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di Benito Olmeo

Conosciamo meglio Ilaria Corda, la cui passione per la fotografia ha valicato i confini del semplice hobby dando vita a scatti che provengono dall’anima. E quindi la ritraggono.

Quando hai cominciato a fotografare e quando hai capito che questo poteva essere il tuo punto di partenza per una prospettiva futura?

Sono sempre stata affascinata dal mondo della fotografia e fin da piccolissima mi piaceva osservare mio padre scattare a livello amatoriale con la sua Contax. Il momento che mi rapiva di più era il cambio del rullino, quel piccolo potenziale serbatoio di ricordi. Alle medie ho desiderato e ricevuto una piccola Kodak a rullino, che conservo ancora gelosamente perché con quella ho fatto i miei primissimi scatti. Ma se mi si chiede quando ho davvero cominciato a fotografare, dobbiamo spostarci molto più avanti nel tempo. Potrei dire 2013… ma non è mai facile definire il momento esatto in cui ci si innamora: capire se è infatuazione o se hai trovato chi vorresti rimanesse con te per tutta la vita.

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Al giorno d’oggi la fotografia è un mezzo accessibile praticamente a tutti. Pensi che questo fenomeno del digitale abbia in qualche modo messo da parte i professionisti?

Non bisognerebbe mai perdere l’occasione di ricordare che non è la Reflex che fa il fotografo. Quando mi appellano come fotografa, puntualizzo sempre «Sono una farmacista». E dico “sono “ e non “faccio”, perché gli anni passati tra le aule e i laboratori di Chimica e Tecnologia Farmaceutiche e successivamente la Specializzazione in Farmacia Ospedaliera, mi autorizzano a sentirmi una figura professionale. Non posso permettermi di dire che sono una fotografa. Non è umiltà, è un dato di fatto. Il digitale penalizza il professionismo? Potenzialmente si. L’immediatezza del digitale è andata a discapito della cultura, della tecnica, del sacrificio che ha conosciuto chi proviene dal mondo analogico. In tutti i campi, direi. Ma dobbiamo vivere i nostri tempi e la tecnologia avanzata non potrà mai mettere da parte i professionisti. L’improvvisazione non ha forze per stare in piedi a lungo. È importante però non confondere il professionismo con il tiro emozionale. Potrebbe emozionare più una mia foto di quella di un professionista del settore. Ma essere professionisti significa assecondare esattamente le richieste di un progetto o di un committente, nel modo che la situazione richiede. Significa sapersi adeguare a situazioni diverse in modo diverso. Nell’arte “arrivare con l’emozione” potrebbe sopperire alla tecnica, a volte anche surclassarla. Puntare sull’emozione per me significa aprire le braccia, agitarle e scoprire se rimarrai inchiodato a terra, se spiccherai il volo, se cadrai rovinosamente al suolo. Nel professionismo ci vuole il paracadute. Meno poetico delle ali, ma ti assicura l’atterraggio.

Il primo scatto che hai eseguito lo ricordi? Ha rappresentato lo spartiacque per il tuo futuro?

Il primo scatto… così come nella vita ci sono tante prime volte, penso che anche in fotografia ci siano tanti primi scatti. Con la già citata Kodak a rullino nella gita delle medie, a Firenze, avevo fatto uno scatto da un Belvedere della città. Non era male, sembrava quasi una cartolina. È stato uno spartiacque per il futuro? Oggi posso solo dire che è il tipo di fotografia che non faccio nemmeno con lo smartphone. Viaggio molto, ma le classiche foto da turista non le faccio mai. Mi catturano gli sguardi, le espressioni, i comportamenti della gente, le culture diverse, le storie che vedi dietro il gesto di una mano, scene che si consumano in pochi secondi e quello che hai scattato in quell’istante l’hai saputo prevedere perché non c’era prima e non ci sarà un attimo dopo. La Street photography è stato il mio primo vero amore. Lo è ancora. Nessuno ha preso il suo posto, ma forse “si è allargata la famiglia”. Se però penso realmente a quali sono state le mie prime foto… sono foto di scarpette di bambina, poggiate su un’altalena, su uno scivolo, su un dirupo. Il mio approccio alla fotografia è stato questo. Terapeutico. Ho scelto un mondo che mi facesse esorcizzare il dolore, il dispiacere, tenere un ricordo triste di un momento difficile,
ma addolcirlo. Ho trovato questo mondo dentro il mirino di una reflex. C’è un’altro primo scatto. L’autoritratto di una mia cicatrice. Lo accompagno sempre ad una frase di Khalil Gibran: «Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici.» Gli ultimi anni della mia vita sono stati minati da problemi di salute che mi hanno tolto tanto. Ma non vivo di rassegnazione. Vivo di accettazione e della consapevolezza che ognuno può essere artefice della propria condizione. Questo scatto che simboleggia proprio la rinascita è stato il motore propulsivo per una ricerca interiore.

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Ora ti concentri soprattutto su autoritratti. È un mondo che mette in evidenza i tuoi lati nascosti con messaggi criptici o è solo una questione di canoni di bellezza?

Questa fase della mia vita è dedicata agli autoritratti. Scavo dentro di me e tolgo fuori emozioni e sentimenti reconditi. Viene spesso fuori un mood dark e malinconico, attraverso ermetismo e simbolismo. Ma questa ricerca smuove i compartimenti dell’anima e dagli spiragli viene fuori una bellissima luce. A volte nelle mie rappresentazioni cerco di “imbruttirmi” dentro e fuori per fare emergere il contrario. Faccio fatica a parlare di canoni di bellezza: troppo difficile per me racchiudere in una definizione un ideale estetico. Trovo facile invece apprezzare le cose per differenza. Vedo la luce per contrasto con il buio, sento il caldo per contrapposizione al freddo, il release dopo il dolore, e ciò che per me è bello emerge maggiormente vicino a ciò che per me è brutto.

Quanto pensi che la fotografia abbia influito nella tua vita e nei tuoi lati più intimisti?

Non ho il dono della sintesi, ma qui sarò breve. È stata fondamentale.

Cosa è per te la fotografia?

Vivo la fotografia come una scelta. Non devo fotografare, scelgo di fotografare quando ne sento l’esigenza. È la chiave che mi conduce in altre stanze dove porto solo la mia compagnia. È un altro tempo, è un altro luogo, è fuori dal tempo e da ogni luogo, in realtà. Nel mio album preferito, Battiato dice «No time, no space, another race of vibrations.» Ecco, la mia fotografia sta lì, dentro questa frase.

Un sogno nel cassetto che vorresti si avverasse?

Vorrei vivere la fotografia sempre come la vivo ora, con la libertà di decidere quello che voglio rappresentare, senza scendere a compromessi. Posso permettermi di farlo perché scatto per me stessa, non per committenza. Ma qualora dovesse instaurarsi questa condizione/interazione sogno di non perdere mai la determinazione di esprimermi attraverso il mio gusto, la mia personalità e la mia cifra stilistica. Sembra una cosa scontata, ma se mi guardo attorno vedo che non lo è.

«Chi vede correttamente la figura umana? Il fotografo, lo specchio o il pittore?» Questa domanda di Pablo Picasso penso possa rappresentare il sunto di quanto ci siamo raccontarti. Cosa ne pensi?

Credo che per quanto sia posto come interrogativo, questo aforisma non preveda risposta. Personalmente, vorrei essere un po’ specchio per vedere la figura umana anche con gli occhi degli altri, vorrei essere un pittore per rappresentarla a colori e in tutte le sfumature dopo un’attenta osservazione, vorrei essere fotografo per fissare le sue ombre e le sue luci in un carpe diem.

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