montelepreMontelepre nasce come quartiere nell’immediato dopoguerra in un campo militare ormai in disuso. In breve tempo il quartiere viene in un primo momento occupato da reduci di guerra (ormai senza famiglia e senza fissa dimora), povera gente, emarginati e da qualche famiglia di zingari integrati molto bene.

Ma solo nel 1953 dopo la grande alluvione a Sassari, molte famiglie che occupavano la scuola di San Donato vennero trasferite in quel grande spazio (circa 70 mila metri quadrati) che più avanti avrebbe preso il nome di “Montelepre” in riferimento al bandito Giuliano.

Il quartiere era composto da circa 15 o 16 capannoni, più due grosse palazzine dove una fungeva da scuola e un’ala da ambulatorio medico, e l’altra cosiddetta “palazzina comando”. Vi risiedevano le donnine di facili costumi, il tutto cinto da un muro alto almeno tre metri che lo divideva dal resto della città.

Nonostante il grosso sovraffollamento di persone e i vari disagi, all’interno del quartiere si conduceva una vita dignitosa e indipendente dal resto della città, in quanto zona fornita di tutti i servizi di prima necessità.

I vari negozi posti all’interno – bar, tabacchi, alimentari, bombolai, verdurai ecc. – facevano sì che Montelepre fosse considerata una cittadina a sé stante. Oltre questi negozi era presente anche un cinema, un oratorio e un doposcuola dove trascorrere le serate, nonché una chiesetta.

Nonostante non ci fosse l’acqua all’interno dei capannoni, (l’acqua era presente solo all’interno della scuola), il comune fece installare delle fontanelle poste tra un capannone e l’altro in modo che i disagi venissero meno e che gli abitanti di Montelepre potessero usufruirne per lavarsi e per lavare panni e per i servizi di prima necessità.

Non dimentichiamo che a Montelepre vigevano delle leggi non scritte e tra gli abitanti dentro le mura c’era un codice etico e tanta solidarietà. Nel 1972 dei volontari venuti da Milano stimarono tramite un’indagine statistica, che dei 1453 abitanti quasi il 57% erano bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni di età (statistica presa da un articolo de La Nuova Sardegna scritto da Manlio Brigaglia).

Di seguito riportati i racconti e le testimonianze di Laura Spanu e Ester Usai:

Una cosa è certa, nessuno decide dove nascere, erano gli anni ‘60, venni alla luce a Rizzeddu settima di nove figli. Esiste la povertà e la miseria: nel mio quartiere non mancavano né l’una né l’altra, anche se non tutti sanno cogliere la differenza. Mi toccò la seconda fascia per fortuna ma dopo aver vissuto altri luoghi, posso dire che l’umanità che percepivo mai l’ho percepito da altre parti, quindi posso ritenermi fortunata. A Rizzeddu non c’era l’acqua corrente e le donne si rifornivano nelle fontane distribuite qua e là nel quartiere. Certo quel momento era a volte motivo di diatribe, ma anche uno spasso per chi osservava, mentre le donne litigavano con un linguaggio molto colorito. Noi bambini eravamo liberi di giocare all’aria aperta e ci sentivamo al sicuro. Il fatto di avere fratelli più grandi rispettati nella comunità mi garantiva un trattamento di favore e di tanto in tanto qualcuno mi offriva caramelle o un gelato d’estate, quando mi capitava di passare davanti a uno dei tre bar del quartiere.

E.U.


Uno dei ricordi più belli delle mie estati di bambina è quando nel quartiere si celebrava una sorta di festa. Si faceva un grande falò e chi voleva chiedeva a un altro componete del quartiere di stringere un patto di fratellanza: “Cummari o Cumpari di Fugaroni”, così si sarebbero chiamati da quella sera. Questo rituale era sacro e aveva valore per tutta la vita. I due partecipanti prendevano un bastone ai suoi lati e correndo lo facevano passare sul falò mentre i testimoni dell’evento gridavano: «Cumpari di fugaroni!!!» A qualcuno farà sorridere ma ho visto con i miei occhi il valore di questa promessa, persone che per tutta la vita hanno mantenuto un legame di rispetto e fratellanza. Anche mia madre partecipò al rito e ne rimase legata per sempre.

