Come nasce l’uomo e l’artista Pietro Sanna?
Nonostante tutto, nonostante i successi, gli insuccessi e le vicissitudini della vita io mi rendo conto che fin da molto piccolo ho venduto l’anima al diavolo per la musica. È qualcosa di più forte, di più grande e più profondo di me stesso. Ogni volta che scrivo una canzone sento la necessità di scrivere subito ancora. Quando poi scrivo in sassarese il lavoro è più intenso perchè devo cercare i “detti” originali, cerco di non sbagliare i termini, faccio ricerche approfondite. Non posso dire quando ho iniziato a scrivere perchè è un’esigenza nata d’istinto. Ho sempre amato molto leggere, in particolar modo i grandi classici: Dante, Shakespeare, Baudelaire, Blake… Questo amore per i versi, unito all’infanzia passata con mio padre che mi portava ad acoltare “i cantatori alla sarda”, hanno fatto nascere in me il desiderio di fare musica. Posso dire di avere una forte base, sia tecnica che pratica, sul canto sardo perchè ci ho lavorato molto anche se con qualche personalizzazione. Credo infatti che non si possa continuare sempre nella medesima forma ma sia giusta un’evoluzione anche nel canto tradizionale. Da queste basi ho portato avanti qualcosa di viscerale. Ascoltare Ginetto Ruzzetta, Tony Del Drò, Giovannino Giordo e tutti coloro che rappresentano la storia di Sassari è stato inevitabile per la mia formazione.

Il tuo percorso artistico quando e con chi è cominciato? E come si è evoluto?

Io ho sempre cantato. Da ragazzino cantavo le canzoni degli artisti più disparati: da Claudio Baglioni fino ai Bronski Beat, in una sorta di inglese “maccheronico” che non mi fermava dalla voglia di esprimermi comunque e di far emergere questo moto profondo. Ho iniziato poi con i Sonos de Manos, realizzando quattro album di grande successo. Il primo venne distribuito in diverse migliaia di copie che andarono a ruba, quando ancora c’erano le musicassette.

Da cosa nasceva il nome “Sonos de Manos”?

Lo abbiamo inventato perchè “suoni di mani”, questa è la traduzione, richiama le chitarre e la dimensione acustica del suono.

Una delle tue canzoni più belle è “A me figlioru”, come è nata?

È la prima canzone che ho scritto. Mi ricordo bene anche la data: 26 ottobre 1995. È nata dalla mia disperazione, dalla profonda tristezza e dalla malinconia che provavo . Da circa tre anni ero separato e quella è una canzone autobiografica dedicata a mio figlio e all’amore che gli porto. L’amore ha tante sfumature e a volte può prendere forma anche nella tristezza. C’è stato un periodo della mia vita in cui io non l’ho visto, per tante vicissitudini, poi sono caduti certi muri di orgoglio e di paura – quelli che non ti permettono di fare ciò che realmente desideri – e ora che ci siamo ritrovati abbiamo un rapporto bellissimo!

Dopo i Sonos de Manos come è continuato il tuo percorso artistico?

L’esperienza coi Sonos de Manos è stata molto importante e formativa ma posso dire di aver iniziato a crescere dopo lo scioglimento del gruppo. C’è stato un momento in cui i Sonos de Manos stavano diventando un “limite” perchè mi sentivo troppo chiuso. Questo non mi permetteva più di esprimermi nel modo in cui desideravo. Adesso ho la libertà assoluta che mi serve per essere musicalmente ciò che voglio e per attuare tutte le collaborazioni che considero arricchenti per la mia maturazione artistica.

Hai raggiunto un tuo stile e una tua identità. Quanto è importante per un musicista riuscire a fare questo nella propria libertà di espressione artistica?

È fondamentale, specie per una persona come me che non si accontenta mai dei traguardi raggiunti. Sono un perfezionista capace di riarrangiare un brano anche in dieci modi diversi nel tentativo di proporre sempre qualcosa di originale, in particolar modo quando mi esibisco dal vivo. Esprimermi da solista mi ha dato la possibilità di ricercare i musicisti migliori e poter lavorare con loro, fuori dalle dinamiche di una band ma nell’ampio respiro di una collaborazione nell’ottica di un progetto comune. Ad esempio per la realizzazione del mio ultimo album “Canzoni d’amori”, ho collaborato con Alain Pattitoni che è un grande jazzista, con Gigi Camedda dei Tazenda e con Francesco Pilu dei Cordas e Cannas, solo per citarne alcuni. La condivisione per me è crescita.

Come si è evoluta la tua musica nel corso degli anni?

Alcuni credono che io faccia folk, ma in realtà non faccio più folk da almeno vent’anni. Ho fatto evolvere la mia musica anche seguendo il mio personale pensiero. Ho notato reazioni diverse: chi non ha mai seguito il folk quando ascolta i miei brani – che hanno testi in sassarese o in sardo ma sonorità che spaziano dal funky al reagge, dal jazz al blues – rimane molto colpito da questa commistione che io trovo particolarmente raffinata; mentre gli amanti del folk tradizonale inizialmente rimangono un po’ spiazzati.

