa”. Sapevo solo che amavo dipingerla, amavo guardarla e amavo mangiarla. Anni dopo, dipinsi un nuovo quadro con lo stesso soggetto. Mi sentii uno stupido, per la prima volta, mi accorsi che quella “Tiricca” era una spirale. Pochi anni dopo, dedicai un’intera mostra alla “Tiricca”, in quest’occasione, realizzai un lavoro in cui provai a concettualizzare questo dolce per me ormai sacro.
La “Tiricca” è fatta di pane e di vino, i simboli della passione di Cristo, è fatta di luce e di buio, è una spirale che racchiude in sé tutto quello che non riuscirei mai a raccontare. La “Tiricca” rappresenta la luna e l’universo. Per arrivare a capire cosa racchiudesse questo fantastico dolce, credo sia stato necessario non capire niente per diversi anni, dipingerla e ridipingerla in modo quasi quotidiano per svuotarla del suo naturale significato per scoprirvi al suo interno un nuovo universo.
Questo affascinante concetto di Sisinnio che hai citato, credo si riferisse in particolar modo alla Tiricca.
In seguito, ho iniziato a dipingere alcune ricette sarde. Ho pensato che in questo mondo sempre più uniformato e omologato, sarebbe stata una cosa carina, lasciare ai posteri degli appunti in modo da non dimenticare chi eravamo e cosa mangiavamo. Per conoscere noi stessi, probabilmente dobbiamo conoscere il nostro passato. Conoscere le nostre origini potrebbe aiutarci ad essere più liberi.
Mangio sempre volentieri una “Tiricca”.
Luca Noce: Che dire, credo che ognuno di noi, soprattutto operando in ambito artistico, almeno una volta nella vita abbia pensato di andare via da questo bellissimo posto. Anche io più di una volta credo di averci pensato, ma penso mai seriamente. Se fossi nato da un’altra parte forse non avrei mai dipinto una Tiricca. Amo questa terra, ci sono nato e fino ad oggi, ho scelto di viverci. Sono rimasto per amore, per vigliaccheria, per comodità o pigrizia per nostalgia e per ispirazione.
Penso che in ogni mio quadro posso trovare in qualche modo la Sardegna, è una cosa che fa parte di me. Dico questo anche riconoscendo quanto in diversi modi tutto ciò possa essere stato un limite, ma alla fine penso che se tutti andiamo via, qui non rimane nessuno. Con questo, sia chiaro che non ho nessuna intenzione di prendermi alcun merito. Amo questa terra e il raccontarla è più forte di me. La racconto anche quando cerco di non raccontarla.
Luca Noce: In realtà, il mio avvicinamento alla scenografia cinematografica non è stato proprio una necessità. Direi che ci sono caduto dentro, o che forse mi ci hanno tirato dentro per le orecchie, il che, non mi è dispiaciuto affatto, anzi…
Nel 2013 ebbi la fortuna di incontrare nel mio studio Grazia Porqueddu e Bonifacio Angius. Conoscevo Grazia, e pochi anni prima, mi aveva curato una mostra personale. Non avevo mai incontrato Bonifacio, il quale, mi propose di curare la scenografia del suo prossimo film. Lusingato, quanto spaventato, gli dissi che non avevo mai fatto questo lavoro. Sereno e fiducioso, mi rispose che avrebbe voluto collaborare con uno scenografo che non avesse mai fatto cinema, in quanto privo di schemi e quindi potesse avere un approccio più libero.
Ovviamente, terrorizzato quanto entusiasta, accettai il lavoro e fu così che firmai da scenografo il mio primo film “Perfidia”. Indubbiamente, devo a Bonifacio il mio avvicinamento al mondo del cinema. Non lo ringrazierò mai abbastanza per la fiducia che ha riposto in me in quell’occasione, e non solo in quella. Da parte mia, posso dire di avere avuto la fortuna di arrivare a quell’appuntamento, non dico pronto, ma con una varietà di esperienze in ambito artistico, tutte utili alla professione dello scenografo.
In tanti anni di attività artistica, mi sono occupato di decorazione e allestimento, di scultura e design, arredo, grafica e ovviamente pittura. Vedo la scenografia, come un grande contenitore che al suo interno racchiude tutte queste cose. Un’inquadratura cinematografica, ha una relazione tra gli spazi e i colori che non si allontana molto dalla composizione di un quadro pittorico. Certamente sono due cose totalmente distinte, ma l’attenzione ai cromatismi è molto simile, e questa è una relazione alla quale mi sento di prestare molta attenzione. Da un punto di vista pratico, e sicuramente meno artistico, un’altra cosa importante nella scenografia cinematografica è l’organizzazione e la pianificazione del lavoro in funzione soprattutto della cronologia del film.
In passato, mi sono trovato spesso a coordinare squadre di lavoro, ed il fatto, di essermi trovato più volte a capo di un progetto, mi aiuta molto nella necessità di riconoscere e rispettare il “sogno del regista”. Non dimentichiamo, che la scenografia è un’arte applicata. Questo significa che ove vi sia della libertà di espressione, deve sempre essere funzionale alla riuscita del film e quindi alla visione del regista, al suo sogno. Tutti noi, tutte le maestranze all’interno di un film, sono utili affinché possa prendere forma la visione di un singolo; quella del regista. Il cinema, credo abbia la capacità di contenere al suo interno tutte le espressioni artistiche e/o arti applicate.
Luca Noce: Nella mia vita, ho avuto la fortuna di spaziare nel mondo dell’arte e di spostarmi in modo quasi schizofrenico da una disciplina all’altra. Continuo a sentirmi in qualche modo fuori luogo in qualunque posto. Da una parte è una bella cosa, perché non sai mai cosa farai domani, dall’altra mette un po’ a disagio, appunto perché non sai cosa farai domani.
Di sicuro, mi sento di amare la creatività in qualunque forma essa si presenti e mi sembra di non potere vivere senza questa “cosa”.
In un modo o nell’altro, tutte le arti applicate hanno diversi compromessi ed hanno inoltre una funzione ben precisa. Questo non le sminuisce affatto, ed al loro interno può esistere indubbiamente una “libertà espressiva” in diverse forme. La pittura, in questo senso, la intendo come una pura “libertà espressiva” priva di compromessi di qualsiasi genere. Il fatto che io venda o no un quadro, non è per me un problema, solitamente dipingo quando ne ho bisogno. Non sono un pittore come non sono uno scenografo o un decoratore. Mi sento sempre un Luca Noce prestato a qualcosa…
All’interno delle arti applicate, forse l’esperienza più completa e più vicina al mio essere, è stata quella dedicata ad una villa in particolare, di proprietà di un gruppo arabo in Costa Smeralda. In oltre dieci anni di lavoro, direi a tempo pieno, ho avuto la possibilità di spaziare dalla decorazione pittorica di interni ed esterni, alla scultura da interno o da giardino, al design, all’arredo fino alla realizzazione di scenografie dedicate per svariate feste tematiche svoltesi tra yacht, giardini e bordo piscina.