E.U.


montelepre7Il primo capannone era abitato da donne che lavoravano “dentro casa”, ognuna con porte colorate che mettevano allegria. Ma loro erano veramente dignitose, non come quelle che si vedono per strada. Loro soffrivano in silenzio per garantire un futuro migliore ai figli che studiavano in collegio.

L.S.


montelepre3Sono nata alle cinque di mattina di una tiepida e profumata giornata di primavera dentro un camerone di un vecchio capannone militare. No, non sono figlia di graduato. La mia famiglia – come tante altre – occupava una parte di quei vecchi capannoni ormai in disuso. Ancora non sapevo di essere nata nel quartiere più povero della mia città, considerato quasi come un “ghetto”. I miei primi ricordi vedono una piccola bambina bionda, sempre allegra,che andava alla fontana con dei piccoli recipienti per fare la riserva d’acqua. In quel camerone, che era la mia casa, non avevamo acqua ai rubinetti e il nostro soggiorno funzionava da cucina e camera da letto. Era bello le sere d’inverno, quando con gli altri bambini andavamo a cercare pezzetti di legna per poter accendere il fuoco ed io mi trainavo dietro una piccola cassetta dove poggiarli. Poi quando mia madre accendeva il braciere, lo portava dentro casa e lo incassava nella “coffa”. Lì nell’intimità della nostra casa ci sedevamo intorno al fuoco, io, mia madre e le mie sorelle. Quello era il mio momento preferito perché mia madre ci raccontava le sue storie appassionanti. Poi ci faceva pregare, dicendoci che la Madonna ascoltava i bambini. Noi pregavamo perché babbo non tornasse a casa ubriaco. Non potevo dire che pregavo perché non ritornasse più. Ma immancabilmente a notte inoltrata sentivamo le grida di mia madre che invocava aiuto e la voce di mio padre che sputava frasi offensive nei confronti di una donna che, per amor suo, aveva lasciato la sua casa e i suoi affetti. Mia madre era figlia unica di una famiglia agiata. Era molto bella e i suoi genitori sognavano per lei un futuro splendido. Ma lei si innamorò di mio padre e scappò insieme a lui. Di conseguenza fu diseredata e cancellata dalla famiglia. Così mentre le mie sorelle al rientro di mio padre si nascondevano sotto le coperte, io mi alzavo andandogli incontro. Lo stordivo con le mie chiacchiere, così si rilassava e dopo aver bevuto si addormentava nel divano. Le nostre notti erano un incubo perché mio padre, essendo alcolizzato, riversava su mia madre i suoi rimorsi e fallimenti di vita. Era un uomo di media statura ma di vasta cultura. Aveva studiato in seminario, ma quando avrebbe dovuto prendere i voti scappò per non farsi prete. Ebbe molte occasioni di un buon lavoro da poterci permettere di vivere in agiatezza, ma si prese il vizio di bere e così le mandò tutte all’aria. Durante il giorno si stava bene perché lui usciva il mattino e stava fuori sino a sera tarda. Non riesco a dimenticare la notte in cui tornando a casa più ubriaco del solito picchiò a tal punto mia madre da indurre i vicini a chiamare una pattuglia. Quando arrivarono i poliziotti, alla vista di tre bambine tremanti dalla paura e dal freddo, prima calmarono mio padre e poi convinsero mia madre a recarsi in questura l’indomani per inoltrare la denuncia per maltrattamenti. L’indomani mattina mentre ci recammo in questura. Mia madre ci avvertì di non parlare. Io e le mie sorelle non denunciammo mio padre neanche davanti a un piatto di caramelle. Non parlammo forse temendo una sua reazione o perché in fondo gli volevamo bene. In effetti lui, quando non beveva, era una bravissima persona, ma se toccava un bicchiere diventava un diavolo. Ogni mattina mi recavo a casa di un vecchietto non vedente, non so se dalla nascita o se lo era diventato. Mi faceva preparare la lista della spesa e gli pasticciavo qualcosa da mangiare poi, quando il tempo lo permetteva, lo portavo a fare una passeggiata. Ero per lui quella nipotina che non gli avevano permesso di conoscere, tanto che quando mi ammalavo, era lui a prendermi le medicine e a non farmi mancare la frutta tutti i giorni. “Zio Antonio” come lo chiamavo affettuosamente diceva di me: «Mi fa vedere i colori di un tramonto e i colori del grano in un ricco pomeriggio d’estate. I colori della vita che per un amaro destino mi sono negati.»

