di Salvatore Taras 

Costanzo Salis, il Giasone sassarese alla ricerca del vello d’oro delle pecore sarde

È una materia prima versatile, resistente e dagli utilizzi illimitati. La lana, adoperata nella maglieria e nella tessitura dei tappeti, nella realizzazione di materassi, di coperte e cuscini, è certamente la fibra più utilizzata nel corso della storia, e si può ben dire che sia stata sempre presente nella vita dei sardi.

Ma se fino a non molti decenni fa rappresentava un’interessante integrazione del reddito dell’ovile, oggi è quasi considerata uno scarto di produzione, neanche in grado di coprire i costi delle operazioni di tosatura.

C’è chi ricorda un calo drastico alla fine degli anni Ottanta, quando da 2100 lire al chilo in breve tempo arrivò al valore di 500. Sono passati quasi trent’anni e le cose non sono migliorate.

All’inizio dell’estate 2018, il prezzo all’allevatore per il prodotto grezzo è partito da una base iniziale di circa 65 centesimi al chilo, per raggiungere – dicono gli addetti ai lavori – punte di 70-75 in rari momenti e quindi calare a 60 centesimi a fine stagione.

Tenuto conto che ogni capo ovino può produrre in media un chilo e mezzo di lana, stiamo parlando di un reddito che corrisponde a un euro lordo per ogni capo di bestiame, mentre le squadre di tosatori neozelandesi pretendono oltre un euro e mezzo per ogni pecora.

Un po’ di storia. Seppure Cicerone nel I secolo Avanti Cristo parlava di “sardos mastrucatos”, cioè di sardi pelliti, vestiti con la “mastruca” (una pelle di pecora o d’ariete con il vello esposto sulla parte esterna, simile al vestiario dei mamuthones), non è difficile ipotizzare che all’epoca fossero già presenti tessuti di orbace (in campidanese orbaci, in logudorese furesi o fresi).

L’orbace è il principale tessuto ricavato dalla lana, grossolano, ruvido e pungente, e allo stesso tempo robusto e impermeabile, tipico di alcuni elementi del costume sardo maschile come “sas ragas”, “sa berritta” e “su gabbanu”.

Secondo alcune fonti, l’orbace era già utilizzato nell’abbigliamento dei legionari dell’antica Roma. Ma il suo più celebre impiego lo ritroviamo nel Novecento, in tempi di autarchia, quando durante il ventennio fascista divenne il tessuto delle uniformi della Milizia volontaria della sicurezza nazionale.

Per intenderci, erano di orbace le divise delle camicie nere. E non erano nere per caso. Buona parte delle greggi era costituita da pecore di lana scura, al fine ottenere una materia prima che non aveva necessità di essere tinta.

E pensare che, da così preziosa, la lana nera oggi non viene neanche più pagata, proprio perché non è possibile colorarla. Ma secondo i ben informati viene ritirata lo stesso, perché evidentemente a qualcosa serve. In quegli anni l’orbace dava vita a una interessante filiera di produzione.

Le fasi di realizzazione erano la cardatura, la filatura, la tessitura e quindi la follatura per provocarne l’infeltrimento, in modo da ottenere un panno resistente e impermeabile.

Quest’ultima operazione, era effettuata tradizionalmente calpestando i tessuti a piedi nudi. In seguito furono adoperati appositi macchinari, le cosiddette gualchiere (craccheras), azionate grazie all’energia idraulica dei corsi d’acqua.

Un’ultima testimonianza di gualchiera in Sardegna (forse una delle poche al mondo), la troviamo nel cuore dell’isola, nei pressi del fiume Torrei, in territorio di Tiana, paese noto per i suoi numerosi centenari.

Ma le caratteristiche dell’orbace, un panno rozzo, pungente e irritante, finita la seconda guerra mondiale non potevano che portare al suo abbandono in sostituzione di materiali più morbidi e comodi.

Le caratteristiche dell’orbace rendono evidente l’idea di come le pecore sarde, negli anni, siano state selezionate in particolar modo per la produzione di latte.

La loro lana infatti, è di scarsa qualità da un punto di vista tessile, in quanto è ricca di giarra, la parte più ispida del vello. Il valore di questo storico prodotto, quindi, sembra irreparabilmente destinato al declino?

