testo e foto di Giulio Gelsomino

Se da Sassari si prende la vecchia SS127 in direzione Osilo, si arriva, dopo qualche chilometro di curve, ad un incrocio con una strada sterrata che si insinua nella campagna. L’indicazione recita “strada vicinale Bunnari vecchio”.

Lo sterrato conduce, dopo un tratto fiancheggiato da terreni e campagne private, ad una recinzione, chiusa da un cancello, che mette in guardia l’incauto visitatore sul fatto che all’interno della recinzione si trovino delle strutture pericolanti.

Sorge spontaneo, all’incauto visitatore di cui sopra, chiedersi quali mai possano essere le strutture pericolanti custodite in una campagna abbandonata che richiedono un recinto, un robusto cancello, chiuso da un altrettanto robusto lucchetto, e dei cartelli che avvisano del pericolo.

Ciò che si cela al di là del cancello è un angolo di Sardegna che ha avuto un’importanza vitale per la città di Sassari sino a pochi anni fa; un luogo in cui si possono ancora ammirare i resti di un passato, neppure troppo remoto, che rappresentò, per un secolo e mezzo, la soluzione ad un problema del quale si discuteva all’incirca dal 1600: l’acqua.

Superato il cancello si nota, subito sulla sinistra, il rudere della vecchia cantoniera Bunnari. Le imposte distrutte, il tetto crollato e la vegetazione che cresce rigogliosa, danno alla cantoniera un’aria vagamente malinconica.

Imboccando un sentiero – infestato da erbacce e piante di finocchio selvatico ma comunque ben visibile – chiuso sulla sinistra da una parete di roccia e affacciato, a destra, sulla valle di Bunnari, si giunge, dopo alcune decine di metri, alle strutture pericolanti contro le quali ci metteva in guardia il cartello all’ingresso.

La prima cosa che si nota è lo stile Liberty delle costruzioni. La seconda è il fatto che, a parte i normali segni dello scorrere del tempo, non presentano danneggiamenti dovuti ad atti vandalici: non ci sono immondizie e le pareti, per quanto scrostate e scolorite, sono pulite, senza scritte o graffiti.

Nell’edificio più grande si scorge, seppure sbiadita, la scritta “Filtro”, incisa sulla lastra di marmo posta sopra l’ingresso. All’interno una serie di grandi archi delimitano profonde cisterne interrate.

Continuando poi lungo il sentiero emerge, un po’ alla volta, la struttura più imponente e meglio conservata di tutte. L’impressionante mole della diga si mostra inizialmente con discrezione, per rivelarsi in tutta la sua maestosità una volta giunti alla base dello sbarramento.

Sulla sommità, in grandi caratteri metallici ossidati e corrosi dal tempo ma ancora perfettamente leggibili anche da lontano, è incisa la data che ha visto l’ultimarsi dei lavori di costruzione della diga: 1878. Ciò fa di questa diga la più antica della Sardegna.

L’impianto, costruito tra il 1874 e il 1879 e collaudato nel 1880, raccoglieva le acque del rio “Bunnari”, che scorre ancora oggi nella valle. Venne costruito persino un tunnel, di cinque chilometri circa, che collega la diga del 1878 alla palazzina Liberty dell’Acquedotto di Sassari in viale Adua.

L’ingresso nella valle di Bunnari è difficilmente individuabile a causa della vegetazione e, secondo alcuni rilievi, è possibile che il tunnel sia parzialmente ostruito da alcuni crolli.

I dati tecnici descrivono la struttura come una “diga a gravità ordinaria” – ossia che si oppone alla pressione dell’acqua col proprio peso e grazie all’attrito con la roccia di fondazione – interamente costruita in muratura di pietrame.

Con trentadue metri di altezza, garantisce un invaso di 457.000 metri cubi d’acqua, che furono abbastanza per soddisfare la sete dei sassaresi per lungo tempo.

Giunti alla base della diga, non senza una certa difficoltà a causa delle erbacce e soprattutto dei rovi che rendono l’avanzamento abbastanza problematico, ci si sente quasi sopraffatti dall’incombenza della struttura. Si notano, parzialmente soffocate dalla vegetazione, due centraline di controllo del flusso, all’interno delle quali sono ancora visibili le tubature e i meccanismi idraulici, per quanto arrugginiti.