L.S.


Un’altra storia da ricordare del mio quartiere è lei: una bellissima ragazza con una voce stupenda e un corpo da pin-up. La potevi vedere e sentire ogni volta passavi vicino alla “sua” fontanella. Ogni capannone ne aveva una vicina per portare l’acqua per le faccende domestiche. Era una ragazza slanciata con una cascata di capelli neri mossi. Potevi star ferma a fissarla se non avevi premura di tornare a casa. Mi chiedevo perché una ragazza così stesse tutto il tempo a lavare alla fonte e una volta spinta dalla curiosità glielo montelepre6chiesi. Mi rispose con un fantastico sorriso: «Ma io ho il mio amore. E’ Gianni e abita vicino a casa tua.» Il mio pensiero corse a Gianni, il suo fidanzato. Suo fratello, mio amico, morì per infarto durante una partita di calcio del quartiere. Fu un lutto che scosse il quartiere dato che era una giovane promessa del calcio e benvoluto per il suo carattere mite e dolce. A Ica, così si chiamava la ragazza, non importava se c’era sole o pioggia, lei si divertiva nei suoi lavori e anche sotto la pioggia non stava ferma ma continuava a lavare alla fontana. Una mattina passavo lì vicino e non la vidi. meravigliandomi chiesi a chi incontrai . Dire che rimasi esterefatta è dir poco. Mi dissero: «Vieni a vederla per l’ultima volta. E’ a casa e la stanno vestendo.» Prima di entrare tirai un grande respiro perché mi era bloccato nel saperlo. Entrai e la prima cosa che vidi in quell’ambiente al buio fu la lucentezza del suo vestito bianco da sposa. Puro come la sua anima e il suo corpo. Fu impossibile per me cancellare il suo viso: col sorriso sulle labbra, sicura di un lieto approdo. Il suo fidanzato non volle più legarsi ad altri amori perché il suo continuava a rimanergli dentro. Così pochi anni dopo la raggiunse lasciando nella terra il ricordo del loro infinito amore.

L.S.


Le scuole elementari a Rizzeddu erano al limite del quartiere, oltre il quale c’era il manicomio separato da un muro. Ogni tanto uno dei pazienti riusciva a scavalcare il muro e noi del quartiere ci godevamo lo spettacolo  degli infermieri che rincorrevano il fuggitivo di turno. Naturalmente facevamo il tifo per lui. Una cosa ho compreso solo ora: lì, in quel quartiere che sembrava dimenticato da ogni istituzione, non c’era discriminazione. I bambini portatori di handicap giocavano con gli altri, anche con i bambini più poveri. Le donne che ne avevano la possibilità davano del cibo pronto a chi non ne aveva. Mia madre era una di queste. Nelle sere d’estate si organizzavano cene all’aperto. Le lumachine con patate erano quasi un rituale e tutti mangiavano insieme. I bambini giocavano, il vino e la birra non mancavano mai e qualche signore finiva la serata facendo lo show finale. Ridere era fondamentale per affrontare una vita piena di problemi.

E.U.


Nel mio quartiere accadevano cose bizzarre. Non c’erano vie e la posta arrivava con la dicitura “Primo capannone nuovo”, o “Primo capannone vecchio” e così di seguito. Come d’incanto un giorno gli abitanti videro con sorpresa, scritti sui muri, i nomi delle vie. Molti non furono contenti di questo perché i nomi delle vie erano i soprannomi di chi ci abitava. Quasi tutti avevano un nomignolo ma di solito lo si esplicitava in sua assenza. Qualcuno all’alba cercò di cancellarli. Io so chi aveva fatto quel lavoro ma non ve lo dico!

