Nato a Sassari nel 1948 in una famiglia modesta come tante dopo la seconda guerra mondiale, vive tuttora nella sua città dove ha studiato fino al conseguimento del diploma presso il Liceo Classico Azuni. Laureato all’Università di Sassari in Scienze Biologiche, Fisiche, Matematiche e Naturali, svolge diversi lavori: dall’insegnamento nelle scuole medie inferiori all’attività presso diverse compagnie di assicurazione, fino a trovare il lavoro che lo accompagnerà per tutta la propria vita professionale come Informatore Medico Scientifico per una nota multinazionale (lavoro, questo, che lo condurrà in viaggio per tre diversi continenti). Da ragazzino coltiva le sue due grandi passioni: la musica e la scrittura. Apparentemente stabile, posato e razionale, si caratterizza per essere uomo in perenne ricerca e cambiamento, sentimenti che riversa in canzoni e poesie fino all’età della pensione. Padre di due figli, sposato e poi anche separato, dedica il suo tempo alla scrittura di racconti e romanzi dalla forte caratterizzazione intima e personale. Dal 2010 a oggi vengono pubblicati 6 suoi lavori: “Non avrò altro Dio”, “Alla ricerca di un lampo ascendente”, “Aìram”, “La canzone di Andrea” e, entrambi nel 2016, “Io, Dio e lo Sciamano” e “Il viaggiatore”. Dice di sé stesso che non è mai stato eccellente in nessuna attività, ma fiero di aver fatto tutte le cose solo per conoscere il mondo e se stesso. Ha tanti progetti ancora da perseguire, con la curiosità e la sincerità di un bambino di 70 anni…

 

Proponiamo alcune riflessioni di Livio Cossu. Il brano è tratto da un suo lavoro del 2010 intitolato “Non Avrò Altro Dio”. Si tratta di una biografia romanzata, densa di pensieri, quasi un flusso di coscienza che l’autore trasferisce su carta per regalare al lettore i suoi sentimenti più profondi e condividere con lui la sensazione che le diverse esperienze di vita umane siano forse legate da sottilissimi, impercettibili fili rintracciabili, più che nelle parole, in quella regione del pensiero che si fonde con lo spirito.

Via Nurra era una strada nel quartiere di Monte Rosello, il quartiere popolare di Sassari, in periferia. Per andare in città bisognava attraversare il Ponte del Rosello, chiamato allora semplicemente “Il Ponte”. Ancora le strade del quartiere, tranne pochissime, non erano neanche asfaltate. Via Nurra, io nacqui al secondo piano, quarto di quattro fratelli maschi. Non passavano mai automobili nella nostra strada, solo il carretto dell’arrotino e talvolta il venditore di pesce fresco e a prezzo stacciato. Una volta al mese il da noi chiamato “Paracquidaccunzò”, che era il suo grido di battaglia, il riparatore di ombrelli. Della mia infanzia in età scolare, avevo 8 anni, ricordo soprattutto i lunghi inverni. Non eravamo di certo ricchi, la casa era fredda, a volte le lenzuola erano umide come le coperte, durante l’inverno, spesso ci si ammalava, una bronchite, un raffreddore o un’influenza, quando arrivava. Non avevo mai visto la neve: ne vedevo la descrizione nei libri di scuola, ne immaginavo il profumo nei canti di Natale, poi un giorno arrivò… La neve scendeva a fiocchi grossi come farfalle, era il ’56. Avevo la febbre alta e non potevo andare giù in strada a rotolarmi in quella meraviglia, mi attaccavo col naso ai vetri della finestra e guardavo i miei fratelli e gli amici che giocavano con la neve, mentre mia madre in cucina diceva: «Speriamo che finisca presto…». Io non ero d’accordo, volevo che durasse finché io potessi star bene e tuffarmi in quel soffice manto bianco che aveva coperto i tetti delle case e le strade, e invece la mia febbre e la mia malattia mi fecero sentire per la prima volta nella vita il sapore dolce e amaro delle occasioni che arrivano e che si perdono, del tempo che passa, la nostalgia di un ricordo, di un desiderio e l’impossibilità di realizzarlo… Sentivo il profumo del minestrone con i cavoli che arrivava dalla cucina dove mia madre si dava da fare, mentre il vapore che usciva dalle mie narici si condensava sui vetri della finestra affacciata sulla strada e componeva rivoli e fiumi che poi scorrevano giù verso un mare di nulla, lo stucco di un vetro malfermo che per me era una montagna e… io ero lì, dietro quei monti a meravigliarmi del bagliore lucente in un cielo grigio, neve, e di nascosto aprii la finestra, respirai quell’aria fredda e pungente… e misi la mano destra col palmo aperto verso il cielo per raccogliere quei fiocchi grandi che venivano giù, ma forse la mia mano troppo calda di febbre o la loro danza troppo lenta li trasformava subito in gocce d’acqua, senza possibilità di tornare indietro. Finita la magia. Forse allora cominciai a capire che tutto ciò che appare bello così bello non è nella realtà, e ciò che si desidera troppo fortemente non è poi così desiderabile. E che ognuno si fa mille idee su come è la vita, e per vita intendo ciò che ci sta intorno, e poi basta un fiocco di neve che si scioglie nella tua mano aperta verso il cielo in cerca di meraviglia per ritornare alla realtà della tua febbre a 40, di una tua malattia a farti riconsiderare stupenda la sicurezza di quel profumo di minestrone con i cavoli che arriva dalla cucina. E di certo quei rigagnoli formatisi sui vetri dal vapore del mio respiro non erano né ruscelli, né torrenti o fiumi, e non erano frutto del mio pianto. Non avevo pianto, non l’avrei mai fatto per quella stupida neve. Lo avrei fatto forse per quel magico silenzio, che prima o poi sarebbe finito, per la mia impossibilità di essere in strada, in mezzo alla bufera, di disperarmi o ridere, di sbattere contro un muro di neve e mattoni. E più avanti, nella vita, di parole dette e non dette, la sensazione di esserci e non esserci, la voglia di urlare e stare zitto, di fare un passo indietro e uno avanti, cercando di capire davvero chi sono. E sapere in fondo se la mia libertà è la mia solitudine o se la mia solitudine è la mia vera libertà…

Da “Non Avrò Altro Dio”, pubblicato nel febbraio 2010.

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