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Paolo Salaris ha regalato alle nostre pagine un affettuoso ricordo del grande Ginetto Ruzzetta. Era il 1988, forse nel mese di marzo. La Compagnia Teatrale “Nuovo Sipario ’78”, di cui ho fatto parte dalla fondazione fino alla chiusura avvenuta nel 2008, compiva dieci anni di […]
Paolo Salaris ha regalato alle nostre pagine un affettuoso ricordo del grande Ginetto Ruzzetta.
Era il 1988, forse nel mese di marzo. La Compagnia Teatrale “Nuovo Sipario ’78”, di cui ho fatto parte dalla fondazione fino alla chiusura avvenuta nel 2008, compiva dieci anni di attività e, per festeggiare la ricorrenza, si pensò di organizzare una “tre giorni sassarese” al Teatro Civico di Sassari. Le serate consistevano nel mettere in scena alcune fra le più famose “gobburi” in vernacolo sassarese, e nella lettura di poesie (sempre in sassarese) da parte di cultori e studiosi della nostra lingua, fra i quali Francesco Cosso (noto conduttore radiofonico) e il Dott. Salvatore Luiu. Durante le serate, inoltre, si svolgeva un dibattito sulla lingua sassarese e sull’uso che se ne faceva nella vita quotidiana e in campo artistico. Moderatore fu il compianto Prof. Leonardo Sole. A legare le varie fasi in cui si articolavano le serate fu chiamato il noto cantante, autore e poeta Ginetto Ruzzetta, il quale si presentò accompagnato dal fratello. Gli spettacoli ebbero grande successo di critica e di pubblico. Ma aldilà del gradimento, mi colpì l’entusiasmo che suscitava Ruzzetta non appena si apprestava ad eseguire un brano, sia che si trattasse di un brano strumentale per accompagnare la lettura di una poesia, sia che si trattasse di una delle sue famose canzoni. Durante la serata, poi, era prevista una pausa con intrattenimento dei due musicisti. Fu proprio durante la prima di quelle serate che Ruzzetta presentò in pubblico per la prima volta (così mi disse) la canzone “Ippuntinu” conosciuta anche come “Ziminadda”, un blues sassarese di così grande effetto che le sere successive il pubblico chiese a gran voce l’esecuzione del pezzo e numerosi bis . Qualche giorno dopo, mi recai a casa di Ginetto Ruzzetta – allora abitava in via Napoli – per la compilazione del programma musicale delle serate da consegnare alla Siae. Mi accolse con grande cortesia e gentilezza e, chiamandomi “maestro”, mi fece accomodare in una stanza che sembrava una sala di registrazione.
Testo originale del brano “Sassari Mea”
Ed infatti, mi spiegò che in quella camera aveva, oltre a numerosi strumenti, una serie di apparecchiature in grado di eseguire le registrazioni. «Spesso compongo qui»mi disse. Ma la cosa che mi lasciò interdetto fu l’umiltà di Ruzzetta. Aveva già dimostrato in teatro di aver apprezzato il lavoro della Compagnia, ma quando mi sentii chiamare “maestro” pensai : «Chisthu m’è pigliendi pà lu curu!». Invece no. Lui così bravo, così “scafato” nel mondo dello spettacolo, così abile a trascinare il pubblico, si spendeva in complimenti e congratulazioni sincere con un “ragazzo” trentenne, mostrandosi semplice, umile e modesto come solo i grandi artisti sanno essere. Prima di congedarmi mi fece graditissimo omaggio della musicassetta contenente il brano già citato. Da allora ebbi il piacere di incontrarlo in altre occasioni. L’ultima volta non stava bene, aveva già avuto problemi di salute. Però lo voglio ricordare come lo vidi in casa sua: sorridente, gentilissimo, affabile e affettuoso.
Nato nel 1837, figlio di un austero magistrato cagliaritano, Giuseppe Dessì aveva diciassette anni quando annunciò al padre che intendeva lasciare gli studi: voleva fare il tipografo. Il padre cercò una via di accomodamento e gli trovò un posto di segretario in un ufficio pubblico […]
Cartoleria Dessì a Cagliari – Frontespizio realizzato dai Fratelli Clemente
Nato nel 1837, figlio di un austero magistrato cagliaritano, Giuseppe Dessì aveva diciassette anni quando annunciò al padre che intendeva lasciare gli studi: voleva fare il tipografo. Il padre cercò una via di accomodamento e gli trovò un posto di segretario in un ufficio pubblico d’Iglesias. Non durò a lungo: pochi mesi più tardi il ragazzo lavorava come apprendista in un’antica tipografia di Cagliari, quella di Antonio Timon. In seguito giunse a lavorare Sassari nella tipografia Ciceri, diretta dalla signora Anna Maria Chiarella, vedova del titolare, morto durante il colera del 1855. Nel 1859 Giuseppe Dessì, che era diventato in breve tempo capo operaio, sposò la proprietaria e nel 1863 intitolò la ditta a proprio nome. Chiamati da Cagliari alcuni operai altamente specializzati e rinnovato il parco macchine, Dessì iniziò una fortunata carriera di editore che finì per farne l’uomo di punta della cultura sarda. Fu molto più che un tipografo poiché dal suo stabilimento, nei decenni successivi, uscirono prodotti editoriali di grande raffinatezza e di alto prestigio: pubblicò le poesie di Giovanni Baracca, di Sebastiano Satta, di Pompeo Calvia, di Salvator Ruju, e poi nella collana “Biblioteca sarda”, opere inedite di Grazia Deledda, di Antonio Ballero, di Ettore Pais, di Enrico Costa, un’antologia di poeti sardi, studi storici, archeologici, numismatici; vennero infine il Condaghe di San Pietro in Silki, un’esemplare raccolta di stampe di costumi sardi curata da Enrico Costa e, sempre di Costa, la biografia del bandito Giovanni Tolu.
Nei locali di Sassari durante la stampa di un giornale – foto d’epoca
Nel 1891, alla nascita de “La Nuova Sardegna”, allora settimanale, ne fu l’editore. A lui il contratto attribuiva ogni cura tecnica, le spese e i ricavi; ai fondatori assegnava poteri insindacabili sulla direzione politica e i contenuti redazionali. Né rinunciò a ingrandire la sua impresa: nel 1892 aprì a Cagliari nella via Manno, un nuovo stabilimento tipografico che affidò a due dei figli, Vittorio e Michele, mentre a Sassari al suo fianco, restarono Cesare e Vincenzo. Morì il 19 luglio 1901, ucciso per errore in un agguato teso all’avvocato Francesco Lopez, col quale quel giorno aveva accettato di andare a Sorso. L’omicida, si seppe poi, era un agricoltore che sul vecchio avvocato si era voluto vendicare di un esproprio che aveva dovuto subire. In seguito, dal figlio Cesare la libreria passò alla di lui figlia Michelina, da cui successivamente si giunge all’attuale proprietà di Piero Pulina che, coadiuvato dalla figlia Ludovica, ha dato notevole impulso alla libreria e alla casa editrice sia con una gestione rivolta, con sempre maggiore attenzione, alla cultura sarda ed ai movimenti culturali di Sassari, sia con iniziative culturali che hanno fatto della libreria Dessì, un punto di riferimento importante per la città. La tipografia ha continuato a funzionare fino a pochi anni fa, lasciando comunque il posto accanto all’antica libreria ad una casa editrice che al suo attivo ha importanti titoli di saggi di storia e sociologia della Sardegna.
