I dipinti di Aniello (Nello) Di Monda scatenano molteplici emozioni. In chi scrive, poi, a maggior ragione essendo stato suo allievo nel periodo delle scuole medie a Sassari, intorno alla metà degli anni ‘90. Ma al di là dei ricordi personali, i lavori di Di Monda lasciano un segno in chi li osserva perché si compongono di attimi ormai conclusi eppure latenti, quindi ancora presenti e, di volta in volta, ricostruiti con pennellate dal tratto onirico. Una pittura work in progress, peraltro, come capiremo meglio leggendo le sue parole, e dal grande valore terapeutico per chi la contempla come per chi la realizza.

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L’intervista

Come ci si avvicina all’arte?

Il primo approccio l’ho avuto a sei o sette anni quando, con la mia famiglia, ci trasferimmo nella nuova casa a Sant’Anastasia. Lì conobbi Raffaele Iodice, un artista che aveva già dipinto nella chiesa di Sant’Antonio, al mio paese, e che era stato ingaggiato per realizzare affreschi e decorazioni nel nostro salotto e nella sala da pranzo. Rimasi come incantato per più di un’ora osservandolo al lavoro e, in particolare, mi colpì la sua tavolozza sulla quale spiccavano il giallo cromo e il blu oltremare. In seguito, avevo circa undici o dodici anni, ho conosciuto Carmine Sodano, mio coetaneo e poi anche grande amico, che era molto bravo nella pittura. Seguii il suo esempio e mi ci dedicai anche io. Col tempo le nostre strade si sono separate e lui è scomparso qualche anno fa, ma la pittura è rimasta con me.

Perché, a un certo momento, ha scelto di trasferirsi in Sardegna?

Nel ‘70 mi rivolsi al Provveditorato agli Studi di Napoli per chiedere in quali regioni ci fosse possibilità di insegnamento e mi risposero di presentare domanda per la Sardegna. Il caso volle che la mia professoressa di Chimica fosse reduce da un paio d’anni di insegnamento a Sassari, così mi consigliò di indicare nella domanda questa città che, mi disse proprio così, rispetto al nuorese era più aperta, in particolare le donne. E così ho fatto. Inizialmente, però, non insegnavo educazione artistica ma proprio laboratorio di chimica perché il mio diploma era quello di Perito Chimico Tintore. Solo qualche tempo dopo mi dedicai all’educazione artistica che, comunque, ho scelto di insegnare sempre alle scuole medie pur avendo conseguito l’abilitazione per farlo anche nei licei. Come forma di insegnamento la trovavo più congeniale alla mia natura perché, alla storia dell’arte, potevo affiancare anche le tecniche pratiche.

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Ecco, parliamo del suo approccio all’insegnamento.

Ciò che insegnavo agli studenti erano le varie tecniche e correnti artistiche. Avendo ogni anno scolaresche di venticinque o trenta alunni, c’erano in una stessa classe diverse personalità e questo mi portava a diversificare. Trattavo così il figurativo, il moderno, il surreale; tipologie che riflettevano la mia pittura perché, poi, anche a me piace spaziare tra le varie correnti d’arte contemporanea fondendole in nuove forme espressive. La mia pittura è comunque in gran parte autobiografica perché riflette situazioni del mio vissuto.

Marco Antonio Aimo, Enzo Espa, Egidio Guidubaldi hanno definito la sua pittura archetipica, rimandante a miti ancestrali che richiamano le proprie origini: ci si rispecchia, quindi?

La mia pittura, come quasi tutte le mie opere più importanti, è legata a mie vicende personali. Ogni quadro rispecchia un momento particolare della mia vita che io rappresento in una forma adatta proprio alla storia di quel momento. È per questo che, a volte, stessi soggetti sembrano soggetti diversi: perché cambia di volta in volta il mio linguaggio. Come ha scritto Aimo, le mie opere sono “moderatamente espressioniste e metafisiche”. Per realizzarle mi sono sempre rifatto a correnti d’arte d’avanguardia dagli anni ‘60 in poi. Penso a maestri contemporanei come Sironi, Guttuso, Fiume; mi piace guardare gli altri e poi cercare di distaccarmi da loro e fare una mia pittura personale.

Tra gli altri, per esempio, Paolo e Francesca sono per me un tema ricorrente. Negli anni in cui studiavo alle scuole industriali, mi piacque molto il modo in cui la professoressa spiegò il canto della Divina Commedia a loro dedicato e mi è rimasto impresso. Anche al mito di Orfeo ed Euridice ho dedicato dei lavori. Ultimamente invece mi colpisce molto l’immagine dei profughi. Questo fuggire dalla loro terra mi ricorda la mia partenza da Napoli e a loro ho dedicato intere serie di quadri.

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Il legame con la terra d’origine è strettamente correlato alla figura di sua madre. Uno dei dipinti più rappresentativi a questo proposito è “Mia madre, io e Renard” (olio su tela,1985). Sua madre è la figura più definita mentre lei appare vestito da Pulcinella. Ce lo racconta?

