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di Benito Olmeo

Le “stanze” della mente

Vincenzo Pattusi nasce a Nuoro nel 1978. Comincia a dipingere da autodidatta mentre studia per conseguire la laurea in Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Pisa, cui fa seguito un Master in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali.

Da sempre attratto dalle soluzioni statistiche e formali della Street Art, dirige la sua ricerca visiva verso un marcato e suggestivo grafismo, firmando i suoi lavori con lo pseudonimo Ludo 1948.

Alla produzione pittorica su tela alterna numerose opere pubbliche e site-specific, tra le più recenti l’installazione Faraway so Close per l’aeroporto Olbia-Costa Smeralda (Olia 2011), e un mosaico realizzato con 30.000 carte di credito usate per la sede del Banco di Sardegna di Sassari (Sassari 2013).

I suoi lavori sono stati esposti in numerose mostre in Italia e all’estero: dal Man di Nuoro – dove per anni tiene i laboratori didattici e cura gli allestimenti – fino a Parigi e Berlino. Nel 2013 è tra gli artisti sardi chiamati a esporre al Museo Masedu di Sassari nell’ambito della 54ma Biennale di Venezia. Vive e lavora a Siniscola.

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L’intervista

Sappiamo che non ti piace definirti in un quadro artistico ben preciso. Ci racconti quando e come si è manifestata la tua vocazione per l’arte?

Da quanto posso ricordare ho sempre disegnato. Provo spesso a tornare indietro con la mente per cercare di cogliere un attimo in particolare, ma non riesco a ricordare un momento preciso. Forse la vista, quando ero piccolo, di un vecchio murales degli anni ’70, in pieno centro a Nuoro, che raffigurava un pullman antropomorfo con bocca e denti in evidenza e con frasi che inneggiavano ai “Trasporti Liberi” può aver innescato in me il desiderio di disegnare.

Hai affermato che l’arte non è solo appannaggio delle scuole specializzate: ci approfondisci questo concetto?

Penso che, più che una scuola, serva una vera e propria passione; ho studiato al liceo scientifico e subito dopo avrei voluto fare l’accademia, ma ho preferito studiare storia dell’arte, non pensavo di poter diventare quello che in realtà sognavo sin da piccolo. Subito dopo la laurea ho lavorato trasportando opere d’arte per gallerie e musei. Ho anche lavorato in un museo ma, ad un certo punto, mi sono reso conto che non si può scappare de se stessi e mi sono dedicato anima e corpo alla pittura. Scuola o non scuola, quel che serve è una forte determinazione.

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Le tue esperienze artistiche iniziano come writer, per poi passare alla tela. Cosa ti ha portato e cosa ti ha insegnato questo percorso, così diverso ma al tempo stesso così vicino alla pittura?

Disegnare sui muri ti mette in contatto, per forza di cose, con persone che condividono la stessa passione. Il fatto di dover disegnare in tanti su un’unica parete ti obbliga a discutere e confrontarti. Le persone con cui
disegnavo sui muri avevano studiato in accademia a Firenze e sono state loro a far nascere in me la voglia di dipingere su tela, dandomi anche le prime dritte.

Colpisce il fatto che i tuoi lavori nascano da un’esigenza di vita reale: osservi, scruti i dettagli, le emozioni delle persone e di alcune situazioni, finché in te non scatta la scintilla che ti fa dire “Questo è ciò che va messo su tela”. In quel momento è come se lo trasformassi nelle tue visioni, ridefinendolo con canoni che in un primo momento sembrano non rispecchiare la realtà di ciò che hai visto; quasi come specchiarsi in un
mondo parallelo, dove la realtà viene alterata e dove la diversità non esiste.

Il paragone più immediato che mi viene in mente è proprio quello dei sogni, come quelli che si fanno dopo una giornata carica di eventi, in cui si ripropongono persone e luoghi rimescolati in un apparente nonsense ma che, in realtà, fanno vedere le cose da un altro punto di vista se si ha la volontà di guardare.

