di Benito Olmeo
La luce è soffusa. Una nebbia nicotinica riempie la stanza.Il cronista è alla sua scrivania, la Marlboro accesa tra le sue dita genera un filo di fumo che si perde nella nebbia alimentandola. Un uomo entra aprendo la vecchia porta di compensato, emerge dal grigio e siede al tavolo. I due si osservano, in silenzio, per qualche minuto. Gli occhi del cronista sono fissi, l’ampia rasata riflette la debole luce sopra la sua testa.
L’uomo di fronte, giacca color terra e camicia bianca, regge lo sguardo e aspetta. Sono attimi interminabili di studio reciproco. Uno è pronto a scrivere, l’altro a parlare. La mano scrolla la cenere dalla sigaretta e il silenzio si rompe. Ha inizio così un’indagine unica nel suo genere sulla storia dell’ex-Q di Sassari. Un rapporto che raccoglie le testimonianze dei protagonisti, degli artisti e delle persone che hanno tentato di donare alla città una vera e propria fucina artistica e culturale. Cosa è successo, realmente, intorno e dentro all’edificio di corso Giovanni Maria Angioy?
Intervista a Leonardo Boscani
Vorrei cominciare questa indagine chiedendoti quando avete deciso che l’ex-Q sarebbe stato il posto ideale dove creare qualcosa di unico e mai fatto a livello artistico isolano.
Tutto è iniziato all’interno del LEM (Laboratorio Estetica Moderna, primo momento di aggregazione creato da me e Giovanni Manunta Pastorello) l’idea che il luogo da occupare potesse essere l’ex questura non esisteva ancora. Esisteva una discussione tra gli operatori culturali sulla gestione degli spazi e in più ci si trovava in piena campagna elettorale. Quando si è fatta una verifica tra di noi su quanti e quali fossero gli spazi dell’amministrazione provinciali e comunali inutilizzati è venuta fuori anche l’ex questura. C’era il Masedu, l’ex mattatoio, il Nuovo Astra, insomma spazi vuoti da riempire certo non mancavano in città, potevi tirare a caso. Ma l’idea si è sviluppata nel tempo, nessuno di noi si immaginava dove saremmo arrivati, cosa stavamo creando e lo considero un vero e proprio laboratorio sperimentale. Per alcuni era solo un atto dimostrativo che doveva finire insieme alle elezioni, altri, e fra questi io, pensavano che si dovesse continuare per arrivare ad un vero laboratorio sociale e culturale e non una breve parentesi funzionale alla “politica” o alle elezioni. Questa fu la prima scissione… a sinistra siamo bravi in questo e non è sempre una cosa negativa. Ci interessava trovare un luogo dove realizzare degli studi per gli artisti, dei laboratori ma anche delle residenze dove poter creare, produrre e scambiare relazioni con artisti di altre città o nazioni. In questo l’ex-Q è riuscito sicuramente anche dopo i due anni che hanno riguardato la mia “presidenza da Questore”.
Quali sono state le difficoltà iniziali sia a livello personale che collettivo?
Le difficoltà? È stata una continua difficoltà dal primo momento fino all’ultimo, due anni di completa e totale immersione in questa visione che pian piano prendeva forma. E più prendeva forma più trovava difficoltà, dall’intervento pubblico di qualche collega di sinistra che non si spiegava come si potesse affidare uno spazio ad una banda di pseudo-artisti, a quelle interne fatte di equilibri delicati, il tutto sommato ad una stanchezza fisica e psichica incredibile degli “attivisti”. E tutta questa fatica “interna” non era stata calcolata o voluta, visto che all’inizio l’ex-Q era un progetto parallelo a quello del LEM ma anche un laboratorio aperto a nuovi artisti visivi o a chi comunque si occupava del contemporaneo, magari meno selettivo ma più sociale nel suo rapporto con la città. Ma quando si è sparsa la voce che si stava pensando ad una autogestione degli spazi, allora mi son reso conto di quanto fosse diffusa la fame di spazi e di collettività tra gli artisti sassaresi e non solo, ma anche fra la gente che cercava un luogo dove socializzare, inclusi quelli che finalmente pensavano ad un centro sociale. Per me questa ipotesi era il grande incubo ma anche il mio grande dubbio: che senso aveva un centro solo sociale? O ancora peggio un centro sociale dove il primo elemento di socializzazione è l’appartenenza ideologica? E a quel punto cosa si poteva fare se non aprire a tutti o quasi tutti, e contemporaneamente tentare di gestire una visione ancora incompleta e con il terrore che se fosse successo qualcosa lì dentro a pagare sarebbero stati in pochi, e io tra quelli? Fra l’altro, tra me e la ex-questura esisteva un lungo “rapporto” personale nel passato, e non piacevole, e – me lo conceda, Olmeo – un “rapporto” anche politico.
