Francesca Iurato, ventiduenne, studentessa della Facoltà di Lettere Moderne dell’Università degli Studi di Sassari, si è laureata lo scorso dicembre andando a toccare un territorio fino ad ora inesplorato: il museo a cielo aperto Sardo, nella zona di campagna di Ossi, svelando l’animo del creatore dell’evento culturale correlato al luogo, Bruno Petretto, artista dalle multi sfaccettature e dal massimo grado d’introspezione. Conclusa la discussione della tesi sperimentale, i docenti della Commissione si complimentano e ringraziano con plausi l’artista presente nella sala. La votazione di 110 e lode ha suscitato indicibile emozione nel pubblico che ha assistito alla presentazione del lavoro. Attualmente, Francesca Iurato frequenta il primo anno del corso di Laurea Magistrale in Lettere, curriculum Industria Culturale e Comunicazione, proseguendo ed approfondendo il percorso artistico di critica sui vari media, sulle forme d’arte a livello museale e non solo, etno- antropologico e letterario. La scelta di questo titolo per la rivista, è determinato dal fatto che il Destino è stato il protagonista di questa vicenda, un po’ come le storie d’amore: una serie di coincidenze concomitanti hanno spinto la mia decisione di immergermi in questo mondo in cui nessuno prima si era mai addentrato. Tutto è nato da una semplice proposta della mia Professoressa delle superiori, Mariolina Cosseddu, che, una volta discusso con lei sull’argomento da me stabilito per la tesi, mi suggerisce un uomo, descritto da lei come un fauno del bosco, alquanto singolare come persona e come artista: Bruno Petretto, appunto. Al che il nome non mi sovviene. Ma successivamente, scopro con sorpresa di avere un’opera di Bruno a casa, regalataci da lui stesso anni fa in un incontro tra lui e i miei genitori tramite conoscenze in comune. In particolar modo, il destino si mostra prepotentemente nelle sorti alquanto singolari di questo luogo incantato: vent’anni fa un evento catastrofico, che in realtà si è rivelato salvifico, è piombato sul terreno dell’artista, una frana, una caduta di massi ha demolito parte dell’abitazione, è stato un momento critico, ma al contempo decisivo della sua vita che ha portato novità e cambiamenti anche e soprattutto nel modo di considerare le proprie prerogative. Da lì Bruno ha avuto l’illuminazione di progettare “Arte, evento e creazione”, una manifestazione nel corso della quale, nel periodo di Giugno, Bruno e una serie di artisti, alcuni storici, altri che si alternano ogni anno, sardi e non, espongono in questo spazio verde le loro creazioni: sculture, installazioni, ma anche performance teatrali, reading di poesie, spettacoli di danza in un circolo artistico-letterario qual è Molineddu. A Molineddu è un continuo oscillare tra casualità e progettazione, a partire dalle scelte di vita sino al riciclo che è ovunque a Molineddu, un riciclo perfetto da non sembrare tale. Il caso ha segnato, inoltre, la scelta del proprio utilizzo di fibre vegetali sui quadri.

Intervista a Bruno Petretto, 21 Maggio 2016, Molineddu

Francesca: Come ti è venuto in mente di realizzare quadri con fibre vegetali?

Bruno: È capitato ad Alghero, a Santa Maria la Palma, noto una corteccia di eucalipto. Sembrava cuoio, aveva appena piovuto da poco. L’ho toccata, era una meraviglia, un colore di quel marrone intenso che a me piace da matti. L’ho messa sotto pressa, in modo che non si sgretolasse e affinché non si sbriciolasse una volta asciugata. Un mio amico mi fa vedere un quadro: un paesaggio con casette, nella mia ignoranza, nonostante dicesse che era molto quotato, a me non piaceva affatto, sentivo un rifiuto già per quel tipo di cose, e senza neanche pensarci più di tanto gli ho detto “questo te lo faccio con corteccia!” ho fatto uno schizzo. Questo quadro ce l’ho dal ‘73-’74, ce l’ha ancora Assunta a casa.