Montelepre nasce come quartiere nell’immediato dopoguerra in un campo militare ormai in disuso. In breve tempo il quartiere viene in un primo momento occupato da reduci di guerra (ormai senza famiglia e senza fissa dimora), povera gente, emarginati e da qualche famiglia di zingari integrati […]
Monteleprenascecomequartierenell’immediato dopoguerra in un campo militare ormai in disuso. In breve tempo il quartiere viene in un primo momento occupato da reduci di guerra (ormai senza famiglia e senza fissa dimora), povera gente, emarginati e da qualche famiglia di zingari integrati molto bene.
Ma solo nel 1953 dopo la grande alluvione a Sassari, molte famiglie che occupavano la scuola di San Donato vennero trasferite in quel grande spazio (circa 70 mila metri quadrati) che più avanti avrebbe preso il nome di “Montelepre” in riferimento al bandito Giuliano.
Il quartiere era composto da circa 15 o 16 capannoni, più due grosse palazzine dove una fungeva da scuola e un’ala da ambulatorio medico, e l’altra cosiddetta “palazzina comando”. Vi risiedevano le donnine di facili costumi, il tutto cinto da un muro alto almeno tre metri che lo divideva dal resto della città.
Nonostante il grosso sovraffollamento di persone e i vari disagi, all’interno del quartiere si conduceva una vita dignitosa e indipendente dal resto della città, in quanto zona fornita di tutti i servizi di prima necessità.
I vari negozi posti all’interno – bar, tabacchi, alimentari, bombolai, verdurai ecc. – facevano sì che Montelepre fosse considerata una cittadina a sé stante. Oltre questi negozi era presente anche un cinema, un oratorio e un doposcuola dove trascorrere le serate, nonché una chiesetta.
Nonostante non ci fosse l’acqua all’interno dei capannoni, (l’acqua era presente solo all’interno della scuola), il comune fece installare delle fontanelle poste tra un capannone e l’altro in modo che i disagi venissero meno e che gli abitanti di Montelepre potessero usufruirne per lavarsi e per lavare panni e per i servizi di prima necessità.
Non dimentichiamo che a Montelepre vigevano delle leggi non scritte e tra gli abitanti dentro le mura c’era un codice etico e tanta solidarietà. Nel 1972 dei volontari venuti da Milano stimarono tramite un’indagine statistica, che dei 1453 abitanti quasi il 57% erano bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni di età (statistica presa da un articolo de LaNuova Sardegna scritto da Manlio Brigaglia).
Di seguito riportati i racconti e le testimonianze di Laura Spanu e Ester Usai:
Una cosa è certa, nessuno decide dove nascere, erano gli anni ‘60, venni alla luce a Rizzeddu settima di nove figli. Esiste la povertà e la miseria: nel mio quartiere non mancavano né l’una né l’altra, anche se non tutti sanno cogliere la differenza. Mi toccò la seconda fascia per fortuna ma dopo aver vissuto altri luoghi, posso dire che l’umanità che percepivo lì mai l’ho percepito da altre parti, quindi posso ritenermi fortunata. ARizzeddu non c’era l’acqua corrente e le donne si rifornivano nelle fontane distribuite qua e là nel quartiere. Certo quel momento era a volte motivo di diatribe, ma anche uno spasso per chi osservava, mentre le donne litigavano con un linguaggio molto colorito. Noi bambini eravamo liberi di giocare all’aria aperta e ci sentivamo al sicuro. Il fatto di avere fratelli più grandi rispettati nella comunità mi garantiva un trattamento di favore e di tanto in tanto qualcuno mi offriva caramelle o un gelato d’estate, quando mi capitava di passare davanti a uno dei tre bar del quartiere.
E.U.
Uno dei ricordi più belli delle mie estati di bambina è quando nel quartiere si celebrava una sorta di festa. Si faceva un grande falò e chi voleva chiedeva a un altro componete del quartiere di stringere un patto di fratellanza: “Cummari o Cumpari di Fugaroni”, così si sarebbero chiamati da quella sera. Questo rituale era sacro e aveva valore per tutta la vita. I due partecipanti prendevano un bastone ai suoi lati e correndo lo facevano passare sul falò mentre i testimoni dell’evento gridavano: «Cumpari di fugaroni!!!» A qualcuno farà sorridere ma ho visto con i miei occhi il valore di questa promessa, persone che per tutta la vita hanno mantenuto un legame di rispetto e fratellanza. Anche mia madre partecipò al rito e ne rimase legata per sempre.
E.U.
Il primo capannone era abitato da donne che lavoravano “dentro casa”, ognuna con porte colorate che mettevano allegria. Ma loro erano veramente dignitose, non come quelle che si vedono per strada. Loro soffrivano in silenzio per garantire un futuro migliore ai figli che studiavano in collegio.
L.S.
Sono nata alle cinque di mattina di una tiepida e profumata giornata di primavera dentro un camerone di un vecchio capannone militare. No, non sono figlia di graduato. La mia famiglia – come tante altre – occupava una parte di quei vecchi capannoni ormai in disuso. Ancora non sapevo di essere nata nel quartiere più povero della mia città, considerato quasi come un “ghetto”. I miei primi ricordi vedono una piccola bambina bionda, sempre allegra,che andava alla fontana con dei piccoli recipienti per fare la riserva d’acqua. In quel camerone, che era la mia casa, non avevamo acqua ai rubinetti e il nostro soggiorno funzionava da cucina e camera da letto. Era bello le sere d’inverno, quando con gli altri bambini andavamo a cercare pezzetti di legna per poter accendere il fuoco ed io mi trainavo dietro una piccola cassetta dove poggiarli. Poi quando mia madre accendeva il braciere, lo portava dentro casa e lo incassava nella “coffa”. Lì nell’intimità della nostra casa ci sedevamo intorno al fuoco, io, mia madre e le mie sorelle. Quello era il mio momento preferito perché mia madre ci raccontava le sue storie appassionanti. Poi ci faceva pregare, dicendoci che la Madonna ascoltava i bambini. Noi pregavamo perché babbo non tornasse a casa ubriaco. Non potevo dire che pregavo perché non ritornasse più. Ma immancabilmente a notte inoltrata sentivamo le grida di mia madre che invocava aiuto e la voce di mio padre che sputava frasi offensive nei confronti di una donna che, per amor suo, aveva lasciato la sua casa e i suoi affetti. Mia madre era figlia unica di una famiglia agiata. Era molto bella e i suoi genitori sognavano per lei un futuro splendido. Ma lei si innamorò di mio padre e scappò insieme a lui. Di conseguenza fu diseredata e cancellata dalla famiglia. Così mentre le mie sorelle al rientro di mio padre si nascondevano sotto le coperte, io mi alzavo andandogli incontro. Lo stordivo con le mie chiacchiere, così si rilassava e dopo aver bevuto si addormentava nel divano. Le nostre notti erano un incubo perché mio padre, essendo alcolizzato, riversava su mia madre i suoi rimorsi e fallimenti di vita. Era un uomo di media statura ma di vasta cultura. Aveva studiato in seminario, ma quando avrebbe dovuto prendere i voti scappò per non farsi prete. Ebbe molte occasioni di un buon lavoro da poterci permettere di vivere in agiatezza, ma si prese il vizio di bere e così le mandò tutte all’aria. Durante il giorno si stava bene perché lui usciva il mattino e stava fuori sino a sera tarda. Non riesco a dimenticare la notte in cui tornando a casa più ubriaco del solito picchiò a tal punto mia madre da indurre i vicini a chiamare una pattuglia. Quando arrivarono i poliziotti, alla vista di tre bambine tremanti dalla paura e dal freddo, prima calmarono mio padre e poi convinsero mia madre a recarsi in questura l’indomani per inoltrare la denuncia per maltrattamenti. L’indomani mattina mentre ci recammo in questura. Mia madre ci avvertì di non parlare. Io e le mie sorelle non denunciammo mio padre neanche davanti a un piatto di caramelle. Non parlammo forse temendo una sua reazione o perché in fondo gli volevamo bene. In effetti lui, quando non beveva, era una bravissima persona, ma se toccava un bicchiere diventava un diavolo. Ogni mattina mi recavo a casa di un vecchietto non vedente, non so se dalla nascita o se lo era diventato. Mi faceva preparare la lista della spesa e gli pasticciavo qualcosa da mangiare poi, quando il tempo lo permetteva, lo portavo a fare una passeggiata. Ero per lui quella nipotina che non gli avevano permesso di conoscere, tanto che quando mi ammalavo, era lui a prendermi le medicine e a non farmi mancare la frutta tutti i giorni. “Zio Antonio” come lo chiamavo affettuosamente diceva di me: «Mi fa vedere i colori di un tramonto e i colori del grano in un ricco pomeriggio d’estate. I colori della vita che per un amaro destino mi sono negati.»