Ho letto il progetto “Cantiere-Cultura-CULTURE-PLAN”, che doveva essere presentato alle istituzioni e che, secondo il mio punto di vista, era talmente articolato, vasto e dettagliato, da far invidia ai più ambiziosi progetti politici. So che le porte per questo sono sempre state chiuse: vi siete chiesti se non fosse qualcosa di troppo avanti per il periodo o avete sempre pensato ad un boicottaggio?
Nessun boicottaggio: più all’indifferenza e all’egoismo di una classe dirigente e intellettuale ma anche di una buona parte della città. Poi, più che il boicottaggio, funziona il “terrore”. CCult nasce come piano di riconversione culturale della vecchia questura. Un progetto che, come avrà visto, non è il progettino di un gruppo di pseudo-artisti ma un lavoro durato circa due anni, che ha dato vita ad una prima esperienza con uno straordinario evento capace di coinvolgere tantissime associazioni culturali sarde, nazionali ed internazionali senza una lira di finanziamento pubblico. Era il risultato dei primi due anni di gestione della vecchia questura, realizzato con il contributo di tutte le realtà che hanno sostenuto il progetto; è stato assemblato e completato con l’aiuto di Leonardo Onida, l’architetto Giovanni Lucaferri, Rita Delogu dell’Associazione Marco Magnani e da me. Doveva essere la proposta da portare alla Provincia, un progetto assolutamente valido anche per un possibile finanziamento europeo. Organizzammo un incontro alla libreria Le messaggerie sarde, dove fu presentato. La presidente della Provincia, invitata ufficialmente, non si presentò. In tutta quell’anarchia apparente dall’esterno, la vecchia questura produceva senza fretta, senza politicanti e partiti e con l’apporto reale della società civile e anche di quella incivile, un progetto di fattibilità sulla linea delle capitali culturali. E, come già detto, senza alcun finanziamento né pubblico, né privato e tutto a disposizione della comunità.
Mi preme far capire a chi non ha vissuto quest’avventura quanta arte si realizzava nell’edificio, come avete organizzato i vari laboratori e le risorse umane.
L’arte non si pesa e non si misura. La vecchia questura era una , un laboratorio aperto praticamente h24, come solo rimangono “aperti” i distributori di dolcezze, di canne leggere e del sesso veloce in questa città. Tutto è avvenuto non senza grandi difficoltà e grandi, lunghe discussioni. Per farla breve: ecco, immagini una situazione del genere “Il signore delle mosche”, di William Golding. Ma, tra artisti, sa meglio di me quanta paura hanno di crescere e come vivono di protagonismo. Dovrebbe domandare alle realtà che erano attive all’ex-Q come ci sono riuscite. Io posso solo dire la mia, se permette. Per quello che mi riguarda, l’arte non è democratica ed è il merito l’unico parametro che si è utilizzato quando si è valutato un artista o un progetto o qualche giovane che si proponeva come attivista ex-Q.
Come ha reagito la popolazione a questa vostra decisa presa di coscienza che definirei coraggiosa, sia a livello artistico sia di collettività.