Fatta questa premessa, andiamo a capire chi è veramente Bruno Petretto e come è stato inquadrato all’interno del mio studio. Nato a Giave nel 1941, autodidatta, inizia la propria attività nel 1975. Uno degli artisti più noti e stimati nel panorama artistico sardo. Da molti anni porta avanti una ricerca singolare e originale sui materiali vegetali che gli hanno procurato importanti riconoscimenti nell’ambiente artistico. L’arte di Bruno è strettamente collegata alla natura, al paesaggio in particolare della sua tenuta dove abita e si diletta ad operare, Molineddu appunto. La comunicazione fra la materia presente nelle sue opere parla un linguaggio universale, quello dell’arte, che ti prende per mano accompagnandoti in un mondo parallelo. Le domande personali sono strettamente collegate a quelle artistiche, perché la vita di Bruno è in funzione della natura, e l’arte a Molineddu vive grazie alla natura. Ci sono stati momenti in cui non mi accorgevo del soggetto del discorso: la natura, l’arte o Bruno stesso? Se la tesi fosse stata solamente d’ambito artistico avrei circoscritto la sua poetica; ma ciò che invece mi preme è quello di analizzare e sviscerare Bruno come persona prima ancora di divenire Artista, a dimostrazione del fatto che la sua vita è esemplificata nelle sue opere che, a loro volta, sono in perfetta armonia con la natura in cui risiedono. E ciò è stato meglio valorizzarlo con l’aiuto di un’altra disciplina, l’Antropologia, che con le proprie metodologie e fonti mi ha permesso di attuare un’indagine sul campo ex novo. Fino a non molto tempo fa solo pochi antropologi erano interessati allo studio dell’arte e, solitamente, al centro delle ricerche ci si è concentrati su oggetti (arte primitiva, arte esotica), quasi mai sul locale e sulla contemporaneità. L’arte è ovunque, in ogni società e, perciò, costituisce una categoria a sé con doppia valenza: semantica e tecnica. L’arte è antropologica perché è collocabile nel contesto sociale della sua produzione. Se le realizzazioni di Bruno hanno forza di coinvolgimento, l’arte e l’antropologia raggiungono un comune obiettivo, quello di manifestarsi ai più con i loro rispettivi messaggi da comunicare. L’arte in antropologia non può che essere associata agli aspetti socio culturali, alle storie di vita dell’uomo e ciò è una premessa indiscussa. ‘Un’antropologia dei sensi’, perché ingloba la partecipazione del tatto, della vista, del suono, del gusto, dell’olfatto, un po’ come le iniziative artistiche di Bruno, totalizzanti ed estreme, senza mezze misure.Quasi come una spugna mi sono impregnata di esperienze altrui, è l’impregnazione che agevola la stesura del resoconto etnografico. La mia esperienza è entrata in risonanza con quella del mio informatore tramite le nostre interazioni. In questo modo vi è una sorta di familiarizzazione con l’ambiente, di confidenza tale da immagazzinare nel nostro inconscio concetti apparentemente irrilevanti e privi d’importanza che andranno, invece, ad incorniciare il risultato della ricerca, oltre che come arricchimento personale. Questa è la differenza fondamentale tra un tipo di studio a tavolino e un lavoro in cui si è coinvolti in prima persona possedendo una conoscenza sensibile degli studi effettuati tramite sperimentazione. L’approccio constatato durante la mia ricerca sul campo è stato ermeneutico: le due visioni, quella mia e di Bruno, sono state poste sullo stesso piano, in una parità equa, in una continua e costante fusione degli orizzonti, il confronto tra i due punti di vista paragonato e posto sullo stesso livello. La carica iniziale per svolgere il lavoro è stata data dallo slancio emotivo che mi ha permesso di emergere sensibilmente e in modo