Considerato uno dei maggiori artisti della sua generazione, è un baritono eclettico, dalla voce morbida e potente, che, nel corso della sua folgorante carriera, ha interpretato oltre settanta ruoli da protagonista nei maggiori teatri del mondo. Il suo vastissimo repertorio che spazia da Monteverdi sino a Dallapiccola,
pone particolare attenzione al periodo tardo ottocentesco. Oltre agli studi universitari letterari, ha conseguito un brillante diploma, col massimo dei voti, al Conservatorio di Musica di Verona. In seguito ha avuto modo di perfezionare lo stile e la tecnica verdiana con uno dei suoi massimi esponenti: Carlo Bergonzi. Il suo debutto internazionale si può far coincidere con l’acclamata interpretazione di Renato in Un ballo in maschera che ha inaugurato la Stagione 1988 dell’Arena di Verona. Ha calcato molteplici volte il palcoscenico del Teatro alla Scala e, sotto la direzione di Riccardo Muti, ha interpretato diversi ruoli, fra i quali: Macbeth, Rigoletto, Conte di Luna (inaugurazione anno verdiano), Otello. Sempre sul palco scaligero ha interpretato tre edizioni di Rigoletto, Madama Butterfly, Ulisse di Dallapiccola, Andrea Chénier, Otello, ed in tournée a Tokyo le produzioni scaligere di Rigoletto, Macbeth, Otello. Ospite regolare della Wiener Staatsoper ha preso parte a numerose produzioni, fra le quali: La Traviata (due edizioni), Nabucco (tre edizioni), La forza del destino (due edizioni), Tosca. Ha cantato, inoltre, nei maggiori teatri italiani ed internazionali fra i quali: Carnegie Hall di New York (Otello a fianco di Carlo Bergonzi), Opernhaus di Zurigo, Deutsche Oper di Berlino, Real di Madrid, Liceu di Barcelona, New Israeli Opera di Tel Aviv, Maggio Musicale Fiorentino, Arena di Verona, Opéra de Montecarlo, Opera di Roma, Regio di Parma. Ha collaborato con importanti direttori d’orchestra, fra i quali: Gary Bertini, Roberto Rizzi Brignoli, Riccardo Chailly, James Conlon, Zubin Mehta, Riccardo Muti, Daniel Oren, Carlo Rizzi. La carriera di Alberto Gazale non conosce soste e riceve riconoscimenti da tutto il mondo, grazie anche alle spiccate doti attoriali che lo rendono uno degli interpreti più apprezzati sia dal pubblico che dalla critica. Nel settembre 2012 ha ricevuto il Premio speciale ”Ettore Bastianini” a Siena. Nel corso della Stagione 2012-2013 ha interpretato Cavalleria rusticana e Pagliacci al Comunale di Bologna, La fanciulla del west (Jack Rance) all’Opéra de Montecarlo, Il Corsaro (debutto nel ruolo di Seid) al Verdi di Trieste, Rigoletto (protagonista) al Carlo Felice di Genova, Cavalleria rusticana (Alfio) al Mikhailovsky Theatre di San Pietroburgo e al Festival Puccini di Torre del Lago. Fra i suoi prossimi impegni figurano: Andrea Chénier alla RoyalSwedish Opera di Stoccolma, Il Trovatore a São Paulo e Pagliacci al Petruzzelli di Bari.

Quando nasce la tua passione per la musica e, in particolare, per quella classica?