La popolazione ha reagito bene. Gli spazi erano tutti occupati, vissuti da diverse associazioni e realtà: artisti e musicisti, piccole officine, laboratori artigianali e di fotografia che continuamente creavano ed esprimevano con eventi il proprio lavoro dando vita a mostre, performance teatrali, presentazione di libri, reeding di poesia, workshop che si aprivano al pubblico e che hanno portato centinaia di persone all’interno dell’ex-Q. Poi ci sono degli aspetti più popolari, come espressioni di solidarietà all’interno del quartiere dove capitava di trovare il caffè pagato al bar o la cena offerta, o come l’acqua che nel primo periodo non avevamo e che ci veniva fornita con lunghe pompe che attraversavano le vie. Qualcuno si ricorderà ancora del giorno in cui abbiamo scoperto che avevamo l’acqua nello stabile dopo 6 mesi d’occupazione, mesi in cui si andava a prenderla alle fonti e si inventavano sistemi idraulici con mezzi impossibili ma funzionanti e creativi. E tutto era così, dalla luce al riscaldamento d’inverno. Insomma, una naturale disciplina dell’antagonista senza i riflettori addosso, come invece avevano i nostri colleghi operai dell’Asinara. Fra l’altro, la nostra prima mostra fu proprio dedicata a loro: scatti dei lavoratori nell’isola occupata di Roberto Careddu, un fotografo di Cagliari.
L’ex-Q non era solo qualcosa di radicato nell’isola, ma aveva espanso i suoi orizzonti anche con altre realtà oltre mare. Ci racconta come riusciva (o riuscivate) a gestire il tutto?
Gestire tutto era impossibile, si cercava di farlo nel modo migliore in una situazione di anarchia totale che non poteva essere repressa o allontanata, a meno che qualche comportamento non diventasse un problema per tutti. E decidere cosa è giusto e cosa non è giusto non è facile, e per me è la cosa più difficile. Ma bisognava difendere il progetto che era in un’evidente crescita. Ho pensato che dopo l’esperienza del J Cage Music Circus quel posto potesse essere finalmente riconosciuto e affidato a tutte le realtà che lo avevano creato e sostenuto. Il progetto aveva avuto anche la testimonianza del teatro Valle con incontri e scambi in cui ci veniva riconosciuto il ruolo di pionieri di un nuovo modo di recuperare in maniera costruttiva i beni comuni e il diritto alla libertà intellettuale e artistica. Ci sono stati artisti in residenza dalla Corsica con il sostegno del FRAC-Corse, un’istituzione nel panorama delle arti visive internazionali, e un’artista della vecchia questura è stata selezionata per una residenza in Corsica. Uno scambio che, se le istituzioni avessero riconosciuto il progetto, avrebbe permesso una vera rete di rapporti. Per iniziare a lavorare e per dimostrare la fattibilità di un dialogo è stata realizzata una mostra con Anne Alessandri, direttrice del FRAC della Corsica e Sandra Solimano, già direttrice del Museo di Villa Croce a Genova, entrambe alla direzione di musei nel Mediterraneo. Gli artisti sardi, selezionati da me, erano tre dell ex-Q (un artista e un collettivo) e due del LEM. Uno di questi, Paolo Pibi, fu selezionato in seguito per una residenza in Corsica. Ma anche altre realtà interne, come 4caniperstrada, organizzarono delle residenze come quella di Edo Vejselović’s, un artista macedone che rimase quasi due mesi alla vecchia questura producendo e condividendo. O altre realtà culturali della città come l’Associazione Marco Magnani, che propose l’ex-Q come atelier ad un artista in residenza all’interno del Premio Marco Magnani. Anche qui deve indagare, perché credo siano continuate nel tempo, dopo le mie dimissioni da presidente.
Tra i vari artisti invitati, avete organizzato un concerto con Patrizio Fariselli, ex Area. Ci racconti l’esperienza e l’aria che si respirava?