Forse questa è stata la mia condizione ottimale. Qui ho potuto vivere varie fasi lavorative, dalla progettazione alla realizzazione finale e soprattutto un’enorme diversità nelle varie tipologie di opere. All’interno di questa esperienza artistica e professionale, la creatività non aveva limiti. Vi erano tutte le condizioni non solo dal punto di vista artistico e creativo. Inoltre, posso dire di avere vissuto un ottimo rapporto sia con la committenza che con il mio amico e socio Federico Soro con il quale siamo riusciti a dare vita a innumerevoli progetti.
Anche all’interno della mia ricerca personale di carattere pittorico, credo di spostarmi in modo ugualmente schizofrenico anche se mi sembrano chiari e quasi dei punti fermi i continui e rassicuranti ritorni. In qualunque condizione, la pittura è stata sempre una costante in alcuni momenti più presente in altri meno. Non so se potrei vivere senza questo, e non so se potrei vivere facendo solo il pittore… forse da grande…
Per quanto riguarda il corto in stop-motion, devo dire che è sempre stato un mio desiderio, almeno una volta nella vita cimentarmi nella realizzazione di un’animazione di questo tipo. Da totale autodidatta, mi sono trovato a giocare con la plastilina in un progetto che mi ha assorbito per circa sei mesi. Qui vorrei citare Peppino Anfossi che oltre essere un caro amico e mio compagno di tante avventure, come me ha sempre avuto il desiderio di concretizzare un progetto di questo tipo. Senza la sua collaborazione mi sarei trovato in grande difficoltà.
Per dare vita a progetti di questo tipo, ci vuole tanta passione e dedizione, un committente generoso e coraggioso e soprattutto ottimi collaboratori.
Luca Noce: Questo significa moltissimo. Credo che nel momento in cui si crea qualcosa capace di suscitare o trasmettere delle emozioni, si sia toccato per un momento un qualcosa di sacro. L’aspetto umano, in questo particolare momento coincide con quello artistico, perché sono la stessa cosa. Potremmo vivere solo per questo.
Luca Noce: Avevo ventisette anni, stavo preparando la mia prima mostra personale. Incontrai un gallerista il quale vide i miei lavori e si soffermò in modo particolare su un testo che avevo scritto ispirato dal quadro più rappresentativo della mostra: “L’impedimento della contraddizione”. Dopo avere letto il testo, mi guardò con uno strano sorrisino compiaciuto e mi disse: “ti piace Hegel…?” io rimasi un attimo in silenzio, poi risposi con un sorrisino credo simile al suo e accennai un timido sì con il movimento della testa.
Ovviamente non conoscevo Hegel.
Mi vergognai come una capra della mia ignoranza, ma allo stesso tempo, mi sentii orgoglioso del fatto che lui abbia potuto pensare che io apprezzassi la filosofia di tal Hegel.
Luca Noce: Non credo che l’arte ci possa salvare dai nostri fantasmi, credo che ci possa aiutare a riconoscerli e credo ci possa indicare le vie per una civile convivenza. Il punto sta nell’imboccare la via giusta, ammesso che ci sia “una” via giusta.
Di rito la mia ultima domanda chiede all’intervistato di raccontarsi, ma penso che queste tue stesse parole ti rappresentino al meglio: “Più volte ho ricercato la luce – altre volte il buio – spesso mi sono trovato solo nudo parte della terra dentro la terra – spero sempre nelle trasparenze di una veste che ricopra le sorti del mondo – oggi sono qui in quanto vivo – una parte di me vuole un’altra no – sogno inconsapevolezza di vivere – sogno continuamente la ricerca della luce – aspetto il giorno in cui scoprirò la luce sotto di me – sto sempre bene quando guardo il cielo”.
Foto di copertina ©Marco Sanna
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I Bertas: Fino a quando avrai canzoni da cantare la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai! Casa Dau, a Sassari, è un edificio dei primi anni del Novecento. In questo palazzo antico si respira la storia della città, sin dalla rampa […]
Luciana Satta Musica RicordiI Bertas: Fino a quando avrai canzoni da cantare la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai!
Casa Dau, a Sassari, è un edificio dei primi anni del Novecento. In questo palazzo antico si respira la storia della città, sin dalla rampa di scale dai gradini alti che percorriamo per arrivare allo studio di registrazione dei Bertas. Mi accompagna l’amico Salvatore, che della più longeva band sarda è grande fan. Ciò che da subito mi colpisce è il collage di fotografie, tantissime, attaccate al pannello esposto sulla parete. Il passato dei Bertas è lì, in quei visi di ragazzi, nei capelli e negli abiti degli anni Settanta e ora, oggi, in tutti quelle esperienze impresse sui loro volti. In tutti quegli aneddoti racchiusi in quegli scatti. Quante storie, quante vite.
È una frase che per noi dice tutto. Se non avessimo avuto questa idea del futuro e del passato, avremmo smesso già trent’anni fa. Nella nostra lunga storia ci sono stati molti momenti in cui ci siamo guardati in faccia, alla fine di ogni stagione, e ci siamo detti “Che facciamo, continuiamo?” Ci abbiamo pensato due, tre volte. In realtà poi abbiamo capito che non aveva nessun senso smettere, perché il fatto di continuare a fare musica insieme ce l’abbiamo dentro. Continua a essere impensabile lasciare. Certo, la paura che il futuro non sia molto lungo, data l’età, in realtà c’è… ma non ci pensiamo, guardiamo sempre oltre, alle cose che dobbiamo fare. Questo forse ci ha aiutati nel corso di quasi sei decenni di attività musicale.
Enzo Paba
Quando ho scritto questo pensiero, ho espresso forse quello che ci disturba. Capita ci venga chiesto: “Ma non siete stanchi, non avete voglia di smettere, non vi sentite vecchi?” A noi non succede. Ciò che ci succede è di valutare le esperienze che abbiamo fatto con il dispiacere di renderci conto che non potremo farne altrettante per lungo tempo… perché, avendo tutti sui sessant’anni, è così! Premetto che loro sono i Bertas, ma io mi sento parte della famiglia. Gli anni alle spalle hanno un’importanza e un peso, nel senso che dobbiamo onorarli. Quelli
Franco Castia
davanti non potranno essere altrettanti e ci dispiace, perché la voglia di fare musica è la stessa. Cerchiamo di evitare l’inerzia, l’idea di dire “riposiamoci un po’”. Forse in questi ultimi anni abbiamo fatto di più, rispetto a quando avevamo maggiore freschezza fisica, proprio perché l’idea di voler vincere la “vecchiezza” (non la “vecchiaia”) è più forte. Poi, come diceva Enzo, ci spinge l’amore per quello che facciamo.
Tutti noi abbiamo saputo anche vivere alcuni “compromessi”, nel senso che ovviamente se sappiamo che a Enzo dà fastidio qualcosa, o a Marco altro, cerchiamo comunque di andare avanti. Bisticciamo spesso, ma alla fine la pizza ci sta sempre!
