Antonio-Maciocco-Il-barbiere-di Carrera-longa

di Benito Olmeo

C’è della filosofia in Antonio Maciocco. Dal suo modo di essere, di fare, dai sui lavori e dalle sue parole, questa capacità di cogliere i dettagli e rielaborarli con il valore aggiunto della riflessione traspare e calamita. Per questo abbiamo deciso di incontrarlo e condividere con voi alcuni suoi punti di vista, invitandovi a seguirne le opere, profonde e non a caso premiate da critica e pubblico.

L’intervista

Frequenti a Roma il Laboratorio Cinema 87, la scuola di televisione di Mediaset ed in seguito la New York Film Academy. Dove e quando nasce la tua passione per il cinema?

La passione per il cinema nasce da bambino quando guardavo in televisione i grandi film americani o le commedie all’italiana che all’epoca costituivano il normale palinsesto. Mi appassionavo guardando queste grandi storie, senza per altro avere la consapevolezza che si trattasse spesso di capolavori del cinema. Crescendo non ho mai pensato che il cinema potesse diventare il mio lavoro, ma una volta laureato in legge, non volendo continuare a studiare diritto, partii per Roma dove alcuni amici stavano cercando di muovere i primi passi nel mondo cinematografico. Credo che, in realtà, avessi soprattutto voglia di cambiare aria.

A Roma mi iscrissi al Laboratorio Cinema 87 dove, grazie ad insegnanti come Piero Spila, Peter Del Monte ed Enrico Ghezzi, iniziai a imparare i primi elementi del linguaggio cinematografico e a capire come si poteva raccontare una storia attraverso le immagini. Fu una scoperta per certi versi folgorante: da allora non ho più avuto dubbi sul fatto che quella fosse la strada che volevo seguire. Son rimasto a Roma diversi anni, poi son tornato a casa. La New York Film Academy la feci qua a Sassari insieme a molti altri ragazzi che, ancora oggi, lavorano nel mondo del cinema.

Sei autore di diversi cortometraggi, tra i quali spicca Achentannos, vincitore di diversi premi, sia in Italia che all’estero. Ci racconti com’è nata l’idea e quali sono le tue fonti di ispirazione?

L’idea è nata dopo aver visto un video realizzato con gli smartphone per un compleanno. Gli amici si rivolgevano al festeggiato augurandogli “A chent’annos”. Dopo la visione del video mi è venuto in mente un personaggio che aveva raggiunto realmente il traguardo dei cento anni, ma in realtà non era felice perché ormai era solo.

Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura sapevo già il finale, l’uomo che nonostante l’età trova la leggerezza per sollevarsi da un mondo superficiale e pesante e volare via. Il senso del corto è proprio questo, l’augurio di saper assaporare quegli attimi di leggerezza che la vita ci può regalare sempre, anche a cento anni. Si tratta di una commedia con risvolti sentimentali e nostalgici. Se proprio dovessi dire quale può essere la fonte di ispirazione direi le commedie di Frank Capra: forse per questo il corto è piaciuto molto negli Stati Uniti, dove ha partecipato a numerosi festival vincendo anche qualche premio.

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Achentannos narra le vicissitudini di Pietro (uomo che ha raggiunto quasi il secolo di vita), ormai stanco della vita e della sua solitudine. Tendi molto spesso, nei tuoi lavori, a trattare l’animo umano; ti interroghi (e interroghi lo spettatore) sul senso della vita e sui ricordi. Cerchi di scavare nelle radici o almeno questa è la nostra impressione. Puoi confermare?

Sì, esatto. Sono estremamente attratto dall’animo delle persone, dal loro lato umano. Nei miei racconti cerco di di far venire fuori i sentimenti migliori che spesso rimangono sopiti o schiacciati dalla pesantezza del mondo che ci circonda. Ho fiducia nelle persone. Forse, come diceva Nanni Moretti, non ho fiducia nella maggioranza delle persone ma nei singoli sì. I miei personaggi diventano persone migliori;
per riuscirci, però, devono imparare a cambiare, non devono aver paura della propria fragilità. Nelle mie storie non mi interessa fotografare la realtà per quel che è, a questo pensa già la cronaca, ma cerco sempre di aggiungere la mia visione, di raccontare come vorrei che andassero le cose. È vero anche che i ricordi e il tempo sono spesso presenti nei miei film.

La mia però non è una visione nostalgica. Cerco di raccontare che in fondo non è mai troppo tardi, che dobbiamo essere pronti a cogliere quello che la vita ci riserva senza vivere di rimpianti. Il mondo naturalmente cambia ma, per affrontare al meglio il futuro, dobbiamo portarci dietro quel che c’è di buono del passato, i ricordi, le esperienze.

Cosa vuol dire lavorare in team e creare un unicum con il direttore della fotografia, dei suoni, del montaggio?

Il lavoro cinematografico è un lavoro di gruppo, quindi uno dei compiti più importanti del regista è scegliere collaboratori di fiducia con cui lavorare al meglio. Il lavoro sul set è spesso pesante e stressante, è fondamentale quindi condividerlo con delle persone con cui si va d’accordo. I miei set sono sempre molto sereni, anche perché quando giro voglio stare bene e, se possibile, divertirmi. Ormai da tempo lavoro con persone che sono prima di tutto amici e poi ottimi compagni di lavoro.