critico. Lavorare sul campo mi ha coinvolto in prima persona in un mondo che ho toccato con mano e che mi ha permesso di riflettere allargando i miei orizzonti, estendendo un lavoro universitario a un’esperienza di vita. La sensazione più immediata che si prova nel momento in cui si assiste alle opere, alla natura ma soprattutto all’originalità di Bruno è la meraviglia, lo stupore, la sorpresa nel riconoscere un ambiente fuori dagli schemi, anti convenzionale e che profuma di innovazione. È stato determinante scegliere di fare l’intervista ufficiale, con tanto di registratore e telecamera una volta conosciuto meglio l’artista, dopo aver visitato Molineddu precedentemente perché ciò ha permesso a Bruno più libertà e spontaneità d’espressione per mostrarsi nella sua vera essenza. Per questo motivo, ho deciso di trascrivere l’intervista esattamente così come l’ho ascoltata e riprodotta, per far regnare la trasparenza e l’obiettività. Riporto uno stralcio di intervista che ho svolto con Bruno il 21 Maggio 2016 a Molineddu (Ossi): Francesca: Cosa significa per te avere un contatto con la natura? Cosa provi e trasmetti? Bruno: Sempre sentimenti positivi, gioia e felicità, se c’è qualcosa di negativo lo accetto come evento naturale. Per esempio, a me dà fastidio il vento, però mi rendo conto che serve per la vita, trasporta i semi, pulisce l’aria, lo accetto. Non sarei me stesso fuori da questo contesto. […] Mentre l’erba, a volte, mi viene voglia anche di accarezzarla, le palme sembrano delle mani, mi viene da salutarle e batterle le mani. Alcune opere sono intenzionalmente destinate ad esprimere arte nelle gallerie e nei musei, altre opere ancora sono state create con un differente scopo, non principalmente artistico, ma a cui successivamente è stato attribuito lo status di arte. E ciò lo potremmo approvare nell’arte di Bruno: un’arte che rasenta la naturalezza, che compie una metamorfosi durante la nascita, la crescita ma mai la fine del suo essere. La natura si vive e si accetta per come è e per quello che può offrire, nelle avversità e nelle situazioni propizie, come una sorta di accondiscendenza e di serena consapevolezza di sottostare alle leggi naturali. Un ritorno alla natura nei tempi odierni, una resistenza dinnanzi ai sistemi più innovativi. Bruno: Si tratta di assemblarlo con altre materie, vedere se sono in sintonia tra di loro, se parlano la stessa lingua. Bruno dona alla natura e al materiale che utilizza per le sue opere una nuova possibilità d’essere, un diverso diritto di esprimersi ascoltando dentro di sé ‘un istinto ragionato’, tra impulso e premeditazione. La figuratività non esiste più dal momento in cui i quadri stessi divengono realtà e non raffigurazione di quest’ultima. L’affermazione di Marco Noce, giornalista de “L’Unione Sarda”, evidenzia meglio questa particolare caratteristica di Bruno: «A chi guarda un’opera di Petretto viene voglia di toccarla, di annusarla come si fa con tutto ciò che è vivo. L’arte, per Petretto, non deve abbellire la natura ma essere la natura.» (Noce, 1998). Un’artista che espone quadri in mostre, in luoghi circoscritti, sebbene tecnicamente competente, non sarebbe mai riuscito a raggiungere un risultato come quello che è riuscito ad ottenere Bruno nella sua autonomia e unicità, con materiali di riciclo della sua quotidianità che si fondono in perfetta sintonia con l’ambiente circostante. Bruno potrebbe apparentemente essere frainteso e non apprezzato com’è degno di nota, ma una volta approfondito e scrutato con scrupolosa attenzione, sorprende positivamente. La soddisfazione più grande è stata quella di riuscire a rendere più estroverso Bruno, in un’intervista di oltre due ore ininterrotte, convenzionalmente formale