Mario Chessa
Sulla musica soprattutto! Però sono litigi costruttivi, necessari (ride, n.d.r). È così da tanti anni…
Mario Chessa
In realtà chi entra a suonare in un gruppo, nel gruppo deve sapere vivere. L’ho capito sin da ragazzino: per poter andar avanti bisognava saper “cedere”, a volte, lasciare il passo anche agli altri, concordare cose che non sono sempre “sposabili” personalmente. Il segreto è dare spazio a tutti, come in una squadra di basket, per fare un esempio: un po’ per tutti e siamo andati avanti sempre tutti insieme. Abbiamo un obiettivo, un compito, che è quello della squadra: così abbiamo sempre cercato di reggere e di proseguire con questo spirito… sempre…
Marco Piras
Noi seguivamo già i Bertas quando ancora non ne facevamo parte, nel senso che eravamo più piccoli di loro. Io sono anche cugino di Carlo e di Antonio Costa. Seguivo i Bertas per motivi anche “familiari”. Antonio ha fondato i Bertas andando via da un altro gruppo sassarese, i Baronetti. Dopo sei anni sono subentrato io, poi è arrivato Marco, che allora aveva 17 anni, infine si è aggiunto come paroliere Franco e così tutti gli altri… è stata una specie di staffetta. A un certo punto, Antonio ha mollato per seguire la Canepa e l’Ente lirico De Carolis. Lui componeva. Una volta andato via lui, siamo stati costretti a continuare a comporre per proseguire l’attività. E così siamo arrivati ad oggi
Mario Chessa
Credo che in questa frase ci sia l’essenza di quello che facciamo. La voce per noi ha la supremazia sullo strumento. Io ricordo che quando si entrava a far parte dei Bertas (molti hanno fatto parte dei Bertas in questi anni – in tutto 26 persone –). Chi entrava nel gruppo, più che saper suonare uno strumento, doveva saper cantare, doveva avere una voce che fosse compatibile con quelle degli altri componenti, perché la cifra dei Bertas sono i cori, lo è sempre stata. Quando c’era Carlo, quando c’era Giuseppe Fiori, il nostro compianto Giuseppe, in realtà eravamo quattro voci soliste, veramente complementari. Ognuno aveva le sue caratteristiche: c’era quello che aveva la voce più “graffiante”, o quello più melodico… queste quattro voci si incastravano molto bene nei cori e, soprattutto, nella scelta dei pezzi da eseguire. Era ed è la voce quello che caratterizzava i Bertas. Gli strumenti devono essere ovviamente suonati bene, col loro giusto impatto, con il giusto fraseggio, ma la vocalità e la coralità sono sempre state le nostre caratteristiche principali. Tant’è vero che poi abbiamo aggiunto dei coristi che ci supportassero in questo campo. Questo è appunto il senso della frase: la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai…».
Enzo Paba
Dopo l’esperienza della messa in sardo, dove avevamo sperimentato il doppio coro, abbiamo avuto l’esperienza del tributo a Brian Wilson e alla musica dei Beach Boys. Anche lì entravano dodici voci, non simultanee, ma diversi cori che si sovrapponevano. Oggi ci stiamo sperimentando nel doppio coro, riusciamo a fare due cori all’interno dei nostri ultimi brani che sono in produzione adesso… per cui la responsabilità vocale è aumentata ancora di più. Ci aspettiamo che la voce regga, perché tutti i nostri progetti sono ad alto livello vocale
Marco Piras
La frase nasce con una canzone del ’93, con “Amistade”, che era un album di rifondazione, perché per la prima volta i Bertas hanno fatto una scelta di campo, cioè hanno deciso di presentarsi con un repertorio personale, originale. Quell’album ha rappresentato una svolta. Al centro è sempre la voglia di cantare, continuare ad avere quella passione, quella spinta verso la musica. Inizi a pensare che ci sono tante componenti dovute all’età che non puoi governare con la buona volontà. Quando dovrai salire sul palco a 85 anni… vanno bene, Enzo? (si rivolge a Enzo Paba, ride n.d.r.)
Franco Castia
Ci son sempre le ambulanze! (ridono n.d.r.)
Enzo Paba
Abbiamo approfittato di questo periodo. Abbiamo sperimentato nuove forme di collaborazione perché, essendo con il lockdown costretti a stare a casa (e gran parte dei musicisti è organizzato e dotato di mezzi per poter registrare per conto proprio a casa), abbiamo progettato così: abbiamo mandato una base, Francesco Piu ha fatto delle sovrapposizioni al nostro brano, registrando la sua parte a casa sua. Poi ci sono state anche altre collaborazioni importanti. Abbiamo dunque sfruttato il periodo nel modo migliore possibile».
Mario Chessa
Forse ti riferivi al fatto che i musicisti hanno pagato un prezzo molto alto perché c’è il problema che tanta gente vive di musica, non soltanto i musicisti ma i tecnici, gli stessi nostri coristi. Il musicista in sé ha utilizzato quel tempo per studiare, per provare nuove sonorità. Da quel punto di vista questo ha fatto bene ai musicisti, tutto il resto è da dimenticare!
Enzo Paba
Il primo incontro con la musica sarda è nato con Giuseppe Fiori. Quando Antonio ci ha proposto Badde Lontana ci siamo accorti che sembrava molto strano che noi potessimo cantare in sardo. Giuseppe era l’unico che forse poteva essere più adatto di noi a cantare in sardo. Ancora adesso il cantare in sardo ci condiziona un po’, perché secondo noi si sente che non siamo di madrelingua sarda, un po’ come nel caso di Andrea Parodi o dei Tazenda, insomma. Giuseppe aveva una capacità di interpretazione con una passione che forse noi non avevamo. Avevamo altre caratteristiche, è stato giusto che la cantasse lui. Era il ‘73 quando loro (senza di me) la presentavano nelle piazze, poi io sono entrato nel gruppo nel dicembre del ‘74 e nella primavera del ’75 abbiamo registrato Badde Lontana.
Enzo Paba
Abbiamo suonato nelle carceri ma l’esperienza nella Comunità di recupero La Crucca è stata un’esperienza ancora più forte. Lì ho conosciuto una realtà che mi ha arricchito, ma è stato come un pugno allo stomaco.
Enzo Paba
Non avremmo mai immaginato tanta stima da parte di colleghi musicisti con i quali non ci vediamo mai o comunque in rare occasioni. Ci hanno onorati con l’esecuzione dei nostri brani, è stata una soddisfazione pazzesca. Sentire i nostri brani riarrangiati in maniera sopraffina, e così sentita, è stata una soddisfazione grande e non finiremo mai di ringraziarli per questo sforzo nei nostri confronti. Tra l’altro ci siamo resi conto di quanta bravura ci sia in Sardegna, anche se in realtà abbiamo sempre saputo che rispetto al numero di abitanti l’Isola offre un panorama artistico notevole. Ma vederli così, tutti insieme, preparati, è stato davvero emozionante!
Marco Piras
All’inizio avevamo pensato di coinvolgere tutti coloro che avevano fatto parte dei Bertas. Questa era l’idea iniziale, però era molto complicato organizzarla, invece poi si è scelta questa strada.
Enzo Paba
Adesso vediamo cosa riusciamo a fare per i 60 anni!
Mario Chessa
Quando abbiamo registrato l’album “Amistade” dovevamo scegliere un brano che aprisse il disco, che poi è di solito quello che viene trasmesso in radio. Seguendo un consiglio, avevamo scelto “Noranta” ma alla fine è il pubblico che decide! Ci accorgevamo che “Como Cheria” era il brano che andava di più, quello che eseguivano maggiormente durante le serate, nei piano bar, nei gruppi, nelle piazze. Gran parte dei musicisti sardi lo usavano nel loro repertorio. Così sono passati 28 anni e c’è stato sempre un crescendo, dal 1993.