Nasce dall’amore verso l’espressione artistica in senso generale; direi sollecitato da un interesse di tipo intellettuale ancor prima che da un istinto. Convivo con un vulcano interno, sempre acceso, che trova la sua forma espressiva nel teatro. A volte in certi individui, penso la maggior parte, esiste un’esigenza di esprimere il proprio animo attraverso forme alternative rispetto alla parola. Oggi non faccio fatica a parlare in pubblico ma un tempo convivevo con una discrezione esagerata imbevuta di timidezza. L’incontro con l’arte mi ha guarito ma non lo posso datare, viviamo in Italia e tutto parla d’arte. Io, come un curioso instancabile maratoneta, ho sempre orientato la mia attenzione sulle cose belle. Oggi, prossimo ai 50 anni, sento che il mio percorso non è stato vano e ancora mi sento ai blocchi di partenza pronto per nuove sfide e nuove conoscenze. La possibilità di perlustrare nuove vie e nuovi orizzonti è la vera salvezza per l’anima.

Ci racconti il tuo rapporto con la città di Sassari?

Rapporto meraviglioso: ho tanti amici e soprattutto una grande e meravigliosa famiglia che mi sostiene e supporta da sempre e per sempre. Ho due genitori stupendi e quattro fratelli insostituibili ognuno realizzato e grande nel suo campo. A loro spesso chiedo soccorso per le mie coraggiose iniziative e loro sempre pronti, instancabili mi offrono il loro aiuto e le loro competenze. Quando posso cerco di coinvolgerli e quando riesco nell’intento sono l’uomo più felice del mondo. Quanto alla città in senso stretto la conosco bene, anche se sono andato via praticamente da più di trent’anni ma ancora mi sento cittadino sassarese e porto con orgoglio la mia ‘sardità’. Vorrei forse una città più attenta alla sua cultura con meno complessi d’inferiorità ma resta un mio pensiero. Ho sempre immaginato Sassari come punto strategico del mediterraneo e sogno investimenti culturali che possano per una volta dare un’identità forte a tutto il territorio. Sono artefice e direttore artistico di un grande progetto, ‘Le terre del sole’, che da Efeso, in Turchia, spazia in alcuni dei luoghi più suggestivi del mediterraneo tra i quali anche l’incantevole teatro greco di Taormina e le serate Borgiane nel Lazio. Ecco, vorrei che anche Sassari potesse essere fra queste ma per fare ciò avrei bisogno dell’interesse della politica e del mecenatismo, che oggi sembra poco incline a scommettere in grandi progetti culturali.

Definito dalla critica all’unanimità “il baritono verdiano erede della scuola italiana”, ci spieghi questo legame che ti lega in modo indissolubile alle opere del Maestro Giuseppe Verdi?

Le definizioni per un’artista lasciano il tempo che trovano, la mia voce ha trovato in Verdi un compositore ideale ma con la maturità ho accresciuto il mio interesse per la parola cantata nelle sue forme più estese. Verdi per un baritono è colui che ha regalato i personaggi di maggior spessore drammaturgico e ritengo che poter cantare le opere verdiane sia semplicemente un assoluto privilegio. Scavare la parola è un processo interminabile che evolve con te. A lui devo alcune delle mie più riuscite interpretazioni.

Allievo del maestro Carlo Bergonzi, compi il tuo debutto nel 1998 al Teatro Regio di Parma interpretando Un ballo in maschera. Sembra un destino scritto, ci racconti le emozioni e le sensazioni di quel debutto?

Bellissima domanda, faccio coincidere questo evento col mio debutto solo perché è l’opera
che mi ha lanciato a livello internazionale ma in realtà il mio debutto era avvenuto molti anni prima, a soli 23 anni. Quanto a questo ‘Ballo in Maschera’ sono stato scelto dal M° Daniel Oren per inaugurare l’Arena di Verona in un periodo in cui l’Arena era L’ARENA e il solo scorrere i nomi in cartellone dei protagonisti era da brivido. Io, fresco dal debutto parmigiano, mi ritrovai in scena davanti a 15.000 persone a giocarmi in poche ore tutto il futuro professionale. Le gambe non hanno tremato, mi sono buttato con tutto me stesso e la mia vita è cambiata. A Carlo Bergonzi devo tutto il patrimonio tecnico che mi ha consentito di debuttare oltre 75 ruoli da protagonista e di cantare ancora dopo 30 anni di carriera con lavoce che mi sostiene come il primo giorno. Se ci legge da lassù vorrei che gli arrivasse ancora il mio umile ‘grazie Maestro’.