che, alla resa dei conti, si è dimostrata una chiacchierata per conoscere meglio la sua arte e la sua persona. Nonostante la sua timidezza e riservatezza, il clima è stato sereno e pacato e il rapporto si è evoluto con pochi silenzi e molti sorrisi. Il fulcro centrale e il motivo d’ispirazione dell’artista è indubbiamente la natura nelle sue più variegate sfaccettature, dai suoi lati più ombrosi al fascino dei colori. La sua è un’arte work in progress, in continuo movimento, evoluzione e dinamicità. Potrei rivisitarla e notare differenze. La natura con le sue quattro stagioni è un ciclo in continuo divenire ed è ciò che più mi appassiona di questo lavoro: il fatto di non doversi adagiare o limitarsi nell’osservare un’unica realtà e un unico punto di vista, ma volgere i propri sensi verso l’interpretazione soggettiva e l’accettazione di visioni alterate e altre. Il filo percettivo è talmente labile che spesso è complicato riuscire ad individuare su cosa l’uomo interviene nella natura per renderla in parte artificiale e costruita, e quando, invece, la natura è l’unica e insostituibile protagonista della scena con una tale capacità intrinseca da non permettere alcuna azione umana. Il rapporto uomo-natura a Molineddu è in simbiosi, oserei dire panteistico. La creatività esplode nei corsi d’acqua, nelle rocce, nella terra, la Madre Terra. L’artista afferma: «La natura ha i suoi tempi, io attendo.» È come se, ascoltandolo, intuissi il rispetto, la venerazione e l’adorazione che ha Bruno nei confronti della natura, nel sapersi adattare ai tempi e ai modi che la natura ci offre, e questo, nel 2016, dove la natura viene commercializzata e sacrificata, crea meraviglia. Crea meraviglia conoscere un uomo radicato alle proprie radici, che prova un amore incondizionato per la natura che cura con dedizione. Bruno trasforma in arte quello che molti hanno considerato i rifiuti del progresso. Noi tendiamo al consumismo, Bruno al riciclo. L’operare a 360° gradi di quest’uomo, con passione e alla continua ricerca di nuovo materiale non lo rende consapevole dei suoi risultati, tanto è l’intensità del fare. La natura umana delle cose. Bruno dona valore alla quotidianità non descritta sui libri, ma vissuta e sentita dai più. Bruno ed io, durante le varie interviste, affrontavamo certe tematiche artistiche attorno alla SUA arte, ci accomodavamo su due degli anfiteatri costruiti e idealizzati completamente da lui, in piena immedesimazione e coinvolgimento. Il museo può provocare uno shock culturale che in antropologia designa quel senso di disorientamento, dispersione e perdizione momentanea dinnanzi ad un avvenimento o ad una situazione sradicata dalle nostre concezioni e dai nostri habitus mentali. Nei musei classici, una volta messo qualcosa sulla parete, questo qualcosa cambia il proprio statuto, poiché estraniato dal proprio luogo e dalla propria provenienza autentica e originaria. Questo, invece, non accade a Molineddu: l’opera non perde le sue origini, né tanto meno il senso e il significato attribuitogli al momento della realizzazione. Il desiderio di Bruno è quello di far ammirare le opere di Molineddu a Molineddu stesso, senza espropriarle dalla loro naturale condizione, vorrebbe che tutti i visitatori osservassero i risultati artistici all’interno del luogo ispiratore, del luogo che ha permesso e concepito ‘land art’. Non è possibile classificare a tutti gli effetti il museo come tale, l’ibrido è insito nella loro essenza. Un luogo così dispersivo e fuori dal comune, fa perdere la cognizione del proprio tempo, rendendo i momenti della visita surreali e estranei alla realtà di tutti i giorni. Il museo di Bruno è un’attrazione da più punti di vista. È l’unico museo