E come se in te si mettesse in moto una sorta di compulsione pittorica che, senza nessun tipo di bozza preparatoria, ti permette di creare un duo indissolubile tra tela e colori permettendoti, di getto, di mettere in scena la tua opera e le tue idee.

In realtà disegno tantissimo. Ho molte agende dove conservo, da una decina d’anni, tutti i disegni che faccio. Questi non corrispondono mai all’opera finita ma mi aiutano nella composizione. La musica, poi, è fondamentale più di qualsiasi altra cosa. A seconda del disco che ascolto, il quadro ne viene influenzato. Ad ogni dipinto, infatti, corrisponde un album particolare.

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Diversi tuoi colleghi si sono trasferiti fuori per portare la loro arte e farla apprezzare. Tu, un po’ come Giovanni Manunta (Pastorello), hai deciso di abbellire la città in cui abiti. Lavori a Siniscola, in accordo con quanto affermava Gaudì, ovvero che ogni artista ha il dovere di abbellire la città in cui è nato.

Sono nato a Nuoro. Vivo a Siniscola con la mia compagna da circa una decina d’anni, sono stato fuori per lavoro e studio ed è stato proprio in quel periodo che ho capito dove avrei voluto vivere. Più che ad una città sono legato alla dimensione di vivere su un’isola, un posto che non penso abbia bisogno di essere abbellito ma di essere vissuto e compreso nei suoi pregi e difetti.

Pensi che ci potranno essere nuove avanguardie pittoriche in grado di scuotere il mercato dell’arte e dargli nuova linfa?

Penso che ci saranno sempre avanguardie artistiche. Questo a prescindere dal mezzo espressivo utilizzato e dal mercato dell’arte che, col passare del tempo, influenza solo negativamente tali processi.

Tante sono le tue influenze pittoriche ma, su tutte, Rembrandt sembra avere un ascendente particolare su di te.

Sin da piccolo, guardando nei vecchi libri d’arte, sono sempre stato colpito dai ritratti di Rembrandt e da un dipinto su tutti: “La lezione di anatomia del dottor Tulp”. Quest’opera ha sempre suscitato in me una sorta di paura e allo stesso tempo un’attrattiva a cui non riuscivo a dare una spiegazione. Quando poi ho visto dal vivo la sua pittura, la materia dei suoi dipinti, stato amore.

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Ci racconti la tua opera “I Vigilanti”? Tra l’altro fa da copertina a questo numero.

“I Vigilanti” fa parte di una serie chiamata “Stanze”. Da diversi anni porto avanti una riflessione sui sogni, dove la stanza funge da quinta. Rappresento così i ricordi residui dei sogni all’interno di tali ambienti. In questo caso particolare ho rappresentato una sorta di “vestizione”: il sarto, che nella realtà sistema la camicia del cliente, diventa un cerusico che con la pece si appresta a sistemare le ali dell’angelo caduto.

Rembrandt diceva: “Scegliete un solo maestro, la natura”. Penso che, dopo tutto quello che ci siamo raccontati, questa frase sia il sunto migliore della nostra discussione.

Alla fine si fanno tante discussioni in merito ma poi, volenti o nolenti, torniamo sempre a bomba. Una delle cose che apprezzo di più del vivere qui – e per cui mi ritengo fortunato – è la vicinanza con il mare. Certo non dipingo paesaggi marittimi ma sono moltissime le maniere in cui, inaspettatamente, ritrovo l’influenza di questi nei miei lavori. Può sembrare scontato ma vi assicuro che non lo è.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Nessuno nell’immediato. Lavoro sempre pensando che i progetti vengano come conseguenza del lavoro stesso.

Se dovessi farti un autoritratto, come ti raffigureresti?

In realtà, come Pastorello, in una maniera o nell’altra sono sempre presente nei miei quadri, assumendo di volta in volta sembianze differenti.

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