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di Francesca Arca

Emanuela Cau è un’artista davvero molto brava ma soprattutto originale nel modo di raccontarsi. Ha una sua identità precisa, cosa abbastanza rara di questi tempi specialmente nell’ambito della fotografia digitale. Per ora ho avuto modo di conoscere il suo lavoro solo “virtualmente” ma sarebbe interessante poterlo valutare concretamente viste le potenzialità che esprime.

Eva Czerkl, gallerista, grande esperta d’arte, e curatrice di interessanti mostre in tutto il territorio nazionale.

Prima attrice, poi regista, ora fotografa, Emanuela Cau è una donna che racconta e vive la sua storia attraverso l’arte con il coraggio di chi sa guardare negli occhi il lato più profondo di sé.

L’intervista

Osservando il tuo lavoro il primo aggettivo che viene in mente è “onirico”. C’è qualcosa che attiene al sogno?

Tutto il mio lavoro consiste nell’uscire dal razionale e immergermi in una dimensione che è molto simile a quella del sogno. Affondo nell’inconscio e lo porto a galla. Ho un rapporto ambivalente rispetto a quello che gli altri possono leggere del mio lavoro e quello che invece io faccio davvero. Non “leggo” il mio lavoro, lo vivo. Per questo motivo è sempre interessante ciò che gli altri ci vedono ma nello stesso tempo non voglio condizionare la loro percezione. L’immagine ti guida in un mondo inconscio che è importare far riaffiorare. Parto da un’emozione e da un’immagine che ho in mente e poi inizia un processo nel quale cerco di perdermi completamente e che porta alla creazione delle immagini che voi vedete.

Come sei arrivata ad essere ciò che sei ora?

Prima ero un’attrice. Sono arrivata alla fotografia successivamente. Da sempre mi muove il desiderio di vivere più storie e quindi fare l’attrice mi sembrava il modo migliore per riuscire a esprimere questa esigenza. Interpretando ruoli diversi infatti puoi fare maggiori esperienze. Aspiravo forse più al cinema che al teatro. Inizialmente questa cosa mi ha nutrita come desideravo ma poi è stata limitante, motivo per cui ho cominciato a scrivere e poi a fare delle regie. Avevo così ancora di più la possibilità di continuare il mio viaggio.

Con il tempo però anche questo ruolo mi è stato stretto. Nel mio percorso artistico ho sempre avuto molto amore per le immagini e ho scoperto che una sola immagine poteva andare ancora più a fondo nel mio racconto. Un unico fotogramma poteva narrare delle storie e darmi la possibilità di viverle. È un lavoro che faccio principalmente su me stessa. Negli autoritratti ho modo di attuare una maggiore sperimentazione. Utilizzandomi come cavia non devo rendere conto a nessuno e vivere le immagini dall’interno.

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In che modo prepari il tuo lavoro?

I miei lavori sono prima di tutto una performance nella quale fotografo ciò che accade. Preparo una scena e all’interno di questa scena creo una situazione, sistemo degli oggetti che fungano da chiave per far nascere un’emozione che ho in mente e che mi sta a cuore ma che non so dove possa portarmi. Poi preparo me stessa, sistemo la macchina fotografica e comincio a scattare ciò che vivo in quel momento. C’è in seguito tutta un’altra fase in cui mi distacco da questa mia esperienza, la riguardo e ci costruisco una storia. Prima vivo, poi rivivo quel momento.

Non so mai dove questo mi porterà. Mi mantengo sempre aperta rispetto a quello che potrò provare. Nel momento in cui scatto ci sono tante variabili che non posso calcolare e per me questo è un bene. Tutte le variabili che si introducono possono crearmi ispirazione. Sono porte che si spalancano nella direzione del mio inconscio e io lascio che affiori. E’ una cosa che mi ha sempre affascinata, da bambina e da adulta. E’ una specie di sogno ad occhi aperti.

Che rapporto hai con il tuo inconscio?

Lo accolgo. Lasciare spazio all’inconscio è stata la mia chiave di sopravvivenza. Faccio sogni terribili. Dentro i miei sogni è sempre presente una dimensione inquietante e un po’ tragica che rispecchia in parte la mia infanzia. Mio padre è andato via quando ero bambina, la mia famiglia si è sgretolata. Le strade davanti a me erano due: potevo essere schiacciata dal mio dolore oppure elaborarlo e renderlo qualcosa di bello. Ora guardo alla mia sofferenza come a un tesoro perché è un’esperienza da cui traggo comunque bellezza attraverso la creatività. Ho tirato fuori quel dolore e l’ho trasformato in gioia.