C’è qualcuno che ti ha ispirato a fare musica?

La mia ispirazione musicale viene da molto lontano. Ho perso mia madre all’età di dodici anni e quando subisci una perdità così grande in un’età così giovane, difficilmente riesci a superare tanti ostacoli e tante paure: soprattutto la profonda tristezza che ti accompagna. La mancanza dell’affetto materno ha creato in me una chiusura, uno scudo. In questo percorso, la musica ha rappresentato un riscatto, il rifarmi di tutto ciò che sentivo di aver perduto. Mi ha aiutato tantissimo. Ti faccio un esempio: tempo fa, all’epoca della mia separazione, ho girato un po’ l’Italia. Sono stato a Roma, dove sono nato e dove ho ancora dei parenti e ho trovato lavoro. Ma nel mio intimo non stavo bene perchè c’era qualcosa che mi legava alla Sardegna e sentivo forte il desiderio di tornare. Non sentivo la mia ex-moglie, non vedevo mio figlio e anche se in apparenza stavo bene – perchè avevo un lavoro e stavo per avere anche una casa – in realtà soffrivo. Alcune conoscenze mi portano da una signora di Guspini, una signora piccolissima con degli occhi neri che ti trapassavano. Non appena entrai questa signora mi guardò e disse: «Cosa ci fai tu qui? Non devi rimanere qua, devi ritornare in Sardegna! Ti succederà una cosa che coinvolgerà tantissima gente, il primo sarà tuo padre!». Continuò dandomi così tanti particolari che rimasi agghiacciato! Cose private che nessuno tranne me poteva sapere e poi mi esortò a pregare la Madonna. Nei giorni successivi capitarono un sacco di cose. Non potevo trattenermi ulteriormente a casa di mia zia che mi aveva temporaneamente ospitato, e mio padre mi chiamò per spingermi a tornare in Sardegna. In tre giorni la mia vita cambiò di nuovo completamente: tornai in Sardegna, fondai i Sonos de Manos, scrissi il brano “Mama Maria” – dedicata a mia madre – il cui aiuto costante mi accompagna. La porto sempre con me, tanto da avere il suo nome tatuato!

Hai citato “Mama Maria” che è uno dei tuoi brani più belli. Quanto conta per te il testo di una canzone rispetto alla musica?

Il testo deve piacermi, mi deve avvolgere. Devo innamorarmi del testo, sia che lo scriva io, sia che sia di un altro autore. Ad esempio otto testi del nuovo cd sono di Valentino Campus, un amico che si diletta a scrivere testi e pensieri e che io ho adattato alla mia musica. Un testo invece completamente mio è quello di “Vecciu”, brano dedicato a mio padre.

Hai avuto molte esperienze musicali in importanti manifestazioni, ce n’è una che ricordi in particolar modo?

Ce ne sono tante. Ma per me è importante suonare bene anche se davanti dovessi avere solo tre persone, perchè si formerebbe un’atmosfera intima. Ma è emozionante anche cantare davanti ad un pubblico molto numeroso. Non c’è una manifestazione in particolare che voglio ricordare. Io vivo tutto a trecentosessanta gradi.

Cosa hanno pensato i tuoi familiari quando hai iniziato la tua carriera di musicista?

Non saprei dirti di preciso. Mio padre inconsapevolmente è stato il mio primo maestro. Era bidello in una scuola ma faceva anche il muratore. Spesso mi portava con lui per insegnarmi e, mentre lavorava, cantava in sardo. Allora io cantavo con lui e se sbagliavo mi correggeva, oppure mi indicava i passaggi in cui dovevo modulare meglio la voce. Mi ha indirizzato tanto che ora, quando canto, ci metto sempre qualcosa che richiami il canto sardo. Senza volerlo esprimo la mia identità attraverso la mia voce; cosa fondamentale,anche se non è facile.

Quanto tempo separa questo tuo ultimo lavoro dal precende album che avevi realizzato e che differenze possiamo riscontrare?

Il precedente era del 2013 con i Bandidos, Musicas Liberas, che conteneva gran parte del mio repertorio più due o tre inediti. Questo invece è un album che arriva dopo quattro anni ed è composto interamente da brani inediti. Potrei anche far uscire un album all’anno ma ho necessità di un giusto tempo di “gestazione” per la cura dell’arraggiamento o la limatura del testo. Mi è capitato di passare anche cinque o sei ore alla ricerca del giusto vocabolo che esprimesse ciò che volevo dire in musica. Mi piace essere un perfezionista e per questo ci vuole tempo.

Nonostante la tua carriera continui a studiare sullo strumento?