Certo, ha per caso già sentito gli altri direttori artistici dell’evento? Dovrebbe, sa? scoprirebbe qualcosa di interessante. Per quanto mi riguarda posso parlarne per due giorni e non basterebbero, posso consigliare però di fare una ricerca del materiale fotografico e video che è stato prodotto. Esiste un documento video che raccoglie ogni istante e che andrebbe portato come testimonianza di quello che è stato quell’evento per la città. Le faccio solo tre esempi di performance che sono avvenute in tre piani diversi. Al piano terra, Paolo Ciarchi realizzò un laboratorio sonoro con bambini e genitori; nel piano dell’ufficio passaporti una quarantina di musicisti provava con Fariselli e alla fine sul terrazzo del Questore, un concerto eseguito in ensamble utilizzando come spartito il cielo stellato. L’artista in residenza Edo Vejselović’s in quell’occasione realizzò una piramide di luce che partiva dalla vecchia e alta antenna della questura e scendeva per i quattro lati.
Una cosa molto interessante è che il vostro progetto prevedeva la collaborazione con gli artigiani del posto. Mi preme sottolineare un episodio nel quale compare un tappezziere ormai non più in attività, che voi avete ingaggiato e fatto lavorare per diverse realtà all’interno dell’edificio.
Quando ci si confronta con il mondo dell’arte, così luccicante, alternativo, spesso snob ed elitario, si perde di vista la realtà delle cose e una di queste realtà non focalizzate è quella delle crisi sociali che si attraversano o delle opportunità può creare intorno all’arte contemporanea. Un esempio in Sardegna fu l’esperienza di Eugenio Tavolara con gli artigiani locali. Una produzione di arte, design e artigianato che ha segnato un tempo, uno stile e soprattutto opportunità di lavoro per tanti; dagli artisti agli artigiani, dagli architetti alle casalinghe dei paesi del circondario sassarese e non solo. Questo era uno degli obiettivi dell’ex-Q: creare dei laboratori di design assolutamente con uno stile ex-Q, utilizzando tutto ciò che era vecchio, desueto e fuori norma, come ad esempio i vecchi tavoli d’ufficio che le amministrazioni pubbliche devono rinnovare in base alle nuove norme europee sulla sicurezza e cercando collaborazioni con gli artigiani del quartiere, come ad esempio i fabbri della zona tra piazza Università e via Arborea. A questo proposito, capitarono all’ex-Q due persone che avevano bisogno di lavorare perché la loro situazione era precipitata di colpo: Michele, grafico e artista che aveva perso il lavoro da poco; e un tappezziere “che teneva famiglia” anche lui, alla ricerca di un posto dopo che dovette chiudere la sua unica attività. Entrambi iniziarono a lavorare all’interno dell’ex-Q, Michele come grafico e aiuto allestimenti e il tappezziere, trovato un suo piccolo spazio, portò la sua macchina da cucire e iniziò la sua attività con alcuni di noi. Così nacque “Bandhouse – not according to”, il collettivo politico del design non conforme alle norme europee. L’Europa – e non solo – ha dettato delle regole e delle norme per quanto riguarda gli arredamenti degli spazi pubblici, norme che hanno gettato nella spazzatura milioni di euro in vecchi arredi e speso sicuramente molti di più per i nuovi regolari,non a rischio, ma anonimi mobili per uffici. Per scavalcare questa regola, Bandhouse si occupava di recuperare tutto ciò che era desueto per trasformarlo in opere d’arte funzionali al loro ruolo di oggetti d’arredamento d’ufficio. Trasformando questa “mondezza futura” in opere d’arte si scavalcava ogni tipo di norma e di regola ma soprattutto nasceva un po’ di lavoro dal rifiuto, e il rifiuto non è solo quello che va nelle discariche ma anche quella parte della società e dell’umanità che lentamente si lascia morire o va ad estinguersi, come ad esempio gli artigiani o anche quel padre di famiglia che all’improvviso si trova senza lavoro e senza più un futuro. Bandhouse era formato da Erik Chevalier, uno dei più interessanti artisti sardi, amico e compagno da lungo tempo, e Michele Gerra anche lui amico fraterno, grafico e artista disoccupato. Pochi ma pronti a nuove collaborazioni, come era nello spirito dell’autogestione. Dai vecchi mobili, tavoli e poltrone dal design anni ‘50/’60 o quello più squallido da ufficio anni ‘90, abbiamo realizzato il mio “studio ufficio” al terzo piano nella vecchia questura. Naturalmente, molto di questo materiale prodotto è stato recuperato e conservato prima della murata dell’ex-Q. Per concludere la visione naturale di questo progetto immaginavo un “corridoio” che attraversasse i giardini pubblici dall’ex-Q verso il padiglione Tavolara con una sezione all’interno: Bandhouse ed ex-Q Design.