L.S.
Un’altra storia da ricordare del mio quartiere è lei: una bellissima ragazza con una voce stupenda e un corpo da pin-up. La potevi vedere e sentire ogni volta passavi vicino alla “sua” fontanella. Ogni capannone ne aveva una vicina per portare l’acqua per le faccende domestiche. Era una ragazza slanciata con una cascata di capelli neri mossi. Potevi star ferma a fissarla se non avevi premura di tornare a casa. Mi chiedevo perché una ragazza così stesse tutto il tempo a lavare alla fonte e una volta spinta dalla curiosità glielo chiesi. Mi rispose con un fantastico sorriso: «Ma io ho il mio amore. E’ Gianni e abita vicino a casa tua.» Il mio pensiero corse a Gianni, il suo fidanzato. Suo fratello, mio amico, morì per infarto durante una partita di calcio del quartiere. Fu un lutto che scosse il quartiere dato che era una giovane promessa del calcio e benvoluto per il suo carattere mite e dolce. A Ica, così si chiamava la ragazza, non importava se c’era sole o pioggia, lei si divertiva nei suoi lavori e anche sotto la pioggia non stava ferma ma continuava a lavare alla fontana. Una mattina passavo lì vicino e non la vidi. meravigliandomi chiesi a chi incontrai . Dire che rimasi esterefatta è dir poco. Mi dissero: «Vieni a vederla per l’ultima volta. E’ a casa e la stanno vestendo.» Prima di entrare tirai un grande respiro perché mi era bloccato nel saperlo. Entrai e la prima cosa che vidi in quell’ambiente al buio fu la lucentezza del suo vestito bianco da sposa. Puro come la sua anima e il suo corpo. Fu impossibile per me cancellare il suo viso: col sorriso sulle labbra, sicura di un lieto approdo. Il suo fidanzato non volle più legarsi ad altri amori perché il suo continuava a rimanergli dentro. Così pochi anni dopo la raggiunse lasciando nella terra il ricordo del loro infinito amore.
L.S.
Le scuole elementari a Rizzeddu erano al limite del quartiere, oltre il quale c’era il manicomio separato da un muro. Ogni tanto uno dei pazienti riusciva a scavalcare il muro e noi del quartiere ci godevamo lo spettacolo degli infermieri che rincorrevano il fuggitivo di turno. Naturalmente facevamo il tifo per lui. Una cosa ho compreso solo ora: lì, in quel quartiere che sembrava dimenticato da ogni istituzione, non c’era discriminazione. I bambini portatori di handicap giocavano con gli altri, anche con i bambini più poveri. Le donne che ne avevano la possibilità davano del cibo pronto a chi non ne aveva. Mia madre era una di queste. Nelle sere d’estate si organizzavano cene all’aperto. Le lumachine con patate erano quasi un rituale e tutti mangiavano insieme. I bambini giocavano, il vino e la birra non mancavano mai e qualche signore finiva la serata facendo lo show finale. Ridere era fondamentale per affrontare una vita piena di problemi.
E.U.
Nel mio quartiere accadevano cose bizzarre. Non c’erano vie e la posta arrivava con la dicitura “Primo capannone nuovo”, o “Primo capannone vecchio” e così di seguito. Come d’incanto un giorno gli abitanti videro con sorpresa, scritti sui muri, i nomi delle vie. Molti non furono contenti di questo perché i nomi delle vie erano i soprannomi di chi ci abitava. Quasi tutti avevano un nomignolo ma di solito lo si esplicitava in sua assenza. Qualcuno all’alba cercò di cancellarli. Io so chi aveva fatto quel lavoro ma non ve lo dico!
E.U.
A Montelepre non mancavano i “personaggi”. Credo che il mercatino dell’usato lo abbia inventato una signora del quartiere, M. T. , che andava alla ricerca di indumenti usati in città, poi li metteva in un grande telo che richiudeva e portava in spalla. Era un mercatino ambulante. La signora si recava di casa in casa, poggiava il fagotto a terra, lo apriva e lasciava che il “cliente” scegliesse gli indumenti, si contrattava il prezzo, e via così tutti i giorni. Viveva di questo lavoro, fumava sempre ed era molto buona. Un altro personaggio che non ricordo così volentieri era il signor “Barba e capelli”. Ogni tanto, di domenica, si recava nelle case del quartiere – anche a casa mia purtroppo. Era un omone enorme e aveva sempre la sua valigia nera con gli attrezzi del mestiere. Maschi e femmine, tutti lo stesso taglio, con la sua macchinetta a forma di rana. Chi potrebbe averlo dimenticato!
E.U.
I giovani del quartiere a una certa età scalpitavano e a quel tempo i genitori erano piuttosto severi. Da bambina moltissime volte ho assistito a feste improvvisate nella mia casa natale, organizzate dai miei fratelli sotto la supervisione di mia madre. Così erano tutti contenti, genitori e figli. La musica era una costante: i balli lenti favorivano gli incontri ravvicinati. Chissà i miei fratelli quante cose avrebbero da raccontare rispetto a questo tema. Molti tra quei ragazzi si sono anche sposati tra loro!
E.U.
Alessandro abitava nel primo capannone, vicino al campo di calcio. Era un ometto piccolo, magrissimo, parlava pochissimo e con voce lieve. I pantaloni che indossava erano grandi per lui. Mia madre ogni tanto mi mandava da lui, a casa sua, per comperare una matassa di lana d’acciaio. Vendeva anche cartucce per pistole giocattolo, quelle di plastica che scoppiettavano. Seppi da una mia cara amica che per lui non era stato sempre così. Era nato in una famiglia benestante. Da giovane si innamorò di una ragazza e insieme decisero di sposarsi ma lei proprio alla vigilia delle nozze non si presentò. Da quel giorno Alessandro viveva così: solo e silenzioso. A Montelepre qualche bambino a volte lo scherniva, ma lui non reagiva mai. Un giorno mentre mi recavo dalla mia amica vidi fuori dalla porta di casa di Alessandro un folto gruppo di persone, molti piangevano. Alessandro si era tolto la vita, si era impiccato, credo che valga la pena ricordarlo. Dolce, piccolo e silenzioso Alessandro.
E.U.