Enzo Paba
Se lo sapessimo ne avremmo scritti altri venti! (ride n.d.r). Quando abbiamo suonato all’Anfiteatro romano di Cagliari per Emanuela Loi. Avevamo fatto due o tre pezzi e questo era piaciuto tantissimo, lo ricordo particolarmente.
Enzo Paba
C’era la premiazione di una corsa di cavalli e a quel tempo i palchi non erano come quelli di adesso, ma c’erano i tavoloni che arrivavano dalla base fino al palco con dei gradini. A un certo punto chiamano il vincitore del primo premio e questo sale sul palco col cavallo! Era completamente sbronzo e non riuscivano a tenere il cavallo. Farlo scendere dal palco insieme al cavallo è stato molto difficile!
Mario Chessa
Un’altra volta ci siamo trovati in mezzo a due fazioni che si lanciavano delle arance. Abbiamo continuato a suonare con queste arance che passavano da una parte all’altra del palco!
Marco Piras
Non erano per noi… ma insieme alle arance lanciavano anche le pietre! (ridono n.d.r.)
Mario Chessa
Ricordo che i nostri concerti (parliamo degli anni Settanta) duravano tre ore… erano tante! Eseguivamo un repertorio vastissimo, a volte facevamo anche qualche pezzo in più. I comitati ci dicevano ogni volta che avremmo dovuto continuare a suonare. Ci dicevano: “No! Dovete continuare a suonare! Ci sono stati i Nomadi una settimana fa e loro hanno suonato cinque ore!” Noi pensavamo che non fosse vero invece era proprio vero, che i Nomadi suonavano davvero per cinque ore, non li fermava nessuno!
Enzo Paba
Ricordo una delle prima serate che ho fatto sempre negli anni Settanta in un paese vicino a Sassari. Avevano esposto il vecchio manifesto, con la foto dei quattro componenti dei Bertas (precedenti al mio ingresso nel gruppo). A fianco, per un effetto grafico, come in uno specchio erano riflessi sempre gli stessi quattro componenti del gruppo. Alla fine del concerto non ci volevano pagare, perché i componenti erano quattro e invece nel manifesto eravamo in otto! Abbiamo dovuto insistere parecchio per far capire agli organizzatori che si trattava di un equivoco dovuto a un effetto grafico e che nel gruppo eravamo davvero in quattro! (ridono n.d.r.)».
Mario Chessa
Quando avevo sei o sette anni facevo degli spettacolini per altri bambini e cantavo. Dai dodici anni in poi mi è nata questa passione. Non facevo altro che sfogliare un catalogo di una nota rivista di acquisti dell’epoca nella quale vendevano la fisarmonica. Costava mille lire al mese e mamma non poteva comprarmi la fisarmonica. Dunque sono sempre stato fissato con la musica, però non avevo gli strumenti. Ho iniziato a suonare quando sono andato a lavorare con mio zio, che era il padre di Antonio Costa. Lì c’era la chitarra. Antonio Costa mi ha insegnato i primi accordi con la chitarra e io suonavo nelle pause. Quando si è trattato di entrare nei Bertas, Antonio mi ha insegnato a suonare la tastiera.
Mario Chessa
Ricordo che a casa c’era un androne delle scale strepitoso quindi io passavo le ore sulle scale cantando, perché impazzivo per l’eco. Mia madre mi ascoltava e capiva che avevo una passione per la musica. Devo dire che ho avuto dei genitori fantastici, ma una cosa ho sempre rimproverato loro: mi hanno mandato a lezione di piano privatamente. Io facevo le elementari e ho fatto lezioni di piano per tre anni, perché avevano capito che mi piaceva la musica. L’ho studiata dai cinque agli otto anni e ricordo ancora, a distanza di cinquant’anni, l’odore di quei pianoforti. Ogni tanto vado all’orfanotrofio e sento il profumo del pianoforte. Però secondo loro non stavo andando benissimo a scuola e quindi hanno smesso di farmi frequentare le lezioni di piano e questa cosa è stata devastante per me, perché avrei potuto e voluto continuare. Poi a quattordici anni in spiaggia ho iniziato a suonare la chitarra, osservando gli altri»
Enzo Paba
Mia madre era amica del maestro Fiori, era un musicista noto, con Dino Puglia… era amica d’infanzia e mi parlava sempre di Fiori. Un giorno mi ha portato a vedere i BAT 66 e ho avuto la mia folgorazione: ho visto la chitarra elettrica azzurra metallizzata. Avevo dieci anni. Già ascoltavo I Beatles e il loro pezzo Girl. Cercavo di eseguire la melodia con una tavola e una lenza costruita da me. Alla fine mia madre, disperata, mi chiese cosa desiderassi per la quinta elementare. Ho chiesto una chitarra. Mia madre mi ha portato dal maestro Alberto Fiori che suonava la chitarra molto bene e finalmente ho potuto imparare. Dagli inizi si capisce. Io ero il chitarrista del mio quartiere, tutti cantavano e io accompagnavo. Questo mi ha stimolato molto. C’è sempre un momento illuminante. Nel ’66 avere una chitarra elettrica era impensabile. Ci ho messo tanto prima di averne una.
Marco Piras
Loro hanno vissuto il beat e il pop, io sono un pochino più giovane. I miei zii compravano a Cagliari e a Sassari i dischi quindi sono cresciuto ascoltando i Beatles. Poi, la mia vera folgorazione nella musica è stata ascoltare Fabrizio De André. Poi ho conosciuto i Bertas e certo non è stato un incontro come un altro!
Franco Castia
Foto di copertina ©Cenzino Chessa
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Luigi Carta, per tutti Gigetto Carta, è nato il 1 Gennaio 1963 poco dopo la mezzanotte, in un villaggio chiamato Secondo Salto fra Villagrande Strisaili e Tortolì, in Sardegna. Un villaggio di proprietà dell’Enel, dove gli abitanti lavoravano per mandare avanti una centrale idroelettrica. «Ho […]
Maurizio Casu Musica Personaggi RicordiLuigi Carta, per tutti Gigetto Carta, è nato il 1 Gennaio 1963 poco dopo la mezzanotte, in un villaggio chiamato Secondo Salto fra Villagrande Strisaili e Tortolì, in Sardegna. Un villaggio di proprietà dell’Enel, dove gli abitanti lavoravano per mandare avanti una centrale idroelettrica.
«Ho passato un’infanzia molto bella, sempre arrampicato su qualche albero o impegnato a pescare al lago e al fiume». Il fiume è il Flumendosa, il lago è Sa Teula e le centrali idroelettriche erano tre, gestite ognuna da un villaggio, detti Primo, Secondo e Terzo Salto.
«A casa mia si ascoltava musica con un Radiomarelli, i miei genitori avevano un po’ di 45 giri di Gianni Morandi, Elvis Presley e altri.» Sorride mentre mi versa un bicchiere di vino. Siamo a casa sua, in sala, con Barore, il suo cagnolino, che ascolta le nostre chiacchiere mentre sgranocchia un biscotto.