Cosa voleva dire far parte dell’ex-Q?
Non so cosa volesse dire far parte dell’ex-Q. Ognuno era una parte dell’ex-Q. In fondo è normale che non ci fosse un senso di appartenenza comune. Non avevamo una fede politica o un’organizzazione comune, o una religione (e, per fortuna, anche quell’aspetto mistico naturale che avviene tra le comunità di artisti è durato poche sere). Non eravamo della stessa generazione, molti di noi si conoscevano poco o per niente, altri si sono svelati nel tempo. Insomma, questo era l’aspetto sociale e antropologico interessante dell’esperimento nella vecchia questura: la progettualità di una realtà nuova, fluida, non compromessa con il passato ma senza neanche rancori o istinti di giacobinismo nei confronti del resto della città e della politica. Se poi mi chiede di fare i nomi degli occupanti “attivisti” da me non li avrà, io posso solo parlare della loro partecipazione, del loro lavoro, ma tocca a lei scoprire altro, io dichiaro un’idea, la mia. Ad esempio uno dei lavori più interessanti che si sono realizzati è il controsoffitto del secondo piano. L’artista era un giovane straniero che viveva in Sardegna e studiava all’Accademia di Sassari. È arrivato all’ex-Q con un altro giovane che faceva delle bellissime foto ma che andò subito via anche se credo continuasse a seguire l’attività dell’ex-Q. Comunque, tornando al nostro giovane studente straniero, dopo aver realizzato un intaglio in legno di una raffinatezza straordinaria e decorato il gabbiotto del piantone all’ingresso, ha poi realizzato un cielo retroilluminato con particolari attraversati dalle scie chimiche. Cedeva una foto e realizzava un tassello, fino a completare l’intero corridoio e la sera era bellissimo illuminarlo. In tanti abbiamo sostenuto questo progetto “acquistando” il nostro piccolo frammento di cielo che poi si è trasformato in una vera opera site specific. Forse era questo il far parte dell’ex-Q, sostenere l’arte e l’artista a qualunque costo, anche a quello di apparire visionari, folli e irriverenti rispetto al piatto scorrere di una generazione di artisti e operatori culturali arresa al placido aspettare di Godot e assoggettata agli umori e agli interessi dei diversi poteri economici e politici di questa città troppo guelfa e ghibellina, troppo bottegaia e vergognosa d’esserlo, senza neanche capire quanto invece la bottega, in un città come la nostra, né metropoli né paese, possa essere fondamentale se non sono solo botteghe di partito.
Un ulteriore segnale lo avete lanciato promuovendovi donatori di vestiario e cibo per le alluvioni che versavano in Italia in quel momento. Ricordo che il movimento e la partecipazione che la popolazione vi ha riservato erano fantastici.
Sì, ricordo quell’episodio anche se, in realtà, io avevo già lasciato la presidenza dell’associazione ex-Q da qualche mese. Forse non avevo neanche più il mio studio al terzo piano, dove il suo agente Paolo Marchi mi ha fotografato su una poltrona BandHouse. Comunque, a parte questo, fui subito contattato alle 3 del mattino per informarmi che qualcuno, non ricordo bene ora quale associazione fosse, aveva chiesto se si potesse usare la vecchia questura per organizzare una raccolta per gli alluvionati. Non ci fu assolutamente nessun problema e già prima dell’alba quel posto era operativo. Furono indirizzati tutti i mezzi di soccorso, privati e istituzionali in ex-Q e il coordinamento fu messo su in poche ore; prima della protezione civile e delle altre forze “di Stato”. Anche quello, senza rendercene conto, era frutto del modo di operare dove l’azione contava più delle parole o dei continui screzi tra di noi o con la città silente. Ma alla fine a vincere era il progetto, anche in queste occasioni tragiche quanto importanti per una comunità che si ritrova insieme solidale e attiva.