E.U.


A Montelepre non mancavano i “personaggi”. Credo che il mercatino dell’usato lo abbia inventato una signora del quartiere, M. T. , che andava alla ricerca di indumenti usati in città, poi li metteva in un grande telo che richiudeva e portava in spalla. Era un mercatino ambulante. La signora si recava di casa in casa, poggiava il fagotto a terra, lo apriva e lasciava che il “cliente” scegliesse gli indumenti, si contrattava il prezzo, e via così tutti i giorni. Viveva di questo lavoro, fumava sempre ed era molto buona. Un altro personaggio che non ricordo così volentieri era il signor “Barba e capelli”. Ogni tanto, di domenica, si recava nelle case del quartiere – anche a casa mia purtroppo. Era un omone enorme e aveva sempre la sua valigia nera con gli attrezzi del mestiere. Maschi e femmine, tutti lo stesso taglio, con la sua macchinetta a forma di rana. Chi potrebbe averlo dimenticato!

E.U.


I giovani del quartiere a una certa età scalpitavano e a quel tempo i genitori erano piuttosto severi. Da bambina moltissime volte ho assistito a feste improvvisate nella mia casa natale, organizzate dai miei fratelli sotto la supervisione di mia madre. Così erano tutti contenti, genitori e figli. La musica era una costante: i balli lenti favorivano gli incontri ravvicinati. Chissà i miei fratelli quante cose avrebbero da raccontare rispetto a questo tema. Molti tra quei ragazzi si sono anche sposati tra loro!

E.U.


Alessandro abitava nel primo capannone, vicino al campo di calcio. Era un ometto piccolo, magrissimo, parlava pochissimo e con voce lieve. I pantaloni che indossava erano grandi per lui. Mia madre ogni tanto mi mandava da lui, a casa sua, per comperare una matassa di lana d’acciaio. Vendeva anche cartucce per pistole giocattolo, quelle di plastica che scoppiettavano. Seppi da una mia cara amica che per lui non era stato sempre così. Era nato in una famiglia benestante. Da giovane si innamorò di una ragazza e insieme decisero di sposarsi ma lei proprio alla vigilia delle nozze non si presentò. Da quel giorno Alessandro viveva così: solo e silenzioso. A Montelepre qualche bambino a volte lo scherniva, ma lui non reagiva mai. Un giorno mentre mi recavo dalla mia amica vidi fuori dalla porta di casa di Alessandro un folto gruppo di persone, molti piangevano. Alessandro si era tolto la vita, si era impiccato, credo che valga la pena ricordarlo. Dolce, piccolo e silenzioso Alessandro.

E.U.


Favore e Bolero, due gemelli, non si assomigliavano per niente a parte l’abitudine di bere. Il primo era attratto da donne molto più grandi di lui, così si diceva; il secondo – chiamato anche “Braccio di Ferro” – era stato in carcere per piccoli reati e quando si trovava in gattabuia faceva lo “scrivano”: scriveva per gli altri carcerati che non ne erano in grado. I due fratelli secondo me erano molto intelligenti e se avessero avuto altre opportunità credo non avrebbero fatto quella vita, da un bar all’altro, a lavorare di tanto in tanto in carovana. Tutti conoscevano questi due personaggi. A loro modo erano divertenti e sempre pronti alla battuta. Chissà che fine hanno fatto!

E.U.


Tanto si è detto di Peppina… “Peppina la mancanti”. Io la ricordo quando ancora era madre di numerosi figli, presa dai mille problemi che la condizione di povertà proponeva a molte famiglie. Una donna folkloristica, certo, ma di lei si sono dette cose errate. Un giorno, forse stanca di tanti sacrifici cambiò vita, cominciò a frequentare i bar e a bere. Proprio Bolero, uno dei gemelli, fu il suo compagno in quel periodo. Peppina era una donna buona, una donna che forse non ha retto alle difficoltà. La ricorderò con affetto, sempre…

E.U.