«Nel 1969, per Natale, andai a Cagliari con la mia famiglia, alla Rinascente, per comprare i regali. Ormai sapevo che Babbo Natale era il mio babbo. Vidi una motoretta, vera, monomarcia, con motore a due tempi. Stavo per prenderla quando il mio sguardo cadde su una chitarra elettrica nera, con battipenna bianco, l’imitazione di una stratocaster. Bellissima, scelsi quella al posto del motorino. Aveva un amplificatore alimentato da dei torcioni che duravano all’incirca 30 minuti, il suono si faceva distorto quando le pile si iniziavano a scaricare, ed era quello il suono che cercavo! Ancora non conoscevo neanche una nota!».
D’estate al villaggio Telis (Arbatax), Gigetto Carta ebbe modo di sentire dal vivo i Telisman, band del posto con Marcello Murru (che nel 1984 partecipò a Sanremo Giovani, in trio, con il brano “Mondorama”) che si occupava di animare le serate dei vacanzieri. «Seguivo Sanremo, il Cantagiro, lo Zecchino d’oro, registravo su cassetta i programmi, in assoluto silenzio, perché il microfono del registratore era esterno e prendeva tutto, voci e rumori. I Delirium con Jesahel mi affascinarono molto, erano strani, nuovi ed esaltanti».
Il 02 Giugno del 1972, in occasione delle prime comunioni, al Secondo Salto venne suonata la Messa Beat. Chitarre elettriche, tastiera, basso e batteria. Lo stesso giorno, al dopolavoro del cantiere, venne organizzato dal sacerdote il Festival dei Bambini. Gigetto Carta salì per la prima volta sul palco e cantò “Il lungo, il corto e il pacioccone“, brano di una recente edizione de “Lo zecchino d’oro”. «Quel prete era creativo, coinvolgente ed originale. Ho saputo che ha lasciato il sacerdozio. Non sanno cosa si sono persi!».
Si alza e mette un disco di Alice Cooper mentre Barore sonnecchia indifferente. «Dal Secondo Salto ci trasferimmo a Villagrande Strisaili». Il trasferimento fu necessario per consentire alla sorella maggiore di frequentare le scuole medie più comodamente, anche perché l’unico collegamento fra il “Secondo” e il resto del mondo era costituito esclusivamente dal “Romeo“, un furgoncino Alfa Romeo (da qui il nome) guidato dal signor Chillotti che ogni mattina andava a Tortolì per ritirare pane, latte ed altre merci da consegnare a chi ne aveva fatto richiesta.
«Una volta, avrò avuto 9 anni, sono andato con il signor Chillotti all’ Offelleria Guiso, una pasticceria storica di Tortolì. Ho speso 1200 Lire in paste e le ho mangiate tutte, all’epoca una pasta costava intorno alle 100 Lire». A Villagrande Gigetto Carta passò dalla pluriclasse (dalla prima alla quinta in un’unica classe) del “Secondo” alla quinta elementare regolare, in una scuola che a lui sembrava enorme.
E Adesso musica! Un’esortazione per Gigetto Carta. In realtà era un programma della Rai che andò in onda dal 17 marzo 1972 al 3 settembre 1976, in seconda serata il venerdì sera, con Vanna Brosio e Nino Fuscagni. Classica, leggera e pop, divenne un appuntamento fisso ed imperdibile. Il nostro, già appassionato di cantautori, poté vedere in televisione le esibizioni di artisti particolari che dall’altra parte del mondo proponevano un tipo di musica diversa dal solito.
«Vidi Alice Cooper che si esibiva con un pitone al collo, Bob Marley con il suo ritmo in levare e David Bowie, un vero e proprio alieno. Andai subito a cercare un disco di Alice Cooper e comprai alla Upim di Nuoro Love it to Death, LP in edizione charter line a 3000 lire.» Nel frattempo arrivò una nuova chitarra, un’acustica con un libro metodo su cui studiare gli accordi.
«Nel tempo libero andavo a fare pratica da un vicino di casa, Natale, un ragazzo che sapeva suonare bene. Imparai canzoni di Bennato, Guccini, De André e De Gregori, dei tre il mio preferito, fino al disco Buffalo Bill.» Grazie ad Alberto, un cugino di Cagliari di qualche anno più grande, Gigetto Carta conobbe il disco “Burn” dei Deep Purple. «Alberto venne a stare qualche settimana da noi portandosi dietro tre dischi. Creedence Clearwater Revival, Le Orme e i Deep Purple. Burn!»
Erano i tempi delle scuole medie, dei primi approcci con la lingua Inglese e la curiosità di leggere e cantare i testi in lingua originale. «In quegli anni conobbi, musicalmente, Suzi Quatro e rimasi folgorato da Venus degli Shocking Blue, poi ripresa anche dalle Bananarama». La passione cresceva insieme alla curiosità di conoscere nuovi stili e nuovi artisti.
Qualche anno dopo ritroviamo Gigetto Carta sul bus, da Villagrande Strisaili a Lanusei, direzione Quarta Ginnasio. Ultimi posti, chitarra, amici e una grande faccia tosta. «Facevamo talmente tanto casino che spesso l’autista, sfinito, ci faceva scendere al bosco di Santa Barbara e da li proseguivamo a piedi». Iniziarono i primi esperimenti musicali e i primi tentativi di formare un gruppo, una band. «Registrammo due canzoni su una cassetta usando un mangianastri. Io alla chitarra, Antonio al flauto e Gianluigi ne scrisse il testo. Ricordo che uno dei due brani si intitolava Concerto Incerto, faceva così…». Canticchia una melodia.
Nel 1977 il padre di Gigetto Carta vinse un concorso di lavoro e con tutta la famiglia si trasferì a Sassari. Era il 17 Settembre 1977 e in Piazza d’Italia suonavano gli Inti Illimani. «In quegli anni c’erano due programmi di riferimento alla televisione, uno era L’altra domenica di Renzo Arbore e l’altro Odeon, tutto quanto fa spettacolo. Nella stessa settimana, vidi due speciali su questa nuova moda che stava prendendo piede. Un nuovo rock. Dei tipi troppo strani! Ne parlavamo anche a scuola fra compagni. La moda e la musica punk mi attiravano proprio. Iniziai a seguire Music Power su Radio Giovane, un programma radio di Sassari, dove Giancarlo Griscenko faceva ascoltare Ramones, Sex Pistols, Eddie & The Hot Rods e tanti altri. Nel frattempo compravo la rivista Ciao 2001, dove andavo a cercare articoli ed informazioni sul punk rock.»
In una gita scolastica Gigetto Carta conosce Fabrizio Cherubini, un ragazzo che più avanti diventerà suo cognato, in quanto fratello della sua futura moglie. Fabrizio, oltre ad essere un grande collezionista di dischi, suonava la batteria e provava alcuni brani insieme ad un chitarrista. «Io suonavo la chitarra, per qualche tempo presi lezioni dal maestro Serra, ma mi proposero di suonare il basso. Fabrizio mi prestò un basso semiacustico della Eko, imitazione Hofner a forma di violino. Provavamo brani di MC5 e The Stooges.»