Favore e Bolero, due gemelli, non si assomigliavano per niente a parte l’abitudine di bere. Il primo era attratto da donne molto più grandi di lui, così si diceva; il secondo – chiamato anche “Braccio di Ferro” – era stato in carcere per piccoli reati e quando si trovava in gattabuia faceva lo “scrivano”: scriveva per gli altri carcerati che non ne erano in grado. I due fratelli secondo me erano molto intelligenti e se avessero avuto altre opportunità credo non avrebbero fatto quella vita, da un bar all’altro, a lavorare di tanto in tanto in carovana. Tutti conoscevano questi due personaggi. A loro modo erano divertenti e sempre pronti alla battuta. Chissà che fine hanno fatto!
E.U.
Tanto si è detto di Peppina… “Peppina la mancanti”. Io la ricordo quando ancora era madre di numerosi figli, presa dai mille problemi che la condizione di povertà proponeva a molte famiglie. Una donna folkloristica, certo, ma di lei si sono dette cose errate. Un giorno, forse stanca di tanti sacrifici cambiò vita, cominciò a frequentare i bar e a bere. Proprio Bolero, uno dei gemelli, fu il suo compagno in quel periodo. Peppina era una donna buona, una donna che forse non ha retto alle difficoltà. La ricorderò con affetto, sempre…
E.U.
L’ironia era la salvezza degli abitanti. Gli scherzi erano all’ordine del giorno. Si rideva e spesso dentro le proprie mura si piangeva allo stesso modo, ma qualcosa univa le persone: ”quello che non ti uccide, ti fortifica”. L’intelligenza si può sviluppare, anche solo per sopravvivere. In quel luogo molti conoscevano i segreti della terra: raccoglitori di funghi, lumache, e altri frutti che la terra regala gratis. Tanti “pizzinni pizzoni” se fossero andati alle “olimpiadi di sassaiola” avrebbero certamente preso medaglie per la loro bravura. Le ex prostitute, dopo la legge Merlin, avevano trovato, forse tra i loro stessi clienti, un marito, una famiglia. Un grande contenitore di varia umanità, questo era il mio quartiere.
E.U.
Don Pauluccio e Trimotore erano amici per la pelle, due dei personaggi più interessanti che il repertorio Montelepre poteva offrire. Il primo era napoletano, commerciante di scarpe. Rimase vedovo ma se la cavò con onore e sistemò tutti i suoi figli, sempre col commercio di scarpe. Il secondo era affetto da nanismo, con altri handicap che non gli permettevano di camminare agevolmente se non per mezzo di un bastone. Erano una coppia improbabile: il primo altissimo, il secondo minuscolo. Diventarono amici inseparabili, amici anche di sbornia. Giravano con un’ape di proprietà di Trimotore. Erano due personaggi comici, prendevano in giro chiunque, sembravano una coppia da cabaret, e avrebbero senz’altro avuto successo. Quando Don Pauluccio morì dopo breve tempo anche Trimotore lasciò questo mondo. Qualcuno disse che morì di dolore per la perdita del suo compagno di avventure. Una curiosità su questi due personaggi è che quando ai mercatini gli veniva chiesto un colore di scarpe che loro al momento non avevano, chiedevano gentilmente di tornare più tardi e nel frattempo dipingevano le scarpe che avevano per accontentare il cliente che di lì a poco sarebbe tornato. (ride, n.d.r.)
E.U.
Una cosa che, senza dispiacere, mancava nel mio quartiere era la noia. Le mamme che lavoravano durante il giorno trascorrevano quasi tutta la notte a rammendare, cucendo e creando abiti per i loro figli, facendo anche dei bei maglioni o magliette di cotone a seconda della stagione. Si iniziava presto, ci si alzava e si andava a raccogliere l’acqua alla fonte. Poi gli uomini erano tutti impegnati in lavori diversi, chi in cantiere, chi in ufficio e c’era chi andava a raccogliere lumache e bietole con i loro motorini o biciclette. Le poche donne casalinghe litigavano alla fonte se qualcuna si permetteva di spostare la bacinella che un’altra aveva poggiato per farla riempire. A volte dovevano anche intervenire degli uomini o addirittura la polizia. Diventava una “carnevalata” e i bimbi invece che spaventarsi si divertivano. Capitava che durante i litigi le donne si prendessero per i capelli e portassero fuori casa il loro pranzo già in cottura, come per dimostrare che a casa loro si mangiava. Poi il bello era che dopo mezz’ora facevano pace e si dimenticavano quello che si erano dette prima. Allucinante! All’ora di pranzo, come per incanto, calava il silenzio…ma durava poco! I bambini non conoscevano il silenzio. Le bambine già dall’età di 7 anni sembravano donne: ognuna indaffarata nel proprio lavoro fatto di lavaggi della biancheria e pulizia della casa. Non come oggi, cariche di giochi da far paura. Per queste bambine che conoscevano la vera paura traumatica,scherzare e ridere con le amiche serviva a farle star bene. Nel quartiere si sentiva la povertà ma la fortuna era che c’era molta dignità. Alcuni capofamiglia stavano in carcere per piccoli furti ma nessuna delle loro donne andava a lamentarsi, sapendo che il poveretto stava lì dentro per cercare di far campare la famiglia.
L.S.
Credo che la tubercolosi sia stata per quelle famiglie un vero e proprio flagello! Erano veramente tante le persone che hanno fatto lunghe permanenze al sanatorio, visto che il contagio era la maggiore causa. Molte famiglie ne venivano colpite e quando capitava ai bambini era ancora più drammatico, perché in città non esisteva un vero e proprio istituto che li potesse curare, di conseguenza i malati venivano ricoverati ad Iglesias. I maschi anche a Viterbo. Capitò anche a due dei miei fratelli, allora bambini. Il ricovero per i più piccoli era chiamato “preventorio”
E.U.
I “pizzinni pizzoni” e le piccole monteleprine crebbero, come fiori tra gli arbusti e i sassi. Credo che i fiori che crescono tra i sassi risaltino di più degli altri. Il boom economico in parte arrivò anche in quel luogo isolato. Le prime automobili cominciarono a circolare nel quartiere e anche le moto. Qualcuno si poteva permettere moto molto belle. Le minigonne e i capelli cotonati dettavano la moda del momento e, quei giovani pieni di vita e ironia “aprirono” le porte del quartiere ai ragazzi conosciuti in città. Fu un periodo molto bello, fatto di incontri, musica e risate, segno dei tempi che cambiavano, una rottura dall’isolamento finché… I ragazzi, come in tutti i tempi, ricercavano nuove emozioni e avevano preso l’abitudine di tanto in tanto di fare delle corse in moto a Scala di Ciocca, si sentivano immortali. Vi fu un incidente. Due di quei ragazzi, uno del quartiere e uno “esterno”, durante una gara con le loro moto persero la vita. Per rispetto non farò i loro nomi. Fu la fine della compagnia. Quel lutto ruppe gli equilibri e la compagnia si spaccò. Una tremenda tragedia!
E.U.