L’ironia era la salvezza degli abitanti. Gli scherzi erano all’ordine del giorno. Si rideva e spesso dentro le proprie mura si piangeva allo stesso modo, ma qualcosa univa le persone: ”quello che non ti uccide, ti fortifica”. L’intelligenza si può sviluppare, anche solo per sopravvivere. In quel luogo molti conoscevano i segreti della terra: raccoglitori di funghi, lumache, e altri frutti che la terra regala gratis. Tanti “pizzinni pizzoni” se fossero andati alle “olimpiadi di sassaiola” avrebbero certamente preso medaglie per la loro bravura. Le ex prostitute, dopo la legge Merlin, avevano trovato, forse tra i loro stessi clienti, un marito, una famiglia. Un grande contenitore di varia umanità, questo era il mio quartiere.

E.U.


montelepre5Don Pauluccio e Trimotore erano amici per la pelle, due dei personaggi più interessanti che il repertorio Montelepre poteva offrire. Il primo era napoletano, commerciante di scarpe. Rimase vedovo ma se la cavò con onore e sistemò tutti i suoi figli, sempre col commercio di scarpe. Il secondo era affetto da nanismo, con altri handicap che non gli permettevano di camminare agevolmente se non per mezzo di un bastone. Erano una coppia improbabile: il primo altissimo, il secondo minuscolo. Diventarono amici inseparabili, amici anche di sbornia. Giravano con un’ape di proprietà di Trimotore. Erano due personaggi comici, prendevano in giro chiunque, sembravano una coppia da cabaret, e avrebbero senz’altro avuto successo. Quando Don Pauluccio morì dopo breve tempo anche Trimotore lasciò questo mondo. Qualcuno disse che morì di dolore per la perdita del suo compagno di avventure. Una curiosità su questi due personaggi è che quando ai mercatini gli veniva chiesto un colore di scarpe che loro al momento non avevano, chiedevano gentilmente di tornare più tardi e nel frattempo dipingevano le scarpe che avevano per accontentare il cliente che di lì a poco sarebbe tornato. (ride, n.d.r.)

E.U.


Una cosa che, senza dispiacere, mancava nel mio quartiere era la noia. Le mamme che lavoravano durante il giorno trascorrevano quasi tutta la notte a rammendare, cucendo e creando abiti per i loro figli, facendo anche dei bei maglioni o magliette di cotone a seconda della stagione. Si iniziava presto, ci si alzava e si andava a raccogliere l’acqua alla fonte. Poi gli uomini erano tutti impegnati in lavori diversi, chi in cantiere, chi in ufficio e c’era chi andava a raccogliere lumache e bietole con i loro motorini o biciclette. montelepre4Le poche donne casalinghe litigavano alla fonte se qualcuna si permetteva di spostare la bacinella che un’altra aveva poggiato per farla riempire. A volte dovevano anche intervenire degli uomini o addirittura la polizia. Diventava una “carnevalata” e i bimbi invece che spaventarsi si divertivano. Capitava che durante i litigi le donne si prendessero per i capelli e portassero fuori casa il loro pranzo già in cottura, come per dimostrare che a casa loro si mangiava. Poi il bello era che dopo mezz’ora facevano pace e si dimenticavano quello che si erano dette prima. Allucinante! All’ora di pranzo, come per incanto, calava il silenzio…ma durava poco! I bambini non conoscevano il silenzio. Le bambine già dall’età di 7 anni sembravano donne: ognuna indaffarata nel proprio lavoro fatto di lavaggi della biancheria e pulizia della casa. Non come oggi, cariche di giochi da far paura. Per queste bambine che conoscevano la vera paura traumatica,scherzare e ridere con le amiche serviva a farle star bene. Nel quartiere si sentiva la povertà ma la fortuna era che c’era molta dignità. Alcuni capofamiglia stavano in carcere per piccoli furti ma nessuna delle loro donne andava a lamentarsi, sapendo che il poveretto stava lì dentro per cercare di far campare la famiglia.