I pomeriggi dopo scuola passavano fra dischi e strumenti musicali. «Nel 1979 formammo i dIb, il nome venne scelto perché graficamente era abbastanza irriverente. Comprai un basso per 14000 Lire, era l’imitazione di un Fender Precision della Eko, pagato con un disco dei Doors, un disco di Lou Reed e 6 o 7000 Lire in contanti. Nel 1980 suonammo nell’aula magna del Canopoleno in apertura ai Quasar, una band che andava molto in quel periodo. Suonammo brani dei Jam, dei Ramones e Rolling Stones. Io voce e basso, Fabrizio alla batteria e Carlo Porcu alla chitarra. Più avanti suonò con noi anche Alessandro Zolo al basso (Orchestra jazz della Sardegna, Nasodoble e molti altri) e io passai alla voce. Siamo stati i primi in città a suonare punk rock dal vivo!»
I dIb durarono poco più di un anno e una manciata di concerti. «Un giorno mentre passeggiavo in piazza vidi dei ragazzi non proprio vestiti secondo i canoni, uno di loro aveva un disco sotto il braccio, It’s Alive dei Ramones. Anche io non ero proprio vestito secondo i canoni.” Ride e mi versa un altro bicchiere. “Mi avvicinai e… ciao, anche voi, anche io, insomma, ascoltate questa roba?”». I due ragazzi erano Geppi Sanna e Luigi Palomba, anche loro ascoltavano punk. Il giorno dopo si incontrarono a casa di uno di loro.
Luigi cantava nei Grubs, una cover band di Dead Boys, Ramones, Tom Robinson Band e sapeva suonare la batteria. Qualche tempo dopo i tre amici anziché ritrovarsi in cameretta ad ascoltare dischi decisero di andare in sala prove e provare a fare qualcosa della loro passione. «Luigi alla batteria, Geppi alla voce e io alla chitarra, all’inizio eravamo noi tre. Provavamo a casa di Marco Moretti, quotato artista che ora vive negli USA. Quasi subito nacque il brano Contro il sistema. Avevamo deciso di provare a comporre brani nostri, però io volevo suonare il basso!»
Dopo un breve passaparola individuarono Danilo Sini, un chitarrista perfetto per il loro progetto. Così nacquero gli Undoers (of war and power symbols), nome poi modificato in P.S.A (Punk Sound Against). Rockerilla (la rivista musicale) aveva una rubrica chiamata “Italia la punk” che si occupava della nascente scena punk Italiana. I P.S.A. decisero di registrare le loro composizioni per farsi conoscere spedendo la cassetta alla rivista. «Andammo a registrare al Deposito del Sale in via Buccari, nella sala prove di Gianni Macciocu (i Macciocu lavorano e vendono il sale dal 1967).»
Registrarono “Sulla nostra pelle“, 14 brani cantati su un lato della cassetta in Italiano e gli stessi brani sull’altro lato in Inglese. «Abbiamo registrato sia in italiano che in inglese perché in quegli anni c’era molta attenzione sul punk. Si era creato un circuito di interessati che compravano, ascoltavano e scambiavano. Danilo era molto organizzato dal lato promozionale. Preparava volantini e magliette. Spedivamo ovunque il nostro materiale. Vendemmo circa 4000 copie di quella cassetta che arrivò fino a Jello Biafra negli Stati Uniti. Avevamo mandato una copia alla sua etichetta, la Alternative Tentacles e lui ci nominò in un’intervista rilasciata alla fanzine T.V.O.R. (teste vuote ossa rotte) che era il punto di riferimento per i punk italiani.»
Ad un certo punto Gigetto Carta lascia il gruppo per divergenze artistiche e viene sostituito da Gianfranco, salvo poi rientrare in svariati live come bassista e addirittura alla voce al live di Pisa (l’unico nel continente) perché Geppi in quel periodo era sotto le armi. «A Pisa suonammo con i Bloody Riot di Roma e gli Stigmathe di Modena al Victor Charlie.»
Nello stesso periodo iniziò a lavorare per i service musicali e a suonare con altre band, ricordiamo i Bobolon’s (cover band di Rolling Stones, Grand Funk railroad, Beatles e altri artisti degli anni ’60 e ’70) con i quali suonò per un periodo il basso e in un secondo momento anche la batteria. E poi gli Start, band con brani originali, hard rock, quasi metal. «Con gli Start provavamo tutti i giorni, facemmo dei bei concerti. Alla batteria avevamo Luca Piana (attuale batterista dell’Orchestra Jazz della Sardegna) e alla chitarra Antonio Perrotti.»
Sciolti i P.S.A e anche gli Start, Gigetto Carta collabora saltuariamente con i Welt di Stefano Cossiga e con gli IPH con i quali partecipa al primo Rock Area di Tonara nell’85 (uno dei Festival rock più longevi in Sardegna). Era proprio il 1985 quando G.B. Chessa, rientrato dalla Danimarca dove era stato per lavoro, propose a Gigetto, Stefano Cossiga (già Welt) e Fabrizio Cherubini di formare una band perché in Danimarca stavano cercando delle band per fare un tour. «In realtà dopo aver formato i Seven Miles, nome che doveva dare l’idea del viaggio, ci rendemmo conto che in Danimarca cercavano gruppi folkloristici per i circoli dei sardi e noi invece eravamo decisamente fra il rock e la new wave.»
Dal 1985 al 1992 suonò con i Seven Miles che subirono diversi cambi di line-up nel corso degli anni. «Nei weekend del periodo Seven Miles raramente dormivo a casa, suonavamo in diversi festival e rassegne in giro per l’isola.» Nel 1993 per il decennale dello scioglimento dei P.S.A. Gigetto pensa a una reunion. L’idea è di registrare un 45 giri con due brani. Entra in sala prove con Danilo e Luigi ai quali più avanti si aggiunge Gianfranco Manai alla chitarra e anziché portare avanti l’idea originale nasce un nuovo progetto, gli Istrales. Esce così un 45 giri diviso con gli NxN (altra band di Sassari) e nel 1994 il primo disco.
«Nel 1994 mi trovavo dietro il banchetto del merchandising degli Istrales, suonavamo per il Festival Ichnos (Sedilo, 19 Giugno 1994) quando si avvicinò Danilo per dirmi che c’erano delle persone che avrebbero voluto vederci perché qualcosa di importante poteva accadere.» L’anno prima Gigetto Carta aveva speso un patrimonio fra aerei, taxi e albergo per andare a Firenze a sentire i Ramones pensando che non poteva perdere l’occasione di vederli almeno una volta nella vita. «C’erano degli osservatori che volevano parlarci perché avrebbero dovuto scegliere una band per aprire il concerto di un grosso gruppo americano che di lì a poco avrebbe fatto una tappa in Sardegna. Ricordo che dissi a Danilo di stare tranquillo che intanto non sarebbero potuti essere i Ramones.» Il 30 Settembre 1994 invece gli Istrales insieme ai Maniumane (altra formazione sassarese) aprirono proprio il concerto dei Ramones al Palazzetto dello Sport di Sassari.
