di Benito Olmeo

Raccontaci il tuo percorso artistico e quando è nata in te la vocazione per l’arte.

È una passione che ho da sempre: da bambino disegnavo quaderni interi di fumetti, coloravo di continuo e, quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande, rispondevo sempre: «Muratore, pittore»; beh, oggi oltre a dipingere, costruisco non gli edifici ma tutto ciò che concerne il complemento d’arredo, in quanto da 13 anni a questa parte mi sono specializzato nell’arte ceramica, creo, decoro e, se necessario installo pure le mie creazioni.

Appassionato di storia, cultura e arte sarda. Da cosa nasce questa tua passione per la nostra terra?

Nasce sicuramente dall’osservazione. Sono sempre stato appassionato di architettura, nascendo e vivendo in Sardigna come si fa a non rimanere affascinati dagli antichi monumenti, ignorati per ignoranza. Mi scuso per la cacofonia, ma che i sassaresi non conoscano i monumenti più antichi (di cui ancora è ricco il territorio comunale), è fuori da ogni logica… parlo di Sassari perché è la mia realtà e la conosco meglio; dall’ammirazione all’azione: sono ormai tanti anni che studio l’iconografia sarda realizzando elaborati (disegni, sculture, maioliche) che ne evidenzino i caratteri, i segni, le forme e le tecniche usate dai nostri avi, sempre attualissime peraltro.

Ti formi e prendi subito un percorso netto verso l’arte contemporanea, con la specializzazione nel settore del Body Painting. Cosa ti ha spinto a seguire questo percorso per poi dedicarti a un tipo d’arte che definirei d’avanguardia?

Da metà anni ‘90 utilizzo per le mie composizioni anche colori fluorescenti che, come risaputo, si accendono esposti ai raggi UV. Il mio proposito era di colorare in questa maniera, sui più svariati supporti, per ottenere una doppia versione (visiva) di ciò che andavo a realizzare: dagli oggetti, ai pannelli, ai murales. Dopo anni di intensa sperimentazione e formazione personale, ho deciso di utilizzare per la prima volta questa forma espressiva presso la gallerìa Kairos di Sassari dove ho dipinto una bella ragazza. Era il 2001, quando ho inaugurato la mia mostra personale, la mia prima mostra in una galleria, visibile solamente sotto l’effetto UV.

Che definizione mi daresti in senso assoluto (se possibile), sull’arte?

È un discorso lungo, hanno scritto tanto e a tutt’oggi non si placano i dibattiti fra ciò che è arte e ciò che non lo è! Io penso all’arte come alla vita, o come un sistema di vita; l’artista esprime emozioni interiori, uniche, soggettive e le pone alla visione di tutti, è per ciò che quando mi chiedono: «Cosa rappresenta questo lavoro?» io rispondo: «Questo dipinto rappresenta se stesso, non è nato per evidenziare qualcosa di già visto, è quello che mi è frullato per la testa e io l’ho fissato su una superficie». Diverso è il discorso quando lavoro su ordinazione o per studi personali, dove la tecnica mi serve più per rappresentare che non per esprimere le mie pulsioni ed emozioni più interiori. La differenza tra questi due approcci è che nel primo servono tecnica ed “insight”, intuizione o creatività che dir si voglia, poi c’è la produzione più commerciale che riguarda le commissioni, dove spesso si esegue un lavoro prettamente tecnico.

Artista a 360 gradi, come riesci a far convivere questa tua pluralità nei confronti dell’arte?

Credo che chi fa arte non si debba fermare ad un supporto o ad un medium, sarebbe limitante; penso che chi “si nutre di arte”, come me, abbia la necessità fisiologica di provare i più svariati supporti e le più varie tecniche per esprimere il proprio lavoro artistico. Chi è bravo, oltre che per le conoscenze tecniche, penso si possa distinguere dal fatto che ha una sua linea, un suo pensiero coerente, un filo logico che si evolve ma non si spezza, mai, proprio per il parallelismo tra arte e vita stessa.

Per molti versi con la tua arte riesci a creare delle vere e proprie scenografie, che potrebbero essere applicate anche in diversi ambiti, penso in particolare al cinema. Come nasce l’idea e il percorso che intendi seguire?

Sì, è vero, la scenografia mi ha sempre affascinato, anche se non mi è mai capitato di lavorare in teatro. Realizzo le mie “scene” su muri, stoffe, pannelli, nelle occasioni in cui questa forma espressiva sia necessaria.

Parliamo della tua arte applicata sul corpo (Body Painting), come vivi e come vivono questa forma espressiva le tue modelle nel sentire il proprio corpo come una “tavolozza vivente dell’artista”?

Avendo maturato un’esperienza quasi ventennale come body painter so come si lavora, cosa vuol dire professionalità, e le mie modelle si sono sempre trovate a loro agio con me. Ovviamente ognuna ha reazioni ed emozioni differenti rispetto al colore spalmato sulla pelle, una sensazione nuova per la maggior parte di loro. Ci sono quelle più o meno professionali, ci sono quelle che lo fanno per denaro e quelle che lo fanno per passione, e guai se non fosse così: la diversità è una della cose più belle di cui siamo dotati come specie umana. A proposito della “tavolozza vivente”, devo dire che hai trovato la metafora più giusta, forse è proprio questo fattore che tiene lontani la maggior parte dei painters dall’esprimersi su un supporto vivo, molto più impegnativo di una tavola inanimata.

«L’amore e l’arte non abbracciano ciò che è bello, ma ciò che grazie al loro abbraccio diventa bello». Questa frase di Karl Kraus penso si sposi in pieno con quanto abbiamo creato finora, cosa pensi tu di questa affermazione?

L’estetica è importante per fissare certi concetti. Ho conosciuto questa scienza all’università dove ho dato, sul tema, anche un esame. La frase di Kraus riporta al mio precedente discorso sulla soggettività: questa, infatti, non si manifesta solo per chi crea ma anche per chi osserva da fuori l’opera d’arte, e trovo difficile accettare una definizione così rigida. Ritengo, infatti, che anche il concetto di bello, definizione della filosofia estetica, appunto, sia condizionato dalla variabile della personalità dei fruitori. Personalmente non credo alla bellezza universale, per me la perfezione non esiste e chi la insegue è fuori strada.

Se dovessi creare un’opera che ti rappresenti, cosa faresti per descrivere Francesco Zolo?

Escludendo a priori i lavori su commissione, direi un po’ tutte ma una che mi è rimasta nel cuore (purtroppo andata distrutta) è l’installazione che ho realizzato nella cisterna di Molineddu (oggi cantina) dove avevo idealizzato la tana di un ragno (a modo mio naturalmente). Si, proprio lui, l’animaletto che va ad insinuarsi laddove l’uomo non passa e che va a vivere laddove è abbandonato, riutilizzando un luogo dimenticato; concetto, questo, che va a ricollegarsi alla mia fissa contro lo spreco e l’abbandono, il consumo spropositato e l’inquinamento ambientale, un po’ come mettere i fiori sui cannoni…

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Un commento su “I MILLE VOLTI COLORATI DI FRANCESCO ZOLO

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