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di Benito Olmeo 

Le fotografie di Francesca Randi hanno qualcosa di unico, di irriproducibile come tutti prodotti che nascono dall’interno. Ce le facciamo raccontare direttamente dall’autrice e proviamo a capire da dove arrivino, preparandoci però a scoprire universi in lotta e parti di noi che proprio non sospettavamo (o non accettavamo) di avere.

Qual è il primo ricordo che hai della fotografia?

Sin da bambina ho sempre scritto e disegnato, incessantemente e febbrilmente. Mi procurava un benessere infinito, era il mio mondo magico e mi ci rifugiavo appena potevo. La fotografia è arrivata più tardi, ma è sempre stata lì ad aspettarmi. Una mattina del secolo scorso, forse era il 1996, dopo aver passato l’intera notte a fare dei sogni abbastanza turbolenti e surreali, decisi che dovevo riprodurli attraverso la fotografia. Il mio inconscio mi urlava questa necessità. Ci provai, inizialmente con una di quelle macchinette fotografiche compatte che esistevano all’epoca, ma il risultato non mi soddisfaceva per nulla. Così acquistai una Reflex completamente manuale, non aveva neppure l’autofocus, ovviamente a pellicola: la mitica Yashica fx3, che oggi custodisco in un cassetto. È diventata il mio amuleto portafortuna. Imparai le basi e poi iniziai a sperimentare da sola. Così iniziò la mia grande avventura.

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Il tuo stile è unico, originale, molto intimista. Cosa ti ha spinto a focalizzarti su questo tipo di fotografia?

A influenzare maggiormente il mio lavoro è ciò che sogno la notte. Sono i miei sogni e quindi le mie proiezioni inconsce che mi guidano. Sogno ogni notte e mi annoto tutto prima di dimenticare. Poi questi sogni si trasformeranno in immagini fotografiche. Tutte le mie storie raccontano il mio inconscio e, di conseguenza, l’inconscio collettivo. Cerco di svelare l’ombra contenuta in ciascuno di noi. Abbiamo tutti delle parti nascoste e oscure che non vogliamo vedere perché ne abbiamo paura: è il nostro doppio, la nostra ombra.

Cosa significa per te fermare un attimo, un ricordo, che rimarrà immortale nel tempo?

Il mio processo fotografico inizia molto prima. Parte dall’onirico, dall’incubo, dall’inconscio; tutto poi viene elaborato in maniera a volte caotica, per associazioni di idee, e dopo trasportato nella realtà attraverso la fotografia, che però è per sua natura doppia, uno specchio oscuro che riflette ciò che vogliamo far vedere. E quando mi trovo a scattare lascio entrare dentro il mio mondo la casualità, altro elemento fondamentale per me. Per cui non so mai cosa succederà, non so mai cosa verrà fuori, non c’è nulla di impostato. Mi lascio trasportare dagli eventi.

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Leggo nelle tue note biografiche: “Il perturbante, ciò che porta angoscia, è un qualcosa che assomiglia al nostro ambiente domestico ma che in realtà cela in sé un che di straniero, sconosciuto, enigmatico”. Mi approfondisci questo concetto, molto interessante, associandolo alla fotografia?

La mia ricerca si basa fondamentalmente sul concetto di doppio e perturbante. Il perturbante rappresenta tutto ciò che pensavamo fosse rimosso dalla nostra coscienza, ovvero complessi infantili, traumi, convinzioni personali o pregiudizi. Questo può riemergere in condizioni particolari, creando una situazione instabile alla nostra identità e generando uno stato di forte angoscia. La fotografia, utilizzando lo stesso linguaggio dell’inconscio, ossia le immagini, favorisce la regressione necessaria per entrare in contatto con il proprio perturbante. Ed è qui che, appunto, entra in gioco la mia attività onirica, che utilizzo per creare le mie storie. Mi considero un fotografo-sognatore, cerco di decifrare quello che ho sognato e di ricrearlo attraverso il linguaggio fotografico. Questi mondi, sino a quel momento inesplorati, sono mezzi inusuali che ci permettono di vedere cose sino a quel momento celate.

Riferito al surrealismo fotografico: “…Automatismo psichico puro che riflette il vero funzionamento del pensiero, in assenza di qualsiasi motivazione o preoccupazione morale o estetica”. Questa frase di Andrè Breton mi affascina e penso possa associarsi a quanto detto poco sopra, cosa mi puoi dire in merito?