La scuola elementare era uno dei limiti di Montelepre. Era un vecchio stabile, al suo interno un cortile con un muro alto, dove facevamo ricreazione. I nostri maestri erano persone di una certa “apertura”. Avevano a che fare con bambini che avevano una visione della vita spesso cruda, a molti mancava l’indispensabile ma il mio ricordo è positivo e i miei maestri e maestre furono persone sensibili. Il dopo scuola “Cress” era distaccato dalla scuola, si trovava dalla parte opposta a essa. C’era una mensa molto particolare dal momento che le cuoche e il personale era composto dalle mamme del quartiere. Questo rendeva anche quel luogo familiare, il cibo era buono e il folklore ironico di certe mamme rendeva spesso teatrale la situazione. Anche la scuola materna si trovava nel quartiere e un personaggio in particolare è rimasto impresso nei ricordi di tutti: la Signorina Erminia. Mitica maestra della scuola materna, oltre che prendersi cura per lavoro di noi bambini, suonava la chitarra nel coro della parrocchia. Numeroso era sempre il gruppo che la seguiva, per il suo carattere gioioso e per la sua sensibilità. Era molto rispettata e godeva dell’affetto di tutti. Grande, Signorina Erminia!
E.U.
Rizzeddu sembrava spesso un luogo dimenticato da Dio. Anche la Chiesa era parte del paesaggio, situata in un capannone, ma arrivò un parroco che sapeva far ricordare l’esistenza di Cristo. Don Villotti fu l’unico parroco che tutti amarono veramente. La domenica mattina prima della Messa dei bambini, accompagnato dai chierichetti, faceva il giro del quartiere per salutare le famiglie e prendere in consegna i piccoli. L’inizio di quella messa era sempre lo stesso: «Topolini e Topolette…» Per un po di anni sembrò quasi che la bontà di Cristo si rivelasse anche lì. Don Villotti fu chiamato per fare il missionario e se ne andò. Furono in tantissimi a piangere per la sua partenza e nessuno riuscì a sostituirlo degnamente. Qualche anno dopo, un giorno, si sentì una voce che gridava: «Don Villotti è qua!!!» Tutto il quartiere uscì di casa per salutarlo, sembrava una grande festa. Non si era dimenticato di chi lo aveva amato tanto, un saluto prima di ritornare in Africa.
E.U.
L’educazione che si riceveva era proprio una scuola di vita. A noi bambini era permesso di andare a vedere le salme dei defunti. L’usanza era che quando qualcuno andava a miglior vita, tutti potevano andare a dare l’ultimo saluto, anche i bambini. Questo era del tutto normale e credo che forse fosse anche corretto. Serviva a esorcizzare certe paure e ad accettare quell’evento come parte della vita stessa.
E.U.
Capitava spesso che i bambini andassero a scuola da soli. In quei tempi avevamo tutti la stessa cartella di cartone. Potevamo comprarla da Signora Bonina che aveva il negozio più fornito del quartiere. L’unico problema era la pioggia. Quando quelle cartelle si bagnavano era un disastro. Quando iniziava la lezione, a volte, soprattutto i maschi, creavano disordini e non era strano trovare in classe qualche animale che faceva saltare sulle sedie i più sensibili e paurosi. Naturalmente il divertimento per i colpevoli non mancava. Sembrava che non fossero scalfiti dalle punizioni, tutt’altro. Finite le lezioni, accompagnati dalle bidelle, ci si recava al “Cress”. Si mangiava e poi ognuno di noi andava nella classe a cui era assegnato. Credo che per molti bambini quello fosse un luogo dove poter giocare con cose che sicuramente non si potevano permettere di acquistare. Il Cress era fornito di materiali vari, pongo e materiale per il disegno. Una cosa che io adoravo era che ogni anno si preparava una rappresentazione teatrale per la fine dell’anno scolastico. Fu lì che molti di noi bambini scoprirono delle attitudini – compresa me – per il disegno, per il lavoro in cartapesta e la recitazione. C’era la possibilità in quei tempi di fare la richiesta di scarpe e occhiali per i più poveri. Spesso ci si ritrovava a indossare quasi tutti lo stesso tipo di scarpe. Credo che il “diverso”, nel mio quartiere, fosse colui che non aveva certe esigenze.
E.U.
I bambini del mio quartiere erano dei veri e propri guerrieri, esperti nel tiro col “tiraelastico” e nella sassaiola. Numerose erano le rappresaglie da parte delle varie fazioni e il ricordo di una di queste mi è rimasto stampato in un sopracciglio. Mentre mi recavo da Signora Bonina per un acquisto, mi ritrovai nel bel mezzo di una battaglia e un sasso mi colpì. I responsabili in un nanosecondo si dileguarono, un proiettile che non si può definire di “fuoco amico”.
Da tempo sto qua… dei muri una stanza… non c’è una finestra e provo a sognarla, il sole per me è quel faro più in là aspetto sentenza… cosa sarà? Forse ho sbagliato in qualcosa è vero, il cervello schiantato e il ricordo è assente […]
Da tempo sto qua… dei muri una stanza…
non c’è una finestra e provo a sognarla,
il sole per me è quel faro più in là
aspetto sentenza… cosa sarà?
Forse ho sbagliato in qualcosa è vero,
il cervello schiantato e il ricordo è assente
che io fossi incosciente, qualcuno ha pensato
e qua sto pagando e sono forse innocente
Sai, dentro si cambia, scandendo il tuo tempo
si riflette e si diventa un’altra persona,
ti attacchi alla vita con disperazione
e ti dispiace andar via, fra un anno o fra un’ora
Forse in inverno io dovrò partire,
ma non serve bagaglio, per quel posto si sa
chi mi vuole sopprimere è peggio di me,
se muoio, per loro… giustizia sarà.
A quel governatore, che spero sia umano
domando qualcosa che sai… mi appartiene:
chiedo mi faccia vivere ancora
che non fermi il mio cuore quando cadrà la neve.
Questa nazione così progredita
che manda anche l’uomo lassù sulle stelle,
ma non contempla perchè mai il perdono,
spegne le anime proprio come fiammelle.
Da tempo sto qua… dei muri una stanza…
non c’è una finestra e provo a sognarla,
il sole per me è quel faro più in là
aspetto sentenza… cosa sarà?