«Peccato che fosse assolutamente vietato fare foto. Mi sono rimasti i plettri, gli autografi e il bel ricordo di averli conosciuti.» Gigetto Carta mi mostra le sue reliquie dei Ramones, compresa la maglietta che nel 1980 prese a New York e che a breve finirà incorniciata dietro un vetro. «Dopo il soundcheck iniziai a girare per il palazzetto vuoto e su una porta trovai il cartello con la scritta catering. Entrai e mi trovai davanti i Ramones. “Hello Joey, hello C.J., i am Gigetto!” Sono rimasto una mezz’ora a parlare con loro e poi via sul palco per iniziare il concerto.»
Nel 1995 uscì il secondo disco degli Istrales intitolato Bisos. «Ricordo che missammo l’album al rientro dal mio viaggio di nozze.» Conclusa anche l’esperienza Istrales Gigetto Carta riprese a suonare con i Seven Miles. I Seven Miles torneranno ciclicamente in attività nel corso degli anni, cambiando nome in Settemiglia per poi tornare Seven Miles. Proprio in questi giorni hanno ripreso a provare insieme.
Da una decina d’anni a questa parte esistono i Rusty Punx, band che vede fra le fila Gigetto al basso e alla voce, Luigi Palomba alla batteria, Andrea Mossa alla chitarra e Geppi Sanna alla voce. Praticamente 3/4 dei P.S.A., gli stessi 3 ragazzi che si conobbero 40 anni fa in Piazza d’Italia. Portano avanti la stessa passione che è tutt’altro che arrugginita, come suggerisce il nome della band. Propongono brani inediti con una grinta da fare invidia ai ragazzini.
I Rusty Punx sono un elisir di giovinezza. Saluto Gigetto con sottobraccio i dischi degli Istrales che mi ha gentilmente regalato e con la voglia contagiosa di vivere la passione che ci accomuna, quella per la musica. Oramai sulle scale gli chiedo: «Gigetto, ma chi te lo fa fare?». Lui ride e mi risponde: «Mi piace troppo salire sul palco e godermi il momento, ogni singola emozione. Non smetterò mai di suonare!»
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Si ringrazia l’artista per la possibilità di utilizzo delle fotografie a corredo dell’articolo.
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Fabrizio De André – Amico Fragile Potevo chiedervi come si chiama il vostro caneIl mio è un po’ di tempo che si chiama LiberoPotevo assumere un cannibale al giornoPer farmi insegnare la mia distanza dalle stellePotevo attraversare litri e litri di coralloPer raggiungere un posto […]
Luciana Satta Musica Personaggi RicordiFabrizio De André – Amico Fragile
Potevo chiedervi come si chiama il vostro cane
Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero
Potevo assumere un cannibale al giorno
Per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle
Potevo attraversare litri e litri di corallo
Per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci
È uno scatto senza tempo. Arriva alla nostra redazione in un giorno particolare: 11 gennaio 2021. Ventidue anni senza Fabrizio De André. Questa che Dori Ghezzi ha scelto non è una semplice fotografia. È l’essenza di un amore.
Era la volontà di rispettarci l’un l’altro, di capire i problemi dell’altro. Le nostre rispettive esperienze di vita, sia privata sia sociale e artistica, a volte parallele, inevitabilmente ci avevano in qualche modo aperto una porta facendoci trovare in sintonia per poter condividere il futuro insieme, trovando la forza di superare situazioni famigliari molto delicate e scelte dolorose. Fabrizio ed io ci siamo incontrati in un momento in cui lui sentiva ormai indispensabile un radicale cambiamento nella sua vita. Fu in quel periodo che scrisse l’emblematica “Amico fragile”. La canzone che più di tutte lo rappresenta».
Per me la musica è vitale, ma non mi corrispondevano certi aspetti della professione. Tutto ciò che comportava a creatività, stare in uno studio di registrazione e cantare per realizzare nuove canzoni, spesso in quel periodo anche in diretta con orchestra, erano momenti stimolanti e molto piacevoli. Il rovescio della medaglia si presentava nel momento della promozione: televisione, interviste e soprattutto partecipazioni a manifestazioni, a concorsi come Sanremo. Un vero incubo. Il mio carattere, che non prevede esibizionismo o protagonismo, mi penalizzava. Meglio è stato il periodo con Wess. Condividere il palcoscenico ridimensionava la mia ansia. Tutto questo fino al 1990, quando decido di fare un’altra scelta di vita, mantenendo in ogni caso un forte e inscindibile rapporto con musicisti con una sensibilità davvero straordinaria.
Fabrizio aveva un gran rispetto per la donna, ritenendola l’emblema del sacrificio e di conseguenza più forte dell’uomo. Considerava la Sardegna il suo habitat ideale anche per il giusto equilibrio che regna all’interno dei nuclei familiari. Uno dei personaggi più importanti della storia sarda, eroina, patriota, una grande donna, Eleonora D’Arborea ha aggiornato e rielaborato la Carta de Logu, un testo rivoluzionario, anche per l’attenzione nei confronti della donna. È un documento giuridico che ha cambiato positivamente la Sardegna per sempre e anticipa una sorta di movimento democratico in un periodo ancora medioevale. Fabrizio respirava questa ideale atmosfera naturale nel rapporto fra uomo e donna.
Anche questa realtà è frutto di quella radicale rivoluzione che ci ha travolti in quel periodo. Soprattutto Fabrizio sentiva che era giunto il momento di realizzare quel desiderio che si era ripromesso – ancora bambino – di ritornare a vivere in mezzo la natura dopo aver lasciato a malincuore Revignano D’Asti dove visse felice alcuni anni della sua infanzia malgrado il conflitto mondiale. Fabrizio aveva sin dalla fine degli anni Sessanta eletto come seconda dimora la terra e il mare della Sardegna, diventando così uno dei sempre più numerosi turisti. Un fatidico giorno del 1975 Fabrizio arriva all’aeroporto di Olbia accolto da Giovanni Mureddu, fido autista di Tempio che l’avrebbe accompagnato a Portobello di Gallura.
Mureddu, conoscendo il desiderio di Fabrizio di trovare del terreno per realizzare un’azienda agricola, riferisce a Fabrizio che alle falde del Limbara stanno vendendo più appezzamenti. Ne scegliemmo tre, tra questa l’Agnata suo nome d’origine. Da allora divenne a tutti gli effetti un residente sardo. Si può dire che in ogni caso abbiamo avuto rispetto per la Sardegna, anche se alcuni elementi, come il prato inglese, non sono certo tipici sardi. Ma questo non ha mai ferito nessuno… è una Sardegna certo diversa, ma continua a essere considerata comunque un ritrovo molto amato. Fai chilometri in mezzo alle sugherete, in mezzo a questo territorio incontaminato, e arrivi in una specie di oasi, in un ambiente che non ti aspetti.
Non conoscevo personalmente Paolo Fresu, ma sapevo che era un musicista preparato. Morgan era venuto a Roma, in occasione del “Premio De André”, era ospite della manifestazione. Mi è capitato di sentirlo lì per la prima volta. Mi ha conquistata. Ho capito che poteva fare qualcosa di ardito, se vogliamo… rifare tutto un album. Ho pensato che lui potesse essere all’altezza, perché è un vero musicista, e mi sarebbe piaciuto “osasse di più”, gliel’ho sempre detto. (Nel 1971 Fabrizio De André pubblicò l’album “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, liberamente tratto dall’Antologia di Spoon River. De André scelse nove delle 244 poesie e le trasformò in altrettante canzoni, n.d.r.). Ho proposto a Morgan di creare due canzoni nuove da altre due poesie di Edgar Lee Masters, ma ha preferito essere molto rispettoso e non ha osato.