Ero molto attaccato a mia madre. Sono il secondo di cinque figli e da piccolo ero un po’ aggressivo e prepotente nei confronti dei miei fratelli. Questa aggressività, però, era un modo per mascherare la mia timidezza. A mia madre davo molto filo da torcere, eppure lei mi ha sostenuto nell’intraprendere la via della pittura. Mi dava sempre i soldi per comprare i colori, voleva che continuassi. Venendo al quadro: una volta successe un fatto che mi causò parecchia vergogna e a lei mi rivolsi cercando protezione. “Renard” (volpe, in francese) è la volpe che mia madre custodiva gelosamente in una cassa di zinco dentro l’armadio e che metteva nelle occasioni importanti. Così ho ritratto il Renard, mia madre e me stesso; e poi ci sono anche due amorini, due angioletti che mantengono una mitria da vescovo.

Il vescovo merita un discorso a parte. Mio zio, il fratello di mio padre, era frate francescano. Era un ottimo predicatore, tanto è vero che è venuto, nei primi anni del 2000, a predicare anche nella chiesa di Santa Maria, qui a Sassari. Si chiamava Padre Antonio Di Monda, è scomparso nel 2007. Ebbene, da ragazzo mi infastidiva che mio padre lo elogiasse lasciando me in disparte, perciò mi divertii a rappresentarlo in forme buffe, per esempio con una mitria troppo larga oppure un barbagianni sopra le spalle. In realtà, con mio zio ho sempre avuto un ottimo rapporto ed ero forse il nipote più affezionato perché quando mi occorreva un aiuto mi rivolgevo sempre a lui.

Lei ha tenuto anche diverse mostre, qui in città. Ne ricorda qualcuna in particolare?

Sì, ricordo bene quella tenuta alla Galleria Ars nell’80. Allora Sassari viveva un fermento culturale molto forte e la gente il sabato sera si spostava da una galleria all’altra per guardare le mostre. Dopo l’80, col tempo, questo atteggiamento è scemato. La mostra in questione era presentata da Enzo Espa, che mi ha recensito, ed è stato un grande successo di pubblico e di vendite. Ricordo di aver venduto circa 40 quadri. Mia moglie, in particolare, mi invogliava anche a farne degli altri; è stato un periodo molto bello. Da un punto di vista professionale, poi, mi hanno dato molta soddisfazione anche le due mostre che ho tenuto al Civico. Furono una nell’89 e l’altra nel 2000, nelle Sale di Rappresentanza. Andarono molto bene e potei esporre i miei quadri più importanti.

Come procede, per lei, lo sviluppo di un’opera?

Come diceva il pittore Franco Carenti, bisogna mettersi vicino al cavalletto e imporsi di dipingere, altrimenti non si combina niente. Bisogna quindi ricercare e trovare il momento di grazia, quello in cui il pittore si mette dinanzi al cavalletto e rievoca il proprio vissuto. Io non ho mai idea di quello che devo fare e in questo mi riconosco in ciò che diceva Guttuso. Io mi metto dinanzi alla tela e butto giù una macchia di colore.

Da lì nasce l’idea. In questi ultimi dieci anni della mia attività sto realizzando un maggior numero di disegni e acquerelli che, dal punto di vista intellettuale, mi impegnano più di un quadro perché sono più ragionati. Il quadro è relativamente più semplice perché, dopo aver buttato giù una macchia di colore, l’idea si forma piano piano. Posso quindi dire che la mia pittura è anche terapeutica. Mi spiego: secondo Carl Gustav Jung, alcuni autori ripropongono maniacalmente la stessa opera.

Nel mio caso, lavori come le serie di Paolo e Francesca o il ricorrere di figure come quelle dei volatili stanno a indicare la perduta libertà, la mia appartenenza e il distacco da Napoli. Il fatto di riprodurre la stessa opera da punti di vista differenti, sempre secondo Jung, denuncerebbe poi il tentativo di dare vita non tanto alle pulsioni, quanto piuttosto al bisogno di superare un trauma. In questo senso posso definire terapeutica la mia arte. In effetti, nel momento in cui dipingo io mi trovo in uno stato di semi incoscienza, in una condizione di assoluto straniamento. L’opera d’arte risulta quindi una scoperta anche per me perché alla fine mi chiedo: ma cosa ho voluto rappresentare? Solo dopo che ho creato l’opera mi rendo conto di aver voluto dire una determinata cosa. È un lavoro di introspezione.

Oltre quello per il distacco dalla sua terra natale, ha individuato altri traumi negli anni?

Sì, per esempio uno legato alla finestra del mio studio (Nello Di Monda dipinge all’interno di una piccola soffitta del palazzo nel quale risiede. L’ambiente è colmo di materiali da lavoro e dotato di un’unica finestra che si affaccia su una zona verde della città, ndr). Inizialmente era troppo stretta, mi impediva la visuale e, in alcuni quadri, l’uso di colori quasi deliranti è dovuto proprio alle dimensioni troppo piccole di quella finestra. In seguito l’ho allargata ma nel frattempo ho realizzato, proprio dedicati alla finestra, alcuni dipinti piuttosto angoscianti.

Perché non è più tornato a Napoli, anche in anni recenti?

Nell’82, quando è nato mio figlio, mi sono deciso a dire addio a Napoli perché ormai la mia vita era qui. Il cordone ombelicale col mio paese si è poi rotto definitivamente nel ’95, l’anno della morte di mia madre. Da allora ci sono ritornato solo due volte per visitare i miei fratelli. A lungo mi sono interrogato sul perché sia finito proprio in Sardegna. Questa domanda è stata per me una vera ossessione, fino a qualche anno fa, alla quale ho naturalmente dato forma nei miei quadri attraverso la rappresentazione dei fili del destino, un altro tema ricorrente che riprende il mito delle tre Parche.

di Daniele Dettori
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