L’evoluzione – crescita, stabilizzazione, decadenza e abbandono – di San Sebastiano come struttura carceraria è durata poco più di un secolo. Molto meno di ciò che era accaduto per il precedente carcere cittadino (o, meglio, per il più conosciuto, visto che era in compagnia di […]
L’evoluzione – crescita, stabilizzazione, decadenza e abbandono – di San Sebastiano come struttura carceraria è durata poco più di un secolo. Molto meno di ciò che era accaduto per il precedente carcere cittadino (o, meglio, per il più conosciuto, visto che era in compagnia di prigioni e galere più piccole ma non meno fatiscenti e terribili): San Leonardo. Non sappiamo come fosse collocato all’atto della sua costruzione, ma si ritrovò ben presto al centro della città, costituendo (visto lo stato di struttura chiusa e le condizioni igieniche che, di conseguenza, si creavano), un notevole pericolo per la sicurezza e la salute dei cittadini. Costruito, ingrandito, sopraelevato, semidemolito e ricostruito più volte, in un confuso ammassarsi edilizio di ambienti aggiunti uno sull’altro, a seconda delle esigenze del momento, San Leonardo svolse la sua funzione per oltre 500 anni. La “Relazione del Consiglio generale delle carceri al Ministro dell’interno sullo stato e sulle condizioni delle carceri giudiziarie” del 1852 ce lo descrive abbastanza chiaramente: Su quattro livelli sono infatti disposti senza alcuna apparente logica diciassette diversi ambienti che devono contenere, tra inquisiti e condannati, sino a trecento detenuti: ai “segreti” e alle “fosse”, collocati negli umidi e orribili sotterranei dove la luce e l’aria difettano essenzialmente, si sommano la galera, destinata a carcere femminile, le due camere adibite ad ospedale, la cappella nella quale il Parroco, oltre alla celebrazione della Santa Messa, fa alcuna volta, ma di rado, la spiegazione del Vangelo, la cosiddetta “prixionedda” (carcere piccolo), la casa del boia e la stanza della siziata, dove i giudici della città prendono visione del numero dei detenuti, della durata delle detenzioni e dei reati commessi. Costruito nel 1300, fu abbandonato nel 1871 all’atto, appunto, della inaugurazione di San Sebastiano. La sua intitolazione a San Leonardo – ci fa sapere il Costa – risale però solo al XVII secolo. L’ingresso del carcere era in Carra Piccola, in quello che poi diventerà il negozio dei Clemente ed è attualmente un negozio di attrezzature per animali. Lì c’erano i due cancelli, la garitta del corpo di guardia, lungo, oscuro, angusto corridoio, vero antro di bolgia, ove sono pisciatoi e fogne anche scoperte, e dove da poco si tolsero gli attrezzi del patibolo. Quest’ultima – chiarissima – descrizione solo dell’ingresso di San Leonardo, contenuta in un documento del Comune di Sassari del 1866, dà già l’idea della situazione nella quale si trovavano i detenuti in quegli anni all’interno di quelle mura, le quali presentano il più triste e commovente spettacolo che valga ad affliggere l’umanità. Queste carceri non sono luogo di custodia (…) sibbene luogo di martirio, e di martirio orribile. Una tomba fetida, dove si respira un aere insano e mefitico, dove questi esseri giacciono orrendamente accatastati insieme, dove confuso si trova l’innocente col reo, il giovane immacolato col vecchio assassino, dove l’ozio, il malcostume, lo scarso nutrimento, e, ciò che è più, l’eternità del processo, li abbruttisce, demoralizza e condanna alla disperazione. Anche Enrico Costa tenta una descrizione di San Leonardo nel suo “Archivio pittorico della città di Sassari” riportando una piantina conservata – allora – nell’Archivio di Stato di Cagliari. Non sappiamo se la piantina originale fosse esattamente quella ridisegnata dal Costa, che appare più un “riassunto” di una più completa, ma ci fa capire come era sistemato lo spazio interno. E ci fa capire anche che occupava solo una parte di ciò che vediamo oggi nei lavori di restauro della Tipografia Chiarella che ne ha occupato l’area fino al 1998. Il carcere non comprendeva, infatti, l’area verso via Lamarmora, ex cortile del “Palazzo della Pretura” in piazza Tola ed annesso al complesso dai Clemente solo nel 1899, e tutta l’area su via al Carmine, dove il carcere non arrivava ed aggiunta dai Clemente dopo il 1884. Fu quello, infatti, l’anno in cui, dopo vari tentativi di riutilizzo non andati a buon fine, si decise di vendere quelle antiche mura ai Clemente, i quali vi realizzarono il loro prestigioso progetto. Ma non, come si credeva fino a pochi anni fa, radendo al suolo e cancellando dalla memoria quello che era stato il carcere sassarese. Sappiamo ora, a restauro ancora in corso, che di quelle mura molto si è salvato, in una storia ancora, in buona parte, da scrivere.
Costantino Spada nasce a Sassari il 28 Ottobre del 1922 da padre vigile urbano e madre casalinga. Secondo di otto figli, quattro maschi e quattro femmine, fin da giovane mostra grande attitudine per la pittura. Inizia il suo percorso artistico come pittore di strada ed […]
Costantino Spada nasce a Sassari il 28 Ottobre del 1922 da padre vigile urbano e madre casalinga. Secondo di otto figli, quattro maschi e quattro femmine, fin da giovane mostra grande attitudine per la pittura. Inizia il suo percorso artistico come pittore di strada ed entra poi nella bottega di Giovanni Pulli dove viene notato da Filippo Figari che lo convince a frequentare la Scuola d’Arte da lui diretta. Arrivato all’Istituto d’Arte, sorprende tutti grazie alla sua grande istintività e maestranza pittorica e alla sua umiltà e disponibilità verso gli altri. Dopo aver terminato il corso di decorazione e pittura con Filippo Figari – al quale rimarrà sempre riconoscente e molto legato sul piano umano e artistico – Spada prende una sua strada artistica, senza nessun limite per la pittura, anzi con la convinzione che niente debba essere precluso ad un artista. Si convince che alla pittura spetti una dignità superiore (cit. G.Altea, M. Magnani, Pittura e scultura dal 1930-1960). Si fa conoscere alla rassegna Sindacale Sarda nel 1939 (alla quale parteciperà anche il suo mentore nonché maestro Filippo Figari) e alla mostra del GUF nel 1940. Insieme a Libero Meledina è considerato il più talentuoso e promettente tra i giovani artisti. Alla fine degli anni ’40 la ricerca volge al realismo con sfumature espressioniste che si consolidano negli anni ’50 con I’inserimento di tematiche religiose. Nel 1940 affresca la Sagrestia di San Donato con una storia di Cristo. In seguito si occupò delle chiese di San Giuseppe, San Sisto, Servi di Maria e del seminario Arcivescovile di Sassari, fino ad arrivare all’apice della sua più grande espressione artistica con gli affreschi e i dipinti della chiesa del Sacro Cuore. Si sposa nel 1947. Dei suoi nove figli, tre seguiranno le orme del talento artistico paterno: Alina, Ettore e Turi. Nel 1949 partecipa a Venezia ad una mostra collettiva e da quel momento in poi non si fermerà più fino al giorno della sua morte, che avverrà il 21 Ottobre del 1975. A soli 52 anni scompare per sempre uno dei più grandi artisti del nostro secolo, nonché figura di grande umanità e umiltà. Il racconto di sua figlia Maddalena mette in luce Costantino Spada come artista ma sopratutto ci descrive uno spaccato della sua vita.
Che ricordo ci dà di Spada come uomo e come padre?
Sull’uomo e padre posso raccontare ben poco, avevo appena 9 anni quando lui è venuto a mancare. Ricordo comunque che le mie sorelle più grandi mi raccontavano che era un uomo molto allegro, ma anche severo e serio quando necessitava. Bastava un suo sguardo per zittirci. Molto geloso di mia madre, era anche un uomo molto attento alle necessità di casa, non faceva mancare nulla. Ricordo che quando stava fuori a fare baldoria, rientrava con dei regali bellissimi per farsi perdonare da mia madre (sorride, n.d.r.).Un uomo anche molto generoso verso il prossimo, forse anche troppo. Nelle sue visite in ospedale non dimenticava di aiutare chi ne aveva bisogno e quando aveva a che fare con famiglie bisognose cercava di prestare aiuto fin dove gli era possibile. Un grande amico di tutti. Forse anche per questo tante volte le persone che conoscevano la sua indole non esitavano ad approfittare della sua bontà.
E come pittore?
Era un pittore istintivo, senza regole. La sua capacità era la naturalezza, senza riferimenti o ispirazioni verso nessun collega. La sua pittura veniva dall’emozione, quella che supera i limiti del linguaggio della pittura per la pittura, questa è forse la definizione che più gli si addice.
Come nacque il suo amore per la pittura?
Era parte di lui da sempre, qualcosa di scritto nel suo Dna.
Aveva esordito giovanissimo nel 1937 esponendo alla mostra dei giovani alla Prelittorale, come fu questo periodo per lui?
Molto felice e prospero di grandi iniziative. Insieme al suo amico fraterno Libero Meledina visse i primi grandi approcci con la pittura. Nel 1939 qualche anno dopo la Prelittorale comincia la sua vera carriera artistica. Nel 1940 si fece conoscere alla Sindacale Sarda e alla mostra dei giovani. La sua carriera decollò non solo tra le mura sassaresi ma anche nel continente. Conseguì numerosi riconoscimenti sia in Europa che negli Stati Uniti dove ottenne grande notorietà.