Non avevo le idee ben chiare, perché diversi attori erano in lizza per il ruolo. Lui mi piacque molto. Ho pensato: “Quello giusto sarà quello che dirà: non so se sarò all’altezza di interpretare un ruolo del genere!”, e lui mi diede proprio quella risposta. Poi scoperto che sua nonna Ave aveva in casa il poster di Fabrizio, era una fan. Dunque a lui era rimasto addosso questo mito… ho dovuto insistere un po’ per convincerlo che soprattutto lui sarebbe stato in grado di interpretarlo! La versione del “Pescatore” era talmente simile all’originale che mi chiesero se
fosse lui a cantarla, o se fosse una versione diversa e inedita cantata da Fabrizio. Invece era un Marinelli DOC.
Ovviamente si era ritrovato insieme un tipo di pubblico differente, appartenente a due mondi diversi, perché c’era chi amava la Pfm e chi amava Fabrizio… per poi innamorarsi delle versioni di entrambi, tant’è vero che tutt’ora vengono proposte sia quelle di Fabrizio sia quelle della Pfm. Succedeva davvero qualsiasi cosa, anche delle situazioni abbastanza violente. Ricordo che a Napoli avevano arrestato diversi ragazzi e alla fine del concerto ci eravamo trovati in Questura, per cercare di fare liberare qualcuno di loro e ci siamo riusciti, almeno con i ragazzi che non erano recidivi.
Ho raccontato anche quando un altro tizio un po’ violento aveva lanciato una bottiglia sul palco, che per fortuna non aveva ferito nessuno. Aveva poi invitato Fabrizio nel bar lì vicino, fuori dal teatro, perché voleva cercare di scusarsi. Ma nel bicchiere di Fabrizio aveva messo qualcosa, probabilmente un acido, ritrovandoci a rincorrere Fabrizio in un prato. La nostra vita è stata costellata di cose belle e di cose brutte… metabolizzando i ricordi riesci a sdrammatizzarli trovandoci sempre l’aspetto ironico e sorridi.
Che prezzo pagheremo (e quando) questo non lo sappiamo. Questa è l’unica domanda che mi pongo. Mi riesce difficile concepire la vera natura di questa pandemia. Mi aiuta pensare che in passato se siamo riusciti a superare epidemie ancor peggiori quando le condizioni igieniche e sanitarie non erano quelle di oggi, possiamo solo ben sperare. Scacciano l’ipotesi che il destino dell’umanità non debba dipendere dalla volontà del profitto. Questo senso di incertezza non mi lascia vivere bene… non tanto per me che ho una certa età, ma per il futuro, per i ragazzi, per mio nipote.
Nel bene e nel male: tutto!
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Foto di copertina di Fulvia Farassino (per gentile concessione)
Altre foto a corredo dell’articolo di Reinhold Kohl,_Fondazione Fabrizio De André Onlus
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Gigliola Lai vive e lavora a Sassari dove si è diplomata nel 1997 all’accademia delle belle arti. Nel 2004 consegue la laurea in Scienze dell’educazione. Nel 2010 frequenta il master in Graphics e Web Design. Nel 2009 fonda insieme a Paola Puccini il gruppo artistico […]
Arte Francesca Arca PersonaggiGigliola Lai vive e lavora a Sassari dove si è diplomata nel 1997 all’accademia delle belle arti. Nel 2004 consegue la laurea in Scienze dell’educazione. Nel 2010 frequenta il master in Graphics e Web Design. Nel 2009 fonda insieme a Paola Puccini il gruppo artistico Gipa. Tra le sue mostre più rappresentative citiamo: Riflessioni in oro (2007) Psicosi della contemporaneità (2010) Corpi senza riflettori (2010) The gaze denied (2011) History of violence (2012) Il doppio nell’altro (2012)
Se potessimo mappare il ricordo, con tutta probabilità partiremmo dal corpo. L’approccio corporeo all’altro è quanto di più vitale possa rimanere impresso nell’incontro tra esseri umani: consistenze, colori, dettagli, pieghe, piccole imperfezioni che compongono e scompongono l’immagine individuale nella sua rappresentazione all’interno della memoria dell’altro.
Gigliola Lai, nel dispiegarsi del proprio cammino artistico, ci appare maestra nell’evocazione delle forme corporee rendendole disgiunte ma intrinsecamente collegate le une alle altre, in un mosaico che prende forma opera dopo opera. Fotografa fin da bambina e pittrice col passare del tempo, Gigliola Lai si riscopre perennemente sguardo e ci propone una costante ricerca di fusione nella dualità.
«Se i miei lavori pittorici si concentravano fino a quel momento sull’utilizzo del rosso e della foglia oro, in Accademia invece ho iniziato il lavoro fotografico sul corpo – racconta l’artista – per molti anni ho fotografato delle statue. Prima solo dei dettagli del corpo poi mi sono dedicata ai volti. In seguito sono passata alla fotografia del corpo umano. Io sono una gemella e credo che in qualche modo il tema del doppio non possa che appartenermi naturalmente.»
E i colori esprimono fin dal primo sguardo una forma di dualismo che non solo si percepisce nella singola opera ma che si ritrova nell’intero lavoro di Lai. I rossi accesi che sembrano quasi sciogliersi nell’oro appaiono ipnotici; il candore esasperato del bianco che fa emergere il grigio cangiante delle pupille rende gli sguardi dei volti rappresentati talmente vivi da risultare insopportabili; le ombre sfocate in un movimento danzante mostrano corpi delineati come in sogno.
Vita e morte si compenetrano nell’opera di Gigliola Lai, si rincorrono e si onorano vicendevolmente nella ricerca di un equilibrio che restituisca pari dignità e valore ad entrambe. Le forme dei corpi di Lai emergono dall’oscurità e si offrono sacrificali alla luce, mostrando la verità dello sguardo dell’artista rivolto sull’altro e quindi su se stessa. Si fatica a prendere distanza da questo tipo di opera. La cadenza di tutti gli elementi della composizione crea un ritmo visivo ed emozionale che, come in una musica, è capace di infinite successioni armoniche.
Il simulacro che da semplice parvenza si mostra carne è sconvolgente, così come rapisce la capacità del processo inverso. Ma non c’è mai paura. Semmai dolcezza, cura, dedizione, premura, una ferita che cerca la propria cicatrice. Come ha avuto modo di spiegare in modo esaustivo Gavina Cherchi in occasione della mostra “Il doppio nell’altro” del 2012 «l’apparizione del Doppio non è un’allucinazione perturbante carica di insidie ma una poetica visione che rovescia il mito di Narciso e la sua sorte.»
La nuova ricerca di Lai sul volto mostra il superamento di quella sorta di umano pudore nel preservare dei tratti che non sono appartenuti per destino solo a lei stessa. In una individualità raddoppiata, separare ciò che non può essere divisibile è un atto violentissimo ma la grazia sofferente nella ricerca di un equilibrio singolo attraverso la riunificazione nell’immagine, porta a risultati di ineluttabile bellezza.
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