Paolo Salaris ha regalato alle nostre pagine un affettuoso ricordo del grande Ginetto Ruzzetta.
Era il 1988, forse nel mese di marzo. La Compagnia Teatrale “Nuovo Sipario ’78”, di cui ho fatto parte dalla fondazione fino alla chiusura avvenuta nel 2008, compiva dieci anni di attività e, per festeggiare la ricorrenza, si pensò di organizzare una “tre giorni sassarese” al Teatro Civico di Sassari. Le serate consistevano nel mettere in scena alcune fra le più famose “gobburi” in vernacolo sassarese, e nella lettura di poesie (sempre in sassarese) da parte di cultori e studiosi della nostra lingua, fra i quali Francesco Cosso (noto conduttore radiofonico) e il Dott. Salvatore Luiu. Durante le serate, inoltre, si svolgeva un dibattito sulla lingua sassarese e sull’uso che se ne faceva nella vita quotidiana e in campo artistico. Moderatore fu il compianto Prof. Leonardo Sole. A legare le varie fasi in cui si articolavano le serate fu chiamato il noto cantante, autore e poeta Ginetto Ruzzetta, il quale si presentò accompagnato dal fratello. Gli spettacoli ebbero grande successo di critica e di pubblico. Ma aldilà del gradimento, mi colpì l’entusiasmo che suscitava Ruzzetta non appena si apprestava ad eseguire un brano, sia che si trattasse di un brano strumentale per accompagnare la lettura di una poesia, sia che si trattasse di una delle sue famose canzoni. Durante la serata, poi, era prevista una pausa con intrattenimento dei due musicisti. Fu proprio durante la prima di quelle serate che Ruzzetta presentò in pubblico per la prima volta (così mi disse) la canzone “Ippuntinu” conosciuta anche come “Ziminadda”, un blues sassarese di così grande effetto che le sere successive il pubblico chiese a gran voce l’esecuzione del pezzo e numerosi bis . Qualche giorno dopo, mi recai a casa di Ginetto Ruzzetta – allora abitava in via Napoli – per la compilazione del programma musicale delle serate da consegnare alla Siae. Mi accolse con grande cortesia e gentilezza e, chiamandomi “maestro”, mi fece accomodare in una stanza che sembrava una sala di registrazione.
Ed infatti, mi spiegò che in quella camera aveva, oltre a numerosi strumenti, una serie di apparecchiature in grado di eseguire le registrazioni. «Spesso compongo qui» mi disse. Ma la cosa che mi lasciò interdetto fu l’umiltà di Ruzzetta. Aveva già dimostrato in teatro di aver apprezzato il lavoro della Compagnia, ma quando mi sentii chiamare “maestro” pensai : «Chisthu m’è pigliendi pà lu curu!». Invece no. Lui così bravo, così “scafato” nel mondo dello spettacolo, così abile a trascinare il pubblico, si spendeva in complimenti e congratulazioni sincere con un “ragazzo” trentenne, mostrandosi semplice, umile e modesto come solo i grandi artisti sanno essere. Prima di congedarmi mi fece graditissimo omaggio della musicassetta contenente il brano già citato. Da allora ebbi il piacere di incontrarlo in altre occasioni. L’ultima volta non stava bene, aveva già avuto problemi di salute. Però lo voglio ricordare come lo vidi in casa sua: sorridente, gentilissimo, affabile e affettuoso.