Nel 1940 la sua ricerca di pittura cresce e volge al realismo con sfumature espressioniste, cosa ci dice di questo periodo?
Era un artista e come tale si adeguò ai tempi, cogliendo l’evolversi della pittura in quel momento storico ma sempre mantenendo uno stile personale e una sua identità.
Nel 1950 si sposta verso tematiche più religiose affrescando la chiesa del Sacro Cuore. Come mai questo cambio di rotta?
Come ho detto si adeguava ai tempi ma in questo caso il discorso è un po’ diverso visto che fin da giovanissimo ebbe un rapporto stretto con la religione visto che proveniva da una famiglia molto credente. La chiesa del Sacro Cuore è considerata ad oggi la sua opera più importante. Iniziò nel 1960, per finire la sua opera quasi 9 anni più tardi
cioè nel 1969. Fu un lavoro immane che gli portò via moltissime energie sia fisiche che mentali.
Come possiamo definire il suo rapporto con la città di Sassari?
Era molto legato a Sassari e aveva un ottimo rapporto con la città e Sassari ha sempre ricambiato con grande affetto.
Ci sono degli aneddoti che possiamo ricordare?
Una persona mi raccontò una volta che quando mio padre frequentava – come altri artisti – lo studio di Giovanni Piu in Piazza Università, desiderava avere una natura morta dell’autore perché avrebbe voluto riprodurla perché avrebbe voluto lo stesso effetto. Un giorno, con sua grande sorpresa, un suo amico riuscì ad acquistare da Piu (e anche ad una cifra modesta) proprio il quadro che mio padre avrebbe desiderato avere. Propose quindi all’amico di barattare la tela di Piu con due dei suoi quadri ma il giovanotto non gliela concesse. Dopo qualche tempo, il giovane (che era originario di Genova), di ritorno a Sassari per lavoro, cercò Costantino per fargli avere il quadro tanto desiderato ma purtroppo mio padre era già deceduto da qualche mese e non riuscì, nonostante molte ricerche, ad avere nemmeno un solo quadro di Spada per la sua collezione privata.
Come nasceva un dipinto di Costantino Spada?
Dal suo istinto e dalla sua ispirazione in quel momento. Alle volte prendeva cavalletto e tela e andava in spiaggia, a Platamona a dipingere, oppure scendeva in studio e lavorava con le modelle. Mi ricordo che quando avevo sei anni la sua ispirazione volle ritrarmi su tela. Guardai me stessa su quel dipinto e mi sembrò di essere davanti ad uno specchio talmente l’immagine era vivida e reale. Per mia sfortuna qualche giorno più tardi una contessa di Torino vide il ritratto e lo volle a tutti i costi, non badando a spese. Mio padre visto il mio dispiacere mi promise che me ne avrebbe fatto un’altro. Purtroppo non poté mantenere la promessa a causa dei suoi problemi di salute.
Ha mai cercato di recuperare quel ritratto?
Devo dire in sincerità di aver fatto varie ricerche sulla contessa e sul ritratto che mi rappresentava, ma purtroppo invano. Ho pubblicato vari annunci anche su giornali locali ma senza alcun esito.
In che modo suo padre visse il passaggio allievo ad insegnante di disegno proprio nell’istituto che lo aveva visto nascere artisticamente?
Lo visse in maniera molto umile. L’arte era la sua passione e il suo amore, di conseguenza, riusciva a trasmetterla ai ragazzi in modo molto spontaneo e con metodi molto paritari.
Che rapporto aveva con i giovani artisti?
Apprezzava tutto ciò che era arte, soprattutto quella giovanile, visto il suo trascorso e il mestiere che svolgeva.
Come viveva la sua notorietà?
In modo molto umile e sociale. Tutto per lui pareva normale. Non aveva manie di grandezza anzi, ricordo che le persone che incontrava spesso gli si rivolgevano in modo confidenziale: «Costanti’…». Andava molto fiero della semplicità che riusciva a trasmettere.
Quali sono i dipinti di suo padre che ama particolarmente?
I miei dipinti preferiti suoi sono i ritratti e le nature morte. Quando ancora oggi mi capita di vederne qualcuno, rimango incantata. Sembrano ogni volta prendere vita.
E suo padre invece quali amava di più?
Senza dubbio le figure.
Giunti alla conclusione, come potremmo definire Costantino Spada?
Un uomo nato per dipingere. La pittura per lui era la vita stessa ma al contempo sapeva accettare l’esistenza in tutte le complessità che mostra.
Gesuino Cauli racconta sulle nostre pagine l’arte del maestro Spada: Costantino Spada esprime il suo talento artistico come pittore da strada, ma ben presto, sempre in età giovanissima comincia a farsi conoscere e apprezzare fuori dai confini della Sardegna. Nel 1937 le prime esperienze pittoriche, […]
Gesuino Cauli racconta sulle nostre pagine l’arte del maestro Spada:
Costantino Spada esprime il suo talento artistico come pittore da strada, ma ben presto, sempre in età giovanissima comincia a farsi conoscere e apprezzare fuori dai confini della Sardegna. Nel 1937 le prime esperienze pittoriche, uno stile fuso tra realismo e impressionismo; i suoi dipinti colpiscono per la naturale policromia che l’artista riesce a infondere nelle sue opere, i colori sempre vivi e luminosi si fondono tra essi rimanendo sempre puliti nonostante la rapidità del tratto. Col passare del tempo il realismo viene espresso dall’artista in maniera esaltante nelle opere di arte sacra. L’influenza dei grandi maestri Sardi del novecento, Figari, Dessy e Biasi, è forte. Nel 1948-49 Spada si affaccia verso il Neo-Cubista pensando a una svolta di rinnovamento artistico, ma l’esperimento durò pochissimo. Già nel 1950 l’artista pian piano abbandona la strada intrapresa e ritorna al realismo. E’ il momento più operoso di Spada, i suoi lavori esprimono la forza interiore dell’artista, la pennellata decisa e fluida, dai colori densi prevalentemente terrosi, caratterizzano il suo inconfondibile stile. Di Spada ricordiamo varie opere, ma nel 1940 arriveranno le più importanti commesse artistiche che ne caratterizzeranno il momento definito come “ciclo decorativo dell’arte sacra”. La chiesa di San Donato fu la prima ad essere decorata. L’artista affresca la sacrestia con scene della vita di Cristo. Agli inizi degli anni ’50 fu la volta di San Sisto, nella quale il pittore sassarese realizza gli affreschi dell’abside e quelli dell’arcata trionfale in cui viene raffigurata l’ultima cena. Curiosità vuole che i personaggi raffigurati nell’ultima cena, non sono altro che i muratori impegnati nel restauro stesso della chiesa. Spiccano inoltre le figure dell’arcivescovo Arcangelo Mazzotti e il parroco della chiesa don Filippo Muresu, con i suoi giovanissimi chierichetti. Io ero tra questi. Nel 1953 l’artista inizia la sua opera più grande decorando la basilica del Sacro Cuore e raffigurando con tempera la natività. In seguito rappresenterà le scene della crocefissione di Cristo. Tra il 1961 e il 1969 infine si occupò delle restanti decorazioni del soffitto e delle pareti. In questa occasione per i volti di alcuni personaggi dell’affresco userà come modelli, componenti della propria famiglia e anche se stesso.