Gli elementi fondamentali del surrealismo sono la libera associazione d’idee e i sogni che rappresentano una fonte inesauribile di produzione artistica. “L’automatismo psichico” quindi lavora senza censure, come si verifica nel sogno durante la fase REM del sonno. Chi si addentra nell’onirico, quindi nel proprio inconscio, e ne vuole trarre un processo artistico, deve sapersi lasciare andare, deve lavorare a briglia sciolta, facendo associazioni a volte rocambolesche e non deve avere paura di scendere negli abissi della propria psiche per poi mostrare le proprie parti oscure. Si crea così un linguaggio personalissimo, quindi un nuovo linguaggio artistico. È un processo davvero complesso e difficile, inizia già da bambini, si deve essere coraggiosi e sinceri per poterlo intraprendere.

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L’arte di cambiare l’arte, quindi. Mi riferisco soprattutto al momento che viviamo, con l’attuale fotografia in digitale.

Viviamo in un periodo storico molto duro, dove tutto alla fine è già stato detto e fatto, e creare un nuovo linguaggio è davvero complesso. Però, attraverso il racconto del proprio mondo, è possibile creare ancora qualcosa di unico. La fotografia digitale ha permesso a tantissime persone di approcciarsi in maniera molto facile al mondo fotografico. Tutti, oggi, possono imparare a fotografare anche con una certa tecnica o farlo attraverso i filtri del cellulare. È in atto la cosiddetta “Rivoluzione digitale”, che si è abbattuta sul territorio della fotografia d’arte. Sul web la differenza fra qualità e popolarità (quantità di follower) non ha nessuna importanza, perché la maggior parte di questi follower sono abituati a immagazzinare fotografie usa e getta ogni giorno e più volte al giorno, e non a tutti è chiaro che ciò che fa la differenza è il metodo, il linguaggio, il concetto. Non tutti sono in grado di leggere un’immagine fotografica. Soprattutto le nuove generazioni. Tutti hanno una pagina Instagram su cui riversare la propria mole di fotografie che riproducono i più svariati generi fotografici. Come districarsi in questo enorme calderone? In questo intricato labirinto di immagini di ogni genere? Non ho una risposta, purtroppo.

Una serie di tuoi ultimi lavori mi ha colpito e trafitto come una lancia. Mi riferisco ai Nameless (I Senza Nome), mi racconti cosa c’è dietro questo “linguaggio” e come ti è nata l’idea di proporre un lavoro di tale intensità?

Tutti quei personaggi arrivano sempre dalla mia attività onirica. Li ho prima sognati, mi si sono stampati nella mente, così oscuri, così soli, immersi nella notte cittadina, nella mia città, che può essere qualsiasi città. Quando scatto cerco di non dare nessuna connotazione precisa ai luoghi che scelgo. Citando il testo critico di Sonia Borsato: “Sono i protagonisti dei nostri sogni inquieti. Percorrono una città inespressa, irrisolta, occulta, perché le strade cittadine, di notte palpitano di vite segrete, insospettabili.”
C’è un grande senso di solitudine che li accompagna, ma allo stesso tempo non sembrano minimamente spaventati o a disagio immersi nella notte e rischiarati dai neon delle insegne o dalle luci innaturali dei lampioni. Anzi, stanno tramando o nascondendo qualcosa di oscuro, che non ci è dato sapere. Tutto è in divenire, e ogni spettatore scriverà una storia diversa per ciascuno dei Senza Nome.

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“Se fotografi uno sconosciuto, nell’istante stesso in cui fai scattare l’otturatore quella persona smette di esserti estranea, perché la porterai sempre con te”. Questa frase di Giuseppe Tornatore, noto regista italiano, secondo me rappresenta un po’ tutto quello che ci siamo raccontati finora. Cosa ne pensi?

Ogni persona che scelgo per i miei lavori mi fa un regalo immenso, mi permette di realizzare le mie visioni. Sanno che tipo di lavori faccio, sanno che non sarà un servizio fotografico dove si devono mettere in posa e basta. Li vedo trasformarsi, li vedo davanti ai mie occhi assumere una nuova identità. Quel personaggio diventa anche il loro personaggio, immerso nella notte oscura, rischiarato da un’insegna al neon rossa, con il vento gelido che muove i vestiti, e le fronde degli alberi che ondeggiano da una parte all’altra. È qui che si compie la magia completa, c’è un sorta di trasfigurazione tra me e loro.

Fatti un autoscatto, Francesca, e raccontati.

Quello che ti posso dire, ora come ora, di me stessa è che seguirò sempre il mio istinto, sperimenterò tanto, lavorerò sodo come sempre. Non mi fermerò, anno dopo anno, perché questa è la mia vita, quello che mi fa andare avanti da quando mi sveglio a quando vado a dormire. Spesso dico che la fotografia mi ha salvato la vita, ed è vero. Perciò non mi staccherò mai dalla mia macchina fotografica. E poi quello che deve accadere accadrà.

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