Lo spirito sul set è di massima collaborazione, ed è bello quando dal confronto con i componenti della troupe nascono nuove idee che migliorano ulteriormente il film. Il direttore della fotografia dei miei ultimi lavori è Michele Gagliani. Michele è molto bravo e ha una cura incredibile nel suo lavoro, con lui ho un’ottima affinità caratteriale, siamo tutti e due molto tranquilli e rispettosi del lavoro dell’altro. Negli anni non abbiamo mai avuto una discussione. Lo stesso potrei dire per lo scenografo, Piervincenzo Chessa.

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Cosa significa, per te, avere la possibilità di raccontare e di far vivere delle storie, cercando di trasmettere alle persone anche le emozioni che hai provato tu dietro la macchina da presa?

Scrivere e poi girare delle storie per me è veramente essenziale. È il mio modo di esprimermi. Ho un carattere introverso, sono di poche parole. Fare corti o documentari è quindi il modo per mostrare la mia visione del mondo. Una volta terminato un lavoro voglio già pensare al successivo perché scrivere e girare è quel che mi piace di più. La parte distributiva, il momento delle proiezioni, invece, mi pesa un po’. Anche se, quando il pubblico apprezza il mio lavoro e alcune persone oltre a complimentarsi mi ringraziano, è veramente molto bello. In quel momento tutta la fatica fatta assume un senso. Sinceramente non riesco a pensare di fare qualcosa di diverso, anche perché mi sembra di non sapere fare nient’altro se non questo.

Senti il peso di portare avanti una sorta di testimone dei ricordi e del passato con i tuoi film?

No, non sento questo peso. Quando inizio a lavorare su un nuovo progetto, alle volte non so nemmeno perché quella determinata storia mi abbia incuriosito. Diciamo che spesso lo scopro proprio mentre scrivo. Poi è vero che, spesso e volentieri, certe tematiche ritornano, anzi sono quasi sempre presenti.

Il tuo nuovo lavoro si intitola L’ultimo Barbiere di Carrera Longa. Anche qui vai alla ricerca dell’animo umano, dei ricordi, delle emozioni
della vita. Ti va di raccontarcelo?

Gavino Piras è l’ultimo barbiere di via Lamarmora, Carrera Longa. Me lo ha fatto conoscere il mio amico Nico Casu (autore, con Gianluca Dessì, della colonna sonora), che è suo cliente. Signor Gavino nonostante abbia 81 anni continua a lavorare, la sua è una delle ultime botteghe storiche del centro. Ha passato 56 anni della sua vita in un minuscolo locale, cosa che per la maggior parte delle persone sarebbe una condanna all’ergastolo. Per lui invece quella bottega, il suo lavoro, insieme naturalmente alla famiglia, hanno rappresentato la colonna portante della sua vita, una vita felice. Dopo aver parlato con signor Gavino ho scritto il progetto del documentario e ho partecipato a Kentzeboghes, concorso dedicato alle lingue minoritarie (il documentario infatti è in sassarese), organizzato dall’associazione Babel e dalla Cineteca Sarda.

Fortunatamente ho vinto il primo premio, così ho avuto i fondi per poter realizzare il film. Si tratta della storia d’amore di un uomo verso il proprio lavoro, un lavoro comune, che non gli ha dato particolare ricchezza ma grazie al quale si è potuto costruire un’esistenza di cui andare fiero e soddisfatto. In questi tempi, dove quel che conta è la visibilità, la notorietà e la ricchezza, questa storia mi sembra altamente educativa. Poi ci sono molti altri temi. Nella piccola bottega di Gavino si alternano personaggi singolari, si respira un’umanità che pian piano si va perdendo. È anche una formidabile postazione da cui osservare la città che cambia: si parla quindi della Sassari del passato e anche della lenta agonia che sta vivendo il centro storico.

Non attori, quindi, ma persone che la vita la vivono in prima persona. Perché questa scelta così singolare?

Le mie sono storie di persone, che siano reali o personaggi scritti da me. Si tratta, quindi, di storie di sentimenti, di pezzi di cuore, di sorrisi, di fatica, di malinconia, di rapporti, di umanità: elementi essenziali di ogni esistenza.

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«Nella vita di tutti non c’è mai niente di scontato. Può sempre accadere qualcosa in grado di farci assaporare nuovamente il piacere di esistere.» Questa tua affermazione mette il punto su quello che ci siamo raccontati finora. Ti andrebbe di approfondirla?

Nasce tutto dalla curiosità, dal non dare mai niente per scontato. Parlo di piccole cose: un colore, una luce, un sorriso, una musica, una gentilezza. La vita può sempre riservare qualcosa, bisogna essere pronti a cogliere il bello. È terapeutico, ci riempie la vita. È la felicità delle piccole cose, del quotidiano.

Scambiamo i ruoli. Se dovessimo passare noi dietro la macchina da presa e chiederti chi è in realtà Antonio Maciocco, cosa racconteresti?

Sono una persona schiva, non amo stare al centro dell’attenzione. Parlo poco, per me le parole hanno un peso. Viviamo in un mondo in cui la realtà è spesso travisata: non importa quel che è reale ma come lo si racconta, lo si enfatizza. Tutto questo mi infastidisce, non mi piace e non mi interessa, cerco di starne fuori. Purtroppo, per via del mio carattere e della mia grande pigrizia, non curo come dovrei alcuni rapporti con amici e persone che lo meriterebbero. Di questo mi rammarico, spero di migliorare col tempo. Nel frattempo, con mia moglie stiamo per acquistare una campagna. Mi immagino sotto un grande pino, a scrivere con il mio portatile qualche nuova storia, mentre lei cura le sue piante, circondati dai nostri animali. Sinceramente non riesco a pensare a niente di più bello. Credo che, in quella campagna, passeremo molto tempo.

Foto: Piervincenzo Chessa

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