La Sardegna è una terra antica che affascina e conquista. Come una strega, quest’isola sa incantare lo sguardo di chi la osserva. E’ una terra che da sempre si nutre della magia della bellezza e del mistero. Sono tante le tradizioni che porta con sé, spesso così antiche da non avere più memoria dell’origine. Culti pagani e propiziatori, legati alla vita nei campi e allo scorrere delle stagioni, cambiano veste nel corso dei secoli, mescolandosi alle nuove radici di matrice cristiana e sfumando i contorni più remoti per rendersi rassicuranti. Fate, folletti e spiritelli animano l’immaginario ancestrale, scolpendo in ogni pietra i personaggi di quella che appare quasi una incredibile saga fantasy: le volubili “janas” – minuscole fate che tessevano tessuti fantastici grazie ad un telaio d’oro – le terribili “sùrbiles – vere e proprie donne vampiro alla ricerca di neonati di cui cibarsi – le “panas” o “paltuggiane” – anime delle donne morte durante il parto, condannate a vivere vicino alle fontane e ai corsi d’acqua per lavare in eterno i panni dei loro bimbi. Si attribuiva alle “panas” la causa dell’insorgere di eritemi o macchie della pelle poiché si credeva che scacciassero i passanti spruzzando loro dell’acqua che a contatto con la pelle diventava incandescente. Spesso usati come spauracchi, questi esseri fantastici che dominavano le forze della natura, non di rado venivano utilizzati per scoraggiare i bambini più temerari. L’esempio più classico è forse quello della “mamma del sole”, spirito vagante che avendo perso il proprio figlio, avrebbe rapito qualsiasi bambino che si fosse avventurato fuori casa negli orari più caldi della giornata. Il modo più efficace per neutralizzare le conseguenze malevole di queste creature sovrannaturali risiedeva nel paziente compimento di rituali complessi, accompagnati da orazioni e preghiere per ingraziarsi la benevolenza e l’aiuto dei santi.
Ci si rivolgeva così alle persone più anziane, considerate depositarie di saperi remoti, o ai loro familiari a cui venivano tramandate queste antiche pratiche apotropaiche. Sassari e il suo territorio non fanno eccezione. Abbiamo parlato con la signora Barbara Livesi che ha avuto modo di raccontarci alcuni ricordi legati alla sua famiglia, originaria del centro storico cittadino: « Sassari, come tutta la Sardegna, ha una antica tradizione di credenze e leggende legate all’occulto. Anche nella nostra città, come in tutto il territorio, si praticava ad esempio la cosiddetta “medicina dell’occhio”.»
Con la locuzione “mettere occhio” si intende ancora adesso l’intenzione malevola di cagionare la sfortuna altrui attraverso lo sguardo. E’ un misto tra cattiveria ed invidia che va ben oltre il consueto concetto di “sfortuna” ma che è più vicino ad una sorta di maledizione o fattura. L’unico rimedio per sottrarsi alle sciagure era quello di affidarsi agli antichi rituali. «Le donne della mia famiglia erano state iniziate a queste pratiche secolari. – continua Barbara Livesi – Di mia nonna, Salvatorica Ribichesu, non ho ricordi diretti ma so che a mia madre, Lucia Sanna, fu insegnata la “medicina dell’occhio” all’età di tredici anni. La tradizione che conosco vuole che si possa tramandare solo il giorno di venerdì santo. Si ha tempo fino alla mezzanotte per imparare a memoria una preghiera scritta in un foglio che poi va conservato per un anno intero. Si usa dell’acqua e una pietra molto antica. Io ne possiedo ancora una che dovrebbe avere almeno centotrenta anni. Ha l’aspetto di una sorta di fossile marino.» E se la “medicina dell’occhio” – con le differenze che variano a seconda del luogo e delle persone che l’hanno praticata – è comune a tutto il nostro territorio, c’è un personaggio che è invece tipicamente sassarese: «Ricordo ancora i racconti sul “Pindaccio”. Si diceva che fosse una specie di folletto con un cappello rosso sulla testa che si mostrava solo ogni tanto. Chiunque fosse riuscito a rubagli il capello sarebbe diventato ricco, in cambio però di un pegno molto gravoso: il Pindaccio infatti avrebbe preteso un arto o comunque un pezzo del corpo di un familiare o di una persona cara e in ogni caso avrebbe perseguitato quella persona con continui dispetti.» Probabilmente a causa di questa leggenda il termine “pindaccio” è diventato sinonimo di “iettatore”.
La signora Livesi ci riporta un’altra curiosità legata ai racconti che si tramandavano in famiglia, parlandoci dell’abitudine di nascondere lame e coltelli in corrispondenza delle festività dei Santi e dei Morti: «Si diceva che all’arrivo dei defunti, durante la notte, fosse necessario conservare tutte le cose appuntite, perché i morti avrebbero rischiato di ferirsi. C’era però un particolare che da bambina mi spaventava molto. Mia madre ci raccontava che chiunque avesse osato sfidare le anime lasciando in vista oggetti taglienti, sarebbe stato trafitto da quegli stessi oggetti.» Leggende, suggestioni, ricordi, che hanno permeato la nostra città e che ancora adesso affascinano. Non è raro sentire parlare dei fantasmi dei prigionieri che ancora non trovano pace e che infesterebbero i dintorni di via Cesare Battisti, in corrispondenza del vecchio carcere di San Leonardo; o dello spirito della sfortunata Minnia, uccisa per errore dal suo innamorato, in Piazza del Rosario a metà del 1800 e che ancora ogni tanto farebbe udire il suo lamento a ridosso dell’anniversario della propria morte. Alcuni raccontano invece di intere processioni di fantasmi, vestiti come frati incappucciati, che si muoverebbero tra San Sisto, Sant’Apollinare e San Donato. La tradizione racconta che siano le anime dei morti a causa della peste, che si muovono di chiesa in chiesa per ringraziare i santi di aver salvato i loro familiari, oppure che siano anime che accompagnino i vivi nell’aldilà, ragion per cui vederli passare è presagio di morte. E’ difficile credere ai fantasmi o ai folletti nell’era degli smartphone e della rete globale ma è sicuro che anche queste leggende sono parte integrante del nostro percorso e sarebbe certamente un impoverimento privarsi del fascino e del mistero di questi ricordi antichi.
di Francesca Arca
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