Il silenzio è totale, interrotto solo dal verso sporadico di qualche animale e dal leggero fruscìo del fiume, che ora scorre libero, senza impedimenti. Questo, unito alla totale assenza di campo che zittisce anche il telefonino, dà l’idea di trovarsi sperduti in qualche remoto angolo di mondo anziché a dieci minuti dalla città.

Da quel che ci dice Enrico Costa in “Sassari” (parte VI cap. 5) la prima volta che si inizia a parlare dell’acqua di Bunnari per la città è alla fine degli anni ‘50 del 1800.

Nel Maggio del 1858 l’Intendente Rey esorta il municipio di Sassari ad avviare una serie di opere di pubblica utilità, tra cui l’acquedotto. Viene così stanziata una somma di 1000 lire per effettuare gli studi del caso.

Qualche mese dopo il Capitano del Genio Militare Enrico Parodi viene incaricato dello studio di una condotta idrica, col suggerimento di andare a prendere l’acqua alle sorgenti di Bunnari qualora non fosse possibile prenderla dalle sorgenti delle Conce, di Santa Maria, o di Eba Giara. Nel 1859 Parodi consegna la sua relazione, in cui si specifica che l’acqua di Bunnari, analizzata dall’Università di Torino, è ottima.

Perciò propone di portare l’acqua fino al mulino a vento nel presidio di Don Gianuario Alivesi, mediante una galleria scavata nella roccia per 2520 metri e un canale a cielo aperto di 1200 metri. Secondo Parodi, la portata sarebbe stata di 360 litri al minuto e la spesa di 130.000 Lire, riducibili a 100.000 utilizzando solo tubi senza scavare gallerie. Ma la cosa fu tirata per le lunghe e poi dimenticata.

Nel 1862 il sindaco, Simone Manca, espone nuovamente in consiglio comunale la necessità di una conduttura che porti l’acqua potabile a Sassari, assieme ad un primo abbozzo di progetto dell’ingegnere francese Fortunato Roux della ditta Roux-Balleydier.

Nel 1863 Roux presenta il progetto completo che prevedeva, oltre ad una galleria sotterranea che portasse l’acqua da Bunnari a Sassari, anche la ricerca di altre sorgenti.

L’acqua, dopo un percorso di circa cinque chilometri, sarebbe dovuta arrivare fino al mulino con una portata di 30 litri al secondo e in seguito diramata nelle condutture della città.

Il costo complessivo ammontava a 859.038 Lire. L’impresa venne avviata, fu scavato qualche centinaio di metri di gallerie e alcuni pozzi, ma alla società di Roux cominciarono a mancare i fondi.

I lavori iniziarono ad andare molto a rilento e nell’agosto del 1865 la Roux-Balleydier cedette l’acquedotto alla Knight & C. di Londra. La cessione fu formalizzata nel gennaio del 1866 sotto la responsabilità di Balleydier.

Tuttavia nel 1868 l’impresa viene accantonata perché, fondamentalmente, non aveva adempiuto agli obblighi: di acquedotto neanche l’ombra. Tra il 1869 e il 1873 vennero presentati al Comune altri progetti ma per varie vicissitudini non se ne fece niente.

Il 26 gennaio del 1874, il Consiglio Comunale approvò un progetto presentato dai fratelli Fumagalli della ditta omonima. Il 7 febbraio dello stesso anno viene stipulata la convenzione tra il Municipio e la ditta Fumagalli: l’impresa si impegnava a condurre a proprie spese l’acqua potabile dalla valle di Bunnari mediante un sistema di gallerie.

La portata era garantita in 15 metri al secondo. In caso di insufficienza si sarebbe ovviato attraverso un bacino artificiale, che avrebbe preso l’acqua dalle alture di Osilo.