Il pittore che apre una finestra su Sassari di Benito Olmeo Sassari e i suoi vicoli, le sue storie tra le finestre socchiuse e le porte in legno grezzo del centro storico. Sassari nascosta tra la gente e tra le sue mura che ora come […]
Sassari e i suoi vicoli, le sue storie tra le finestre socchiuse e le porte in legno grezzo del centro storico.
Sassari nascosta tra la gente e tra le sue mura che ora come non mai sembrano celare segreti non ancora svelati.
E’ qui che nel 1966 nasce Roberto Luiu, distante da tutti gli sguardi e disincantato dalla bellezza della sua città.
Debutta artisticamente nel 1987 e porta avanti un’intensa attività che gli farà conquistare non pochi riconoscimenti di critica e di pubblico.
Roberto espone a Sassari, Ardara, Roma, Sorso, Porto Torres, Cagliari, Santa Teresa di Gallura e Osilo. Successivamente si dedica quasi completamente alla sua città.
La sua primissima mostra personale, “C’era una volta… Sassari”, viene presentata in città nel 2001. L’anno successivo arriva la sua seconda personale, “Sassari”, presentata nella prestigiosa Sala Duce del Palazzo Ducale.
Verrà poi riproposta nel 2005 al palazzo della Frumentaria arricchita con un maggior numero di opere.
Nel 2007 sarà la volta di “Notturni Sassaresi” presentata nella Sala Duce. La mostra riscuote un enorme successo.
I lavori raccontano una Sassari di ieri e di oggi esclusivamente durante la brezza notturna con straordinari effetti di luci e ombre.
Nel 2010 Luiu lavora a “La mè Ziddai”, che bissa il grande successo della mostra precedente.
L’intervista
Raccontaci un po’ di te.
Sono un sassarese, di “veri” sassaresi. I miei genitori infatti sono nati all’interno delle mura…. io no! Ovviamente rimpiango di non essere originario del centro storico, ma va bene così! Sono nato a Sassari, esattamente nella via Pasubio anche se quando avevo solo due anni la mia famiglia si è trasferita nel quartiere del Latte Dolce, dove tutt’oggi risiedo. Amo questo quartiere, potrei benissimo dire di esserci nato. L’ho visto espandersi e crescere! Mi sento abbastanza fortunato di aver messo radici al Latte Dolce.
Quale messaggio vuoi trasmettere con i tuoi dipinti?
Vorrei contribuire a dare un segnale in più alle nuove generazioni di futuri sassaresi. Senza nulla togliere agli storici del passato e quelli attuali, il mio scopo è, oltre a rappresentare la Sassari dei tempi andati, raccontare anche la Sassari odierna e le sue trasformazioni. E’ questo il mio messaggio!
Come hai iniziato ad avvicinarti all’arte?
Già da bambino non facevo che disegnare e disegnare. A scuola, durante l’ora della ricreazione, la matita e la carta erano la mia merenda. All’età di circa quattordici anni provai con la pittura che trovai subito molto interessante. Inizialmente realizzai di tutto: nature morte, paesaggi, mareggiate e qualche volta dei ritratti. Più tardi mi dedicai quasi completamente alla mia città. Conoscendo la sua storia e riscoprendo i suoi monumenti ormai scomparsi, provai una tale tenerezza che decisi così di raccontare tutto sulla tela. Nel frattempo partecipai a numerose esposizioni collettive e concorsi con riconoscimenti. Oggi vado avanti con le mie mostre personali continuando a scoprire, e far scoprire, la nostra amata Sassari.
Dove possiamo vedere i tuoi quadri?
Solitamente durante le esposizioni collettive e personali. Qualche volta durante una particolare presentazione, come le anteprime delle personali in diversi luoghi della città. I miei lavori sono molto impegnativi e richiedono parecchio tempo per essere realizzati e poi mostrati al pubblico. Oserei dire che trovarsi davanti a un mio dipinto può risultare un’impresa quasi impossibile! Nel frattempo potete comunque visionare le foto dei miei lavori sulla mia pagina Facebook! Mi farò un gran piacere se qualcuno volesse chiedermi l’amicizia in modo da poter interagire e discutere delle mie opere.
Da cosa trai ispirazione?
Per poter realizzare dei dipinti sul tema “Sassari” non si possono avere delle idee o ispirazioni. Dipingo Sassari e basta; i suoi vicoli, le piazze, i monumenti. Tutto deve risultare assolutamente credibile e fedele alla realtà.
Che cos’è la pittura o l’arte in genere per te?
L’arte è tutto e tutto è arte. Il mondo stesso è arte! Qualunque forma e colore sono un’ispirazione all’arte. Dobbiamo possederla perchè ci appartiene. Appartiene a chiunque!
Svolgi la tua attività di pittura come lavoro principale?
Assolutamente no! Faccio l’impiegato statale. L’attività artistica è parte di me e non vorrei definirla un lavoro. Tutto è nato in maniera assolutamente naturale.
Come artista ti reinventi ogni giorno oppure rimani sempre come le origini?
E’ ovvio che si cerca di migliorare di giorno in giorno. L’arte è mistero. L’arte ci fa scoprire quei segreti sicuramente infiniti che pian piano si riesce ad individuare.
C’è uno dei tuoi quadri che ami in particolar modo?
Quando realizzo un dipinto, qualunque esso sia, è perché ne conosco l’ identità e il volto. Anche un vicoletto, magari sconosciuto e sperduto, per me è molto importante. Ogni luogo della nostra città ha una storia da raccontare. Se vogliamo parlare di un mio lavoro a cui sono legato in particolar modo posso citare quello che rappresenta la chiesa del Latte Dolce. Come potevo non realizzare questo soggetto? Amo quel quadro semplicemente perché ritrae il mio quartiere, è parte della mia vita, per questo lo custodisco gelosamente. Un altro dipinto che mi è molto caro, è “Sassari alla finestra – Panorama e Duomo di San Nicola”. Volevo realizzare qualcosa di insolito, di diverso, naturalmente restando sul mio tema. Non ci misi molto tempo per pensarci che immediatamente mi apparve la “Finestra”. Si tratta di un dipinto sperimentale e in futuro mi auguro di realizzarne altre. Intanto la seconda finestra è già in fase di realizzazione. Sarà una panoramica di Santa Maria con discesa dei Candelieri. Mi auguro che in futuro mi vengano in mente altre nuove idee, perché no?
Sei molto legato a Sassari. Perché?
Perché sono Sassarese! Amo le sue origini, la sua storia, i Candelieri. Ancora oggi avverto il profumo del passato. Qui c’è la mia famiglia, i legami affettivi, gli amici. E’ la mia città! Qualche volta ho pensato di trasferirmi chissà dove, magari per approfondimenti artistici, ma non riesco a strappare le mie radici dalla mia terra e tutto rimane esattamente come prima.
Cosa consiglieresti a una persona che inizia ora ad approcciarsi all’arte?
Penso che la vera cultura uno se la crea da sé, non ha bisogno di suggerimenti. E’ un dono che si può avere dalla nascita, esattamente come è accaduto al sottoscritto. Posso dire che l’arte ha scelto me e non viceversa! A tutti coloro che vogliono intraprendere la passione dell’arte, posso consigliare di conoscerla, amarla, coltivarla e infine possederla.
Come potremmo definire Roberto Luiu?
Roberto Luiu è un Sassarese, come voi! Ama confondersi tra la gente, la sua gente…!
Potete seguire il lavoro di Roberto Luiu cliccando QUI.
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