Da lì in poi è stata un’escalation vorticosa che ti ha portato a calcare tutti i più importanti palcoscenici al mondo: dal Teatro alla Scala sotto la direzione di Riccardo Muti, al Carnage Hall di New York (Otello a fianco del tuo maestro Carlo Bergonzi), Opemaus di Zurigo, Deutsche Oper di Berlino, Arena di Verona, New Israel di Tel Aviv… le varie culture, le persone, cosa vuol dire confrontarsi con loro, non solo a livello artistico?

Questo è l’elemento cardine della nostra vita da artisti erranti: esplorare e condividere con culture diverse un linguaggio universale che unisce anziché dividere. Questo è incontrovertibilmente un miracolo in un tempo in cui le etnie faticano a confrontarsi persino su un piano di semplice accoglienza umana. Posso dire di avere girato gran parte del mondo come portavoce della cultura italiana e sempre ho trovato umanità, ammirazione e calore che credo di aver ricambiato con un atteggiamento sempre rispettoso degli altri. La musica ha tra le sue peculiarità un forte potere educativo in quanto è impossibile praticarla in solitudine. Hai bisogno degli altri e di un pubblico disposto ad ascoltarti. Si tratta di una forma elevata di condivisione spirituale.

Sei un interprete molto versatile: da “I Puritani” a “Lucia di Lammermoor”, da “Nabucco” a “Otello”, fino ad arrivare a “Pagliacci”. Tecnica, versatilità, studio, ma possiamo aggiungere tanta passione. Tutti elementi fondamentali?

Lo studio soprattutto, che non è mai mancato nelle mie giornate. Non mi sono accontentato di praticare i ruoli a me più congeniali, ho esplorato instancabilmente vari repertori accrescendo la mia cultura generale per poi, oggi, ovviamente preferire quei personaggi che meglio mettono in luce le mie qualità. Tra un’opera già cantata e un ruolo nuovo ho sempre scelto la seconda opzione e oggi mi ritrovo tutto come patrimonio che mi torna molto utile praticando le altre mie attività di insegnante e regista. La versatilità invece penso che provenga da una tecnica consolidata, necessaria per non morire artisticamente quando il tuo strumento dovrebbe dare il meglio. Una cattiva tecnica logora lo strumento (due centimetri di corde vocali), bisogna saper attendere e avere l’intelligenza sempre di ascoltare la propria voce e assecondarla nella sua evoluzione. A 50 anni un baritono è al top della maturità e non deve più commette errori.

Dostoevskij diceva la bellezza salverà il mondo. Ovviamente non si riferiva all’aspetto estetico. Non pensi invece che oggi anche nell’arte, si badi troppo all’aspetto esteriore e il resto passi in secondo piano?

Mah, non è che tutto il moderno brilli per bellezza, forse è illuminato ma quella luce è spesso finzione. Tutto è molto fragile, passeggero e posticcio, triste segno dei tempi. La bellezza alla quale alludeva Dostoevskij è altra cosa. Qualcosa di più profondo di quello che si mette in mostra oggi. Siamo minacciati dal consumismo estetico fine a se stesso, visto che quello economico viene nascosto e proibito. Dura il tempo di uno scatto. La bellezza in senso più elevato è qualcosa di durevole che aumenta con l’aumentare degli anni e che, anzi, spesso si scopre troppo tardi. La bellezza è percepita attraverso il cuore e la sensibilità prima che dagli occhi. Non c’è artista senza corsa disperata verso due cose, bellezza e poesia. Ma la bellezza, come le donne e l’intonazione dei contrabbassi (cit. Toscanini), non basta una vita per capirle.