Non mi definisco un chitarrista, sono uno strimpellatore. Però ogni giorno mi esercito per ore e scrivo continuamente. Lo studio e la volontà di rinnovarsi mi aiutano a perfezionarmi. Non voglio “ripetermi”, non è un termine contemplato nel mio vocabolario. Mi piace evolvermi, anche quando vado controcorrente, perchè è normale che il pubblico si affezioni a certi brani. Io però sento la necessità di non essere mai uguale al passato.

Leopold Stokowski, un grande direttore d’orchestra, diceva che il pittore dipinge su tela mentre i musicisti dipingono i loro quadri sul silenzio. Ti riconosci in questa frase?

Mi ci rivedo moltissimo. Rappresenta in qualche modo una parte della mia introversione. Sono dieci anni che non bevo più e sono astemio. Dal momento in cui ho smesso di bere per mia scelta, sono completamente cambiato. Non mi piace perdermi. Preferisco curare altri aspetti di me, guardare un bel film, leggere un buon libro, comunicare con gli altri. Anche in una donna non guardo più alla superficialità ma mi interessa che capisca ciò che io provo ad esprimere. Bisogna trovare anche un’identità mentale nell’altro.

E con Sassari che rapporto hai?

Sassari è la mia città, la mia vita stessa. Io esco e scrivo. Vedo la gente, la guardo negli occhi e trovo emozioni. Sono un grande osservatore e mi piace ascoltare le persone tanto da apparire forse troppo curioso. Ma è il dire della persona che mi fa scattare quel qualcosa che poi dà il via alla mia espressione artistica. Trovo ispirazione in tutto: nei profumi, nel caos del traffico, nelle strade. Nonostante non ci sia nato, la mia Sassari è quella del vecchio Centro Storico, quando ancora nei circoli si respirava cultura. La cosa che manca ora – e che invece c’era fino a dieci, quindici o vent’anni fa – è che nei circoli è difficile trovare una chitarra appesa. Si suonava, si creava aggregazione, si formava quell’atmosfera sassarese bella, vera, autentica… che fatico a ritrovare e che mi ha arricchito. A distanza di anni la considero ancora una scuola. Ho imparato a sperimentare. Prendo un testo, cambio la musica, come in un puzzle artistico continuo. In questo modo è nato anche il mio ultimo ultimo cd.

Soffermiamoci allora un po’ di più su questo tuo ultimo album “Canzoni d’amori”. Ce ne parli?

Sono molto contento di averlo realizzato perchè per me è una conferma di ciò che sono artisticamente e, nello stesso tempo, un punto di passaggio verso ciò che sarò in futuro. L’idea è nata un paio di anni fa da un sodalizio con Valentino Campus che si diletta nello scrivere. Ho scelto otto suoi scritti e li ho adattati alla musica. Mi basta un flash per capire quale testo può essere adatto al mio modo di musicare. Volevo mettere però anche qualcosa di mio, ed è nata “Vecciu” in memoria di mio padre, scomparso del 2005. Per dodici anni non sono riuscito a scrivere nulla che parlasse di lui poi, dopo la morte del padre di Roberta la mia ex-compagna – con la quale nonostante la rottura del rapporto sentimentale è rimasto comunque una grande stima, affetto e rispetto – qualcosa si è sbloccato. Ero molto legato a quest’uomo che andavo a trovare giornalmente nei suoi ultimi sei mesi di vita, quando era gravemente ammalato in ospedale. Dopo la sua morte, mi sono seduto e in una sera ho trovato le parole per scrivere una canzone dedicata a mio padre, scomparso molti anni prima.

Secondo te e la tua esperienza, si può vivere ancora di musica?

No, in Sardegna non ci sono produzioni. Vivere esclusivamente di musica vorrebbe dire arrancare. Mi è capitato di fare anche qualcosa fuori, ma è necessario comunque avere grandi agganci. Io comunque non ho mai cantato per desiderio di denaro. Non sono un venale. Io lo faccio per la gloria. Lo faccio involontariamente, inconsciamente… è quasi una missione. Certo è importante rientrare delle spese e dare il giusto valore al lavoro artistico ma posso dire di dormire sereno ugualmente.

Chi è in realtà Pietro Sanna?

Non lo so neanche io. Pietro Sanna è un “pazzo di musica” che ha venduto l’anima al diavolo e che ogni cosa che fa, la fa in funzione della musica. In qualche modo mi sento un predestinato. Quando morì mia madre andavo in giro con il mio cane e facevo lunghe passeggiate. Leggevo i nomi delle vie e, quando tornavo a casa, prendevo i libri di storia per capire chi fossero questi grandi artisti a cui erano state intitolate le vie e mi dicevo: «Anche io da grande voglio fare qualcosa per meritarmi il nome di una via!». Quando lo racconto può sembrare una cosa da pazzi. Ma il senso non vuole essere di superbia nel superamento di grandi artisti che hanno fatto la storia, ma più semplicemente l’esortazione a fare sempre meglio, perchè in fondo anche loro erano degli uomini come me. Quando una cosa la senti dentro devi esprimerla!

di Benito Olmeo
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