Guardarsi dentro è un atto di coraggio?

Assolutamente sì. Non mi sono mai vissuta come bella ma piuttosto come un oggetto che creava disturbo. Da bambina i miei avevano dei problemi quindi io sono cresciuta con la convinzione di non dover arrecare fastidio e questa sensazione ha accompagnato la mia crescita. Avevo paura di non essere accettata e di essere brutta. Poi ad un certo punto della mia vita mi sono messa sotto il riflettore superando la paura. Avendo coraggio. Mi sono esposta. Si è innescato un processo virtuoso che attraverso l’arte è diventato curativo, non solo per me ma per chiunque guardi il mio lavoro o venga ritratto.

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Ci sono delle difficoltà nel ritrarre gli altri?

Non ritraggo tutti. Ho bisogno di avere il tempo di conoscere le persone perché le mie fotografie sono un viaggio da affrontare insieme. Devo conquistare la fiducia totale di coloro che ritraggo perché non mi stanno donando solo il loro volto ma tutta la loro storia. Non mi interessa fare delle pose, è difficile descrivere a parole questo percorso ma è qualcosa che rimane, che trasforma e che segna. Si aprono tante porte, le une dietro le altre, e mostrano nuovi mondi e panorami sconosciuti fino a quel momento.

C’è qualche tuo lavoro a cui sei più legata?

C’è un ritratto che per me ha molto significato, uno dei primi lavori da quando ho iniziato questo percorso di ricerca. Una donna con una maschera da lupo e dietro un’altra donna senza maschera, svenuta e abbandonata. Racconta molto di ciò che mi è successo: l’abbandono della parte razionale e il risveglio del lato più istintivo, senza paura e con coraggio.

Questo tuo processo artistico è piuttosto complesso. Quanto ti stanca emotivamente?

Ogni ritratto è un lungo parto. Continuo a lavorarci finché non trovo quel qualcosa che mi metta in pace. Sicuramente è stancante ma è anche molto gratificante. Quando decido di iniziare a fare una fotografia combatto contro tantissime resistenze. Ho anche una vita privata, un compagno, un bambino e tutto quello che faccio artisticamente lo faccio quando loro non ci sono. Separo nettamente questi due aspetti. Ci vuole grande impegno per nutrire questa mia esigenza artistica perché va alimentata costantemente. Devo riuscire a mantenere un ritmo. Lavoro ogni giorno per diverse ore.

Le tue foto sono fortemente simboliche e hanno costanti richiami. Ce ne parli?

Sì, è vero. Ti faccio un esempio. In una foto c’è l’immagine di un coniglio che riporta alla dimensione del mondo di “Alice nel paese delle meraviglie”. Alice cade in un buco, quindi nel profondo. Io mi sento così, mi abbandono a qualcosa di totalmente ignoto. Poi credo che Alice simbolicamente rappresenti la bambina che ho custodito in me. Non ho avuto la possibilità di godermi l’infanzia quindi mi è rimasta una grande voglia di giocare e di perdermi nella spensieratezza. La trovo una cosa buona perché con il tempo ho imparato a dare spazio a questa bambina e a restituirle tante cose che non aveva avuto. Da piccola sono stata responsabilizzata fin da subito. Ero una bambina che si comportava come un adulta, adesso sono un’adulta che conserva e mantiene la giocosità della bambina.

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Che rapporto hai con gli altri?

In ognuno di noi è chiuso un mistero perché la vita difficile. Quando guardo il mio prossimo mi chiedo sempre: “Loro come faranno?” In qualche modo io ho il mio equilibrio anche se la mia vita può essere precaria. Mi presto a questa ricerca artistica che mi nutre dal punto di vista personale e che a volte mi dà da mangiare anche dal lato pratico. Però so quanto misterioso sia questo tentativo di trovare un modo per vivere felici. Quando faccio una mostra mi soffermo spesso, se ne ho la possibilità, sugli sguardi delle persone. Mi avvicino, faccio delle domande, mi espongo. E’ un modo per mettere gli altri nella predisposizione dello scambio, dell’ascolto, del racconto di sé.

Cosa stai organizzando prossimamente?

Sono molto felice perché tra Marzo e Aprile ci sarà una mia personale ad Oristano. Sarà al MArte e verrà curata da Flaminia Fanari con la quale ho stretto una bellissimo rapporto. A breve inoltre partirò in Bretagna dove a luglio è prevista una mostra in un faro. Per questo motivo ho deciso di visitare il luogo e fare delle foto anche sul posto. Mi attira molto l’idea di poter lavorare in un faro e poi il mare per me ha una valenza simbolica molto importante.

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