Come sono cambiati la lirica e il teatro in questi anni?

Purtroppo questa è una domanda che speravo non mi facessi. Siamo in un momento di crisi profonda. Un piano inclinato in cui è difficile andare nella direzione giusta. Salire è faticoso ma è l’unica strada. Scendere in campo per operare culturalmente oggi è necessario per qualsiasi artista. Non c’è arte senza costruzione. Il teatro e la musica sono stati oggetto, negli ultimi anni, di continui attacchi. Tutte le cose in Italia hanno bisogno di riforme ma ai tagli crudeli ed insensati non hanno corrisposto modifiche al sistema. Chi mangia dalla cultura non sono certo gli artisti, che spesso sono solo vittime di un ritorto conflitto di poteri. Dalla cultura si può e si è sempre generato profitto in termini assai più profondi di ciò che si immagina. I territori che scommettono in cultura vincono a patto che nelle direzioni ci siano persone valide, capaci ed oneste. Io conosco bene il mondo del teatro e credo che le soluzioni esistano eccome. Ma è assai difficile far sentire la propria voce in un mondo sordo e talvolta irridente, e soprattutto presupponente.

E proprio in tema, cosa ne pensi della rivisitazione di molte opere liriche in chiave post moderna? Non pensi che il classico debba rimanere classico?

Tornando al discorso del bello, lo spettacolo si divide in due: cose belle e cose brutte. La modernità della tecnologia odierna fa impallidire i vecchi sistemi scenici dei teatri ma se ad usarli non sono le persone giuste, ecco che il disastro avviene per certo. In troppi, negli ultimi anni, si sono improvvisati nel mestiere di regista e scenografo, terra di nessuno entro la quale abbiamo visto tanti spettacoli penosi. Se non so fare nulla faccio il regista: sbagliato! Lì possiamo individuare i veri scandali e i veri sprechi dell’opera. Costosi orrori consumati nel tempo di una sola produzione. Tante regie moderne, invece, sono intelligenti e rispettose sia dell’autore che del pubblico. Non esiste, quindi, una posizione univoca rispetto alla tua domanda, esistono infatti anche spettacoli tradizionali bruttissimi. Ciò che duole, viceversa, è vedere registi ridere dei fischi e dei “buh” del pubblico indignato e poi essere scritturati o autoscritturati per altre bruttissime produzioni. Il rispetto per il pubblico dovrebbe essere la base di partenza pe rogni processo creativo, il resto è finta moda della quale non resteranno che brutti ricordi. Un teatro vuoto è il segno più drammatico e tangibile di scelte sbagliate.

Prima di farti l’ultima domanda volevo chiederti, da concittadino, come mai non vediamo spesso Alberto Gazale esibirsi nei teatri della Sardegna?

Beh, non sono io che mi scritturo. Al lirico di Cagliari, l’anno scorso, ho cantato ben due titoli importanti: Aida e Nabucco. A Sassari manco da molto tempo ma purtroppo ho il difetto di dire sempre, con grande onestà intellettuale, quello che penso e non è una buona strategia per cantare nella mia città. Il mio amore per lo straordinario pubblico sassarese non muta, ed anzi io faccio il tifo per il mio teatro e vorrei che crescesse sempre più proprio perché ha un pubblico speciale, colto e preparato.

Quando levi le varie maschere di scena, ti siedi davanti allo specchio del camerino e sei solo tu e il tuo viso che riflette, ti capita mai di porti la domanda: chi è in realtà Alberto Gazale?

Alberto è solo un cantastorie che abbraccia le sue valigie e cerca di portare nel mondo un sorriso e un messaggio di pace. Quando si guarda allo specchio vede una persona che ha fatto mille errori ma che non ha rimpianti e che pensa di essere stato molto generoso con tutti e di aver ricevuto assai più di ciò che ha dato: un amore immenso dal pubblico di tutto il mondo.

di Benito Olmeo
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