Forse per la lana c’è una soluzione, grazie alle sue straordinarie capacità di coibentazione termica e al suo reimpiego in bioedilizia.

Lana in bioedilizia: arriva un brevetto tutto isolano che potrebbe rilanciare questo versatile prodotto naturale

In questo contesto, l’uomo dell’anno è certamente Costanzo Salis, un artigiano sassarese che dal suo laboratorio sulle colline di Caniga ha brevettato un sistema naturale di isolanti a cappotto per esterni e interni dei fabbricati di lana naturale e calce tradizionale.

Salis si è distinto più volte nella produzione e nell’utilizzo del grassello di calce in combinazione con altri prodotti naturali, tra i quali i derivati della canapa sativa.

Nei primi mesi dell’anno, l’ufficio preposto del Ministero per lo Sviluppo economico ha messo definitivamente il timbro di paternità su un’invenzione del maestro calcinaio, concedendo il brevetto dopo due anni e mezzo di iter burocratico.

Il sistema potrebbe rivoluzionare l’utilizzo della lana naturale, contribuendo al rilancio di questa materia prima. Il Dicaar (Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e architettura) dell’Ateneo cagliaritano, in questi mesi sta analizzando le attività dell’artigiano sassarese nell’ambito del progetto Ples (Prodotti locali per l’edilizia sostenibile).

Si tratta di un progetto cluster top down che coinvolge altre undici imprese isolane, finanziato da Sardegna Ricerche con fondi europei per lo studio dell’utilizzo di prodotti locali, come ad esempio sughero e lana, nell’edilizia sostenibile.

«Il fulcro del progetto è verificare la sostenibilità di pareti e solai strutturalmente portanti realizzati in legno sardo – ha spiegato Giovanna Concu, coordinatrice scientifica e responsabile accademica del progetto – nell’arco di trenta mesi, dovremo testare il comportamento isolante e coibente dei materiali naturali locali a contatto con questi pannelli strutturali, mediante analisi teoriche e prove di laboratorio. Le imprese potranno così ricevere degli input per migliorare le loro linee di produzione e perfezionare i loro prodotti»

Soddisfazione è stata espressa anche da Luigi Sanna, funzionario di Confartigianato provinciale Sassari: «Siamo davvero orgogliosi – ha detto – che un nostro associato abbia ottenuto un riconoscimento di questo genere. È un passo importante per le potenzialità legate alla green economy su tutta la filiera dell’edilizia, che puòavere una ricaduta positiva anche sul mondo delle campagne e su tutto il territorio. Può risultare vincente la combinazione tra calce tradizionale, lana e canapa sativa».

Di sicuro c’è che il lungo viaggio della lana nella storia della Sardegna, riserverà ancora notevoli sorprese. che non scarseggia certamente nell’isola, data la presenza di circa tre milioni e trecentomila pecore.

In realtà, le proprietà della lana come materiale coibente erano note da tempo. Nella tecnica finora in uso, la coibentazione di lana veniva applicata esternamente alla struttura portante, formando uno strato a sé di isolamento, poi tamponato all’esterno con un ulteriore rivestimento in mattoni.

La novità del sistema di Salis sta nel fatto che non occorrono tamponature, perché lana e calce formano un unico strato autoportante e coibente. La tecnica è progettata per diverse soluzioni: intonaco fibrato di calce e lana, cappotto di calce e lana, coibentazione a pavimento e coibentazione a solaio.

Negli intenti dell’ideatore, «è importante utilizzare solo materiali bioedili a chilometro zero, che in Sardegna non mancano. Abbiamo le pietre calcaree, abbiamo la lana, diamoci da fare per dare impulso all’economia».

C’è da chiedersi: riuscirà l’Archimede sassarese, vestiti i panni di un novello Giasone, a mutare in vello d’oro il manto grezzo delle pecore dell’isola? Una prima risposta positiva è arrivata dall’Università di Cagliari, con il suo interesse ad approfondire gli studi delle invenzioni di Salis, che hanno certamente necessità di ulteriori sperimentazioni.

Il riconoscimento del brevetto infatti, è solo un piccolo passo nel complesso percorso di ricerca che si sta portando avanti.

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