L.S.


Credo che la tubercolosi sia stata per quelle famiglie un vero e proprio flagello! Erano veramente tante le persone che hanno fatto lunghe permanenze al sanatorio, visto che il contagio era la maggiore causa. Molte famiglie ne venivano colpite e quando capitava ai bambini era ancora più drammatico, perché in città non esisteva un vero e proprio istituto che li potesse curare, di conseguenza i malati venivano ricoverati ad Iglesias. I maschi anche a Viterbo. Capitò anche a due dei miei fratelli, allora bambini. Il ricovero per i più piccoli era chiamato “preventorio”

E.U.


montelepre2I “pizzinni pizzoni” e le piccole monteleprine crebbero, come fiori tra gli arbusti e i sassi. Credo che i fiori che crescono tra i sassi risaltino di più degli altri. Il boom economico in parte arrivò anche in quel luogo isolato. Le prime automobili cominciarono a circolare nel quartiere e anche le moto. Qualcuno si poteva permettere moto molto belle. Le minigonne e i capelli cotonati dettavano la moda del momento e, quei giovani pieni di vita e ironia “aprirono” le porte del quartiere ai ragazzi conosciuti in città. Fu un periodo molto bello, fatto di incontri, musica e risate, segno dei tempi che cambiavano, una rottura dall’isolamento finché… I ragazzi, come in tutti i tempi, ricercavano nuove emozioni e avevano preso l’abitudine di tanto in tanto di fare delle corse in moto a Scala di Ciocca, si sentivano immortali. Vi fu un incidente. Due di quei ragazzi, uno del quartiere e uno “esterno”, durante una gara con le loro moto persero la vita. Per rispetto non farò i loro nomi. Fu la fine della compagnia. Quel lutto ruppe gli equilibri e la compagnia si spaccò. Una tremenda tragedia!

E.U.


La scuola elementare era uno dei limiti di Montelepre. Era un vecchio stabile, al suo interno un cortile con un muro alto, dove facevamo ricreazione. I nostri maestri erano persone di una certa “apertura”. Avevano a che fare con bambini che avevano una visione della vita spesso cruda, a molti mancava l’indispensabile ma il mio ricordo è positivo e i miei maestri e maestre furono persone sensibili. Il dopo scuola “Cress” era distaccato dalla scuola, si trovava dalla parte opposta a essa. C’era una mensa molto particolare dal momento che le cuoche e il personale era composto dalle mamme del quartiere. Questo rendeva anche quel luogo familiare, il cibo era buono e il folklore ironico di certe mamme rendeva spesso teatrale la situazione. Anche la scuola materna si trovava nel quartiere e un personaggio in particolare è rimasto impresso nei ricordi di tutti: la Signorina Erminia. Mitica maestra della scuola materna, oltre che prendersi cura per lavoro di noi bambini, suonava la chitarra nel coro della parrocchia. Numeroso era sempre il gruppo che la seguiva, per il suo carattere gioioso e per la sua sensibilità. Era molto rispettata e godeva dell’affetto di tutti. Grande, Signorina Erminia!

E.U.  


Rizzeddu sembrava spesso un luogo dimenticato da Dio. Anche la Chiesa era parte del paesaggio, situata in un capannone, ma arrivò un parroco che sapeva far ricordare l’esistenza di Cristo. Don Villotti fu l’unico parroco che tutti amarono veramente. La domenica mattina prima della Messa dei bambini, accompagnato dai chierichetti, faceva il giro del quartiere per salutare le famiglie e prendere in consegna i piccoli. L’inizio di quella messa era sempre lo stesso: «Topolini e Topolette…» Per un po di anni sembrò quasi che la bontà di Cristo si rivelasse anche lì. Don Villotti fu chiamato per fare il missionario e se ne andò. Furono in tantissimi a piangere per la sua partenza e nessuno riuscì a sostituirlo degnamente. Qualche anno dopo, un giorno, si sentì una voce che gridava: «Don Villotti è qua!!!» Tutto il quartiere uscì di casa per salutarlo, sembrava una grande festa. Non si era dimenticato di chi lo aveva amato tanto, un saluto prima di ritornare in Africa.