sardo che accoglie visitatori e curiosi per più interessi: come tutti i musei è sede artistica e, quindi, appassionati d’arte e studiosi contemplano opere di varia natura. Ma la novità maggiore di Molineddu è l’aspetto intimo e personale della storia di vita di Bruno e, analizzando questo ambito, gli antropologi subentrano sul campo tralasciando l’aspetto artistico su un secondo livello e concentrandosi su Bruno come uomo. Trattandosi di museo a cielo aperto, amatori della vita campestre e della natura acclamano con stupore e meraviglia la tenuta di Bruno in un continuo incontro di più discipline, più passioni sentite e ricercate dai visitatori. Un circolo artistico e letterario completo che soddisfa più persone. Un museo che va oltre la classificazione e l’etichetta di “museo”, un bosco delle cose, un’opera che va oltre Bruno per quel che è divenuta: un’opera di una vita e vita di un’opera. Una persona da scoprire a poco a poco, che dinnanzi ad un evento simile, anziché farsi prendere dallo sconforto e dalla disperazione, pensa positivo e trova un rimedio nella bellezza della natura, anche quella che apparentemente distrugge ma che in realtà non fa altro che attuare il proprio stato d’essere. Museo a cielo aperto che integra il rapporto uomo/animali, un rapporto spesso alterato ed equivocato. Bruno, nella sua naturalezza, non considera diversamente un cane da una gallina, riserva la propria attenzione equamente, dividendosi tra i vari impegni. Animali spesso motivo d’ispirazione e soggetti principali delle opere di Bruno e di altri artisti che partecipano ad “Arte evento e creazione”. Ma Bruno tratta gli animali come tali, e la sua personalità spartana si manifesta su di lui e sugli esseri viventi che lo circondano. Il materiale viene codificato da chi sa leggere ed interpretare i messaggi della natura, e chi meglio di Bruno? Bruno è il mediatore tra la nostra visione e quella del Creato, è il nostro vocabolario che ci permette di conoscere parole e verbi nuovi di Madre Natura tramite le sue realizzazioni grazie fondamentalmente alla sua spiccata sensibilità. In un’epoca in cui la natura viene comandata e sottomessa dall’uomo, a causa dello sfruttamento senza freni e senza ritegno, Molineddu diviene il contraltare della realtà, diviene l’atto rivoluzionario, in cui Natura e Cultura collaborano pacificamente, l’uomo e la natura trovano un accordo e un compromesso benefico per entrambe le parti. La sua persona, tenera e aspra, un po’ come la campagna in sé, è coerente con la sua pittura, impropriamente detta perché Bruno non ha necessità di essere limitato in una categoria specifica, perché Bruno è scultore, architetto, artigiano, pittore a seconda del contesto, o forse niente di tutto ciò. I microorganismi presenti nei quadri sono immortalati, come in una fotografia, nella loro essenza. Odio e amore nelle opere di Bruno, il tessuto viene sì valorizzato, ma anche ricucito e lacerato, sminuzzato ed infine contemplato in maniera appagante. Materiale da riciclo, oggetti dismessi che lui ha sistematizzato e che ha trasformato in un senso estetico con delle forme stupende che poi sono le stesse forme che lui usa in natura, cerchi perfetti, queste forme che si armonizzano tra loro tramite l’uso dei materiali naturali: pelli, cortecce d’albero, quindi in questo nuovo gioco tra tecnologia, tra la tecnica e la natura, un discorso assolutamente in linea con tutto quello che succede nel contemporaneo oggi. La sua tenacia e determinazione, a volte crudeltà della realtà così com’è, gli permette di affrontare con fermezza i fatti che la vita pone davanti al percorso di ciascuno di noi. Grazie a questi avvenimenti Bruno è così, e grazie a questo modo d’essere la sua