Il progetto doveva essere affidato ad un ingegnere idoneo e non avrebbe dovuto superare il costo di un milione di lire. Il 6 aprile dello stesso anno Claudio Ferrero, l’ingegnere designato, presenta la propria relazione al Comune: l’acqua sarebbe dovuta arrivare tutta dal bacino, perché da lui ritenuta migliore di quella delle sorgenti di Bunnari, superando la quantità di 15 metri al secondo.

I lavori vennero ultimati il 15 luglio del 1880 (sei anni e tre mesi) e l’inaugurazione avvenne il 15 agosto dello stesso anno. Sembrava tutto perfetto ma, appena messa in circolazione l’acqua, iniziò a girare la voce che questa non fosse potabile.

Il comune allora costituì una commissione per gli studi del caso e venne incaricato delle analisi il chimico prof. Selmi. Costui, il 26 agosto del 1880, presentò i risultati: il problema non era l’acqua.

Il problema era il territorio nei pressi di Osilo che questa attraversava prima di essere immessa nell’acquedotto. L’impresa venne citata in giudizio e la causa si trascinò da un tribunale all’altro per venti anni.

Nel 1903 finalmente si giunse ad una transazione con l’impresa ormai fallita. Sempre dal Costa apprendiamo che l’acquedotto rimase com’era e la fortuna dei sassaresi, o almeno di una parte di essi, fu che l’acqua delle sorgenti di Bunnari penetrò nel bacino, portando quindi acqua potabile per lo meno nelle case delle famiglie più agiate.

Il resto della popolazione – alla fine dell’ottocento Sassari contava circa 8500 famiglie – si arrangiò come aveva sempre fatto: con gli acquaioli che portavano l’acqua a dorso d’asino dalla fontana di Rosello.

Torniamo ai giorni nostri. Attraversando la passerella di cemento ai piedi della centralina più bassa (e passando quindi il rio Bunnari, invisibile a causa della vegetazione ma costantemente presente col suo scroscìo) e inoltrandosi in una macchia di rovi e arbusti, si arriva a una lunga scalinata di cemento che porta fino alla sommità della diga.

Giunti in cima, andando a sinistra si percorre la diga vera e propria, dalla quale ci si può affacciare sul bacino, ormai vuoto e con l’erba secca e incolta, segnata dai sentieri aperti delle capre, oppure sulla valle, verde e rigogliosa nonostante la siccità degli ultimi mesi.

Ben visibile il segno che ha lasciato l’acqua sulle pareti rocciose, il quale dà l’idea del livello del bacino e della quantità di acqua contenuta.

Andando invece a destra e superando una recinzione, si trova, seppur con qualche difficoltà, un sentiero che si insinua tra gli alberi e gli arbusti e porta a un camminamento che congiunge la diga del 1878 con un’altra diga, detta “di Bunnari alto”, costruita mezzo chilometro più a monte tra il 1930 e il 1932 per far fronte alla crescente espansione urbana e al conseguente bisogno d’acqua.

Questa seconda diga, più moderna da un punto di vista costruttivo e strutturale, va a delimitare un bacino di 1.200.000 metri cubi.

Il camminamento è costituito, nella sua parte iniziale, da una passerella che costeggia a mezza altezza la parete rocciosa – praticamente sospesa nel vuoto sul bacino con parte della ringhiera di protezione crollata – e da una corta galleria. Superando la galleria si può intravedere la diga “nuova”.

La storia della diga “di Bunnari basso” si concluse nel 1999. La struttura venne infatti dichiarata pericolante e l’invaso completamente svuotato. Stessa sorte toccò, nel 2002, alla diga “di Bunnari alto”, il cui parco, sviluppatosi intorno al lago, fu per lungo tempo eletto a meta delle gite domenicali dei sassaresi; almeno fino all’incendio che nella seconda metà degli anni ‘90 distrusse la pineta.

Da anni si parla di un progetto di riqualificazione del parco e di rinvaso dei bacini, o almeno del bacino alto, ma l’operazione di riqualifica e manutenzione, avviata nel 2003 è tutt’ora in corso e probabilmente lo sarà ancora per molti anni. Rimangono le due dighe e le vecchie strutture, ormai segnate dall’abbandono e dallo scorrere del tempo, a testimonianza del glorioso passato di Bunnari.

  

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