Non pensi che la città abbia perso un’opportunità e che forse non ci sarà mai più una realtà fresca e innovativa come l’ex-Q?
La città non ha perso solo quell’opportunità: in realtà non fa che perderne ormai da diversi lustri. Il Masedu consegnato dalla Provincia all’Accademia con un atto se non altro discutibile, fra l’altro consegnandolo con un vero pacchetto problemi come optional (visto che la gestione di quello spazio ha delle deficienze strutturali considerevoli) e di norme non rispettabili, oltre che di progettualità inesistente, almeno fino a questo momento. Il Nuovo Astra ristrutturato che rimane vuoto da anni e ancora incompiuto, e che sta lentamente degradando mentre a Sassari non esiste un teatro stabile permanente per le innumerevoli compagnie teatrali. Il Carmelo che non decolla nonostante ci siano stati sforzi anche di privati e mostre importanti. Tra l’altro c’è conservata la collezione Biasi (altro capitolo che questa città dovrà chiarirsi), e il Carmelo era nato anche come contenitore di un progetto con la Corsica e le altre realtà del mediterraneo nella visione di Pietrino Soddu, di Marco Magnani e Giuliana Altea, più di vent’anni fa e che non andò mai in porto. Doveva diventare un luogo per l’arte contemporanea e per la collezione del Moderno, come appunto Biasi. Il mattatoio, altro luogo delle “speranze”, un continuo cantiere vuoto e assegnato anche questo all’Accademia, dove si spendono energie finanziare per ritingere i muri esterni dai graffiti che senza sosta “urlano” vendetta per l’omicidio/suicidio culturale di questa città. Poi ci sono quelle cose un po’ sotto traccia, come ad esempio la struttura sotto il cavalcavia, la solfatara Leda che non si sa bene che cosa ci sia dentro o ancora peggio il padiglione Tavolara che, con un accordo tra Regione e Comune, rischia di perdere la sua funzione originale e geniale, dopo aver speso centinaia di migliaia di euro per la sua ristrutturazione. Un vero e proprio furto alla comunità questi spazi vuoti, contenitori pensati senza avere un’idea, una visione, un progetto, un contenuto che li riempia. Ora sta lì come una grande Dea Madre, gravida della nostra storia più interessante del passato, gravida di sindrome del buon indigeno o di provincialismo che rende tutto come una mediocre parodia delle grandi città dell’arte, e che non aspetta altro che partorire, ancora una volta, il futuro economico e culturale di un territorio ormai in balia solo del made in China o dei centri commerciali. Dunque, rispondendo all’ultima parte della sua domanda, sì, credo che la città possa avere ancora delle grandi opportunità. Non mancano certo né il luoghi per l’arte e la cultura, né tantomeno gli artisti. Gli unici veramente assenti/presenti sono i politici veri, gli amministratori onesti, ma senza un progetto all’altezza dei canoni almeno europei non si va avanti. I politici devono fare un grande passo indietro e soprattutto non decidere in base alle logiche d’interessi personali, di carriera e di partito. Fra l’altro, si assiste dopo l’ex-Q a un vero aumento in città di spazi aperti da giovani dove si prova a creare un mercato a km zero tra artigiani e artisti, ma si tratta sempre e comunque di attività private più indirizzate al solo mercato che ad una vera ricerca. Tuttavia anche queste realtà tra l’intrattenimento e la cultura, l’artigianato e l’arte, se non si crea un indotto forte, autorevole e che abbia un riconoscimento a livello internazionale che porta vivacità e curiosità per la città di Sassari, saranno destinate a finire e soccombere al cestino in vimini o al tappeto di lana di sintetica fatto a Taiwan. Non si pianta il seme del dattero nel deserto se non si ha già un’oasi dove mangiare i suoi frutti. Ed è qui che la politica può fare qualcosa, come sostenere in maniera concreta tutte le realtà che “resistono” allo spopolamento del centro storico e anche della città vasta, a favore dei centri commerciali, questi sì vero fallimento di una città come la nostra.
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