arte colpisce nel profondo dell’animo. Termini forti usati con naturalezza, Bruno non si sconforta dinnanzi a innumerevoli operazioni chirurgiche e all’evento catastrofico accaduto a Molineddu, anzi, come una fenice, che dalle ceneri rinasce, dalle macerie della frana, Molineddu dà vita ad “Arte evento e creazione”. Durante la giornata fuori porta, non solo ho approfondito l’arte di Bruno, ma ho anche intrapreso nuove conoscenze di altri artisti tramite le loro opere presenti a Molineddu e tramite i racconti di Bruno stesso, come per esempio, per citarne qualcuna, opere pittoriche raffiguranti Ophelie (Giusy Calia opere del 2011-2014) appoggiate sui corsi d’acqua che si distendono nel terreno. Giusy Calia: Io ho iniziato a lavorare sulle Ophelie nel 2002, è un lavoro in corso, dietro le Ophelie c’è una simbologia molto particolare, c’è un mondo altro in cui poter riversare i contenuti della mia poetica. Il prototipo delle Ophelie è pre-raffaelita, nell’Ophelia ci vedo il legame con l’acqua, con l’inconscio, con il liquido amniotico, con la maternità, con l’infanzia negata, con quello che è l’idea del non essere legata al suicidio, andando incontro alla morte ma rimanendo più viva, è come un fiore che è stato reciso però mantiene intatta la propria bellezza. Ho lasciato libera ogni modella di rappresentare l’Ophelia a seconda del proprio stato d’animo. Ophelia è legata alla natura, perché l’Ophelia muore in acqua, nel fiume, parte integrante dell’acqua, il suo letto, la sua culla, il suo grembo e la sua bara, ma allo stesso tempo è qualcosa che la trasporta come un viaggio nel mondo dei morti, l’acqua è un traghetto verso un altrove che è il suo sogno infranto. Perché a Molineddu? Perché Molineddu ha un suo fiume, un suo corso d’acqua, perché sono le custodi di quel luogo. Le tre Ophelie presenti a Molineddu sono tre versioni particolari: l’Ophelia Japan, un po’ contemporanea, un’altra è come se fosse Biancaneve che dorme ed è ricoperta di foglie, come delle piccole immaginette sacre. Mi sembra di lasciare un contributo a questo luogo, attraverso queste figure.

Francesca: Le ritieni reali o surreali?

Giusy Calia: Le ritengo sia reali che surreali, ottima domanda, reali è tangibile, non è visibile perché l’amore non si vede e non si tocca, un amore non corrisposto. Ophelia muore cantando sull’acqua inconsapevole o forse consapevole di Amleto, perché Ophelia si uccide, Amleto no, per questo è reale, tocca con mano l’amore e ne rimane bruciata, Amleto lo respinge e infatti ad Amleto rimane un teschio, figura della morte, mentre lei simboleggia la vita e l’eros. Sto iniziando a fare un lavoro su Bruno, il più particolare per me, perché volevo fare un omaggio al padrone di casa, a chi ha creato Molineddu, e ci sono state una serie di coincidenze per cui ho esposto il suo viso all’interno di un braciere e il viso di Bruno è stato bruciato da un braciere ed io, senza saperlo, ho dato a Bruno questa foto, e cosa abbiamo pensato con Bruno, che in realtà noi lo restituivamo alla vita, d’improvviso quel viso bruciato veniva mostrato, perché generalmente sai che chi ha una ferita di questo tipo tende a nasconderla, invece con Bruno l’abbiamo mostrata. Un altro lavoro, Bruno che dialoga con sua sorella, Assunta vista come la Madonna, c’è questo rapporto simbiotico con la sorella che tiene il corpo di Bruno in braccio, come la Madonna con Cristo e anche questa è una singolare cosa perché Assunta mi ha raccontato che è stata lei a tenerlo in braccio al momento della bruciatura, è come se ricomponessimo in qualche modo, con questa piccola installazione, ciò che è rimasto dell’arte/vita di Bruno. Francesca: Cosa è per te l’arte di Bruno? Giusy Calia: L’arte di Bruno è un