E.U.


montelepre3L’educazione che si riceveva era proprio una scuola di vita. A noi bambini era permesso di andare a vedere le salme dei defunti. L’usanza era che quando qualcuno andava a miglior vita, tutti potevano andare a dare l’ultimo saluto, anche i bambini. Questo era del tutto normale e credo che forse fosse anche corretto. Serviva a esorcizzare certe paure e ad accettare quell’evento come parte della vita stessa.

E.U.


Capitava spesso che i bambini andassero a scuola da soli. In quei tempi avevamo tutti la stessa cartella di cartone. Potevamo comprarla da Signora Bonina che aveva il negozio più fornito del quartiere. L’unico problema era la pioggia. Quando quelle cartelle si bagnavano era un disastro. Quando iniziava la lezione, a volte, soprattutto i maschi, creavano disordini e non era strano trovare in classe qualche animale che faceva saltare sulle sedie i più sensibili e paurosi. Naturalmente il divertimento per i colpevoli non mancava. Sembrava che non fossero scalfiti dalle punizioni, tutt’altro. Finite le lezioni, accompagnati dalle bidelle, ci si recava al “Cress”. Si mangiava e poi ognuno di noi andava nella classe a cui era assegnato. Credo che per molti bambini quello fosse un luogo dove poter giocare con cose che sicuramente non si potevano permettere di acquistare. Il Cress era fornito di materiali vari, pongo e materiale per il disegno. Una cosa che io adoravo era che ogni anno si preparava una rappresentazione teatrale per la fine dell’anno scolastico. Fu lì che molti di noi bambini scoprirono delle attitudini – compresa me – per il disegno, per il lavoro in cartapesta e la recitazione. C’era la possibilità in quei tempi di fare la richiesta di scarpe e occhiali per i più poveri. Spesso ci si ritrovava a indossare quasi tutti lo stesso tipo di scarpe. Credo che il “diverso”, nel mio quartiere, fosse colui che non aveva certe esigenze.

E.U.


I bambini del mio quartiere erano dei veri e propri guerrieri, esperti nel tiro col “tiraelastico” e nella sassaiola. Numerose erano le rappresaglie da parte delle varie fazioni e il ricordo di una di queste mi è rimasto stampato in un sopracciglio. Mentre mi recavo da Signora Bonina per un acquisto, mi ritrovai nel bel mezzo di una battaglia e un sasso mi colpì. I responsabili in un nanosecondo si dileguarono, un proiettile che non si può definire di “fuoco amico”.

E.U.


di Benito Olmeo 
© RIPRODUZIONE RISERVATA

23 commenti su “C’ERA UNA VOLTA MONTELEPRE

  1. Ho conosciuto diversi personaggi di Montelepre; Favore, Bolero, Facci Nieddu e altri ,poi trasferitisi al Centro Storico basso.

    1. Ai conosciuto i migliori di sassari .cioe il quartiere montelepre faccinieddu, lu kriku.ed altri ancora sono quasi andatti von me a scuola il mio nome sassu giacomo fratello di mario detto focacina

  2. Nei primi anni ’70, ricordo in particolare un personaggio, noto col soprannome “l’arrotino”. Era il “terrore” di tutti noi ragazzini che abitavamo nelle nuove palazzine condominiali all’inizio di via Parigi, proprio a ridosso dei capannoni. L’arrotino aveva una certa fama di cattivo e ogni volta che lo vedevamo passare di fronte ai nostri palazzi (molte delle volte con l’asciugamano in spalla e a petto nudo diretto verso il vicino parco di Monserrato dove andava con gli amici a fare il bagno nel vecchio vascone) ce la davamo a gambe per paura che ci vedesse e venisse a darci fastidio.

  3. ,,, Ho dei bellissimi ricordi di Montelepre, è tantissimi compagni di gioco ,,,,,, ho giocato nella squadra di Montelepre ( DON BOSCO ) vincendo il campionato di calcio fgc alievi nel 1973/ 74,,,, io ero il portiere,,, ricordo una bellissima festa,,,, Montelepre rimane nel mio cuore,,,,, BELLISSIME PERSONE,,,,,

    1. non vorrei sbagliare ma la prima squadra di calcio di montelepre era la mitica STELLA AZZURRA dovrei avere qualche foto credo

  4. Io passai un mese a Montelepre da bambina,ospite di un fratello di mio padre.Ricordo un casermone enorme e tante stanze divise da tendaggi pesanti,il cemento di alcune stanze dipinto di vernice e tanti bambini e tanta allegria e le donne molto affettuose e generose.Passai un mese splendido,non volevo più ritornare a casa da mia madre che non lesinava fatiche e schiaffoni anche se avevamo una casa con bagno ed acqua.Grazie a zio Settimio e a zia Teresa e alle cugine Mariuccina e Filomena .

  5. Io sono nato a Montelepre. Era und quartiere diverso degli altri dove tutti si conoscevano. Mi ricordo quando dietro le case si giocava a lu frairi oppure quando si andava dalla vicina di casa a vedere la televisione, oppure quando si andava all’ipodromo per vedere i cavall.i PS. Grande Montelepre

  6. Io sono nato cresciuto e sposato a Montelepre naturalmente con una monteleprina.
    Ciò che manca a questa bellissima testimonianza di Rizzeddu è che durante le feste natalizie c’erano il signor Giovanni Canu con la moglie Maria che pulivano “li pedi d’agnoni”.

  7. sono nato a montelepre nel 1951 ricordo tutto della mia infanzia ma alcuni di voi che scrivete qui non li ricordo..e possibile farvi riconoscere grazie

    1. dove abitavi tu io abitavo in quel capannone con la veranda che si vede nell’ultima immagine di questa pagina

  8. Davvero complimenti per questa meraviglia di testimonianza storica! Favolosa! Bisognerebbe creare un incontro aperto a tutti gli estimatori di questi racconti storici, magari coinvolgendo la struttura del teatro S’Arza se fosse disponibile ad una cosa del genere l’associazione che lo gestisce. Dalle foto credo sia la struttura che per quanto restaurata si avvicini di più alle strutture originali.

  9. Mio padre andava a fare doposcuola ai bambini che avevano difficoltà di apprendimento ed alla fine organizzava delle partite di calcio dove faceva giocare anche me ed io mi divertivo tantissimo a giocare con tutti quei bambini perchè finalmente potevo sporcarmi di fango anche io. Ricordo benissimo l’interno di un capannone che era quello dove abitava la famiglia di Dominichino detto ‘mano nera, al quale mio padre battezzò un figlio, Leonardo, che aveva delle sorelle bellissime. Ricordo bene due stanzoni con tutti i letti e per andare in bagno si doveva uscire fuori. La moglie era una bellissima donna che sorrideva sempre. Mio padre vendeva macchine e ricordo che il gioco più bello era quando caricava in macchina tutti i bambini me compreso e ci faceva fare il giro del campo sportivo facendo i testa coda con la macchina. Mi piaceva Montelepre, mi sentivo uno di loro, però a volte mi trovavo a disagio perché ero vestito meglio di loro.

    1. io sono nata ad aglientu ma sono sempre la figlia di onorato bellezza a montelepre ci ho fatto la scuola materna , allora si chiamava asilo. la mia maestra era signorina erminia. la nostra vicina signora raimonda il marito gavino paddeu. amicissimi di famiglia erano i coroforo. ricordo sig giovannino

  10. Io non son cresciuto a motelepre ma ci o abitato per un po di anni con zio Angelino Spanu,e con zio Nicolino e zio Pauluccio cosi li chiavo mi divertivo a vedere le scarpe in piazza tola,conosco anche i figli di Don Pauluccio,tantti bei ricordi la magiorparte delle persone che vengono nominate le o conosciute tutte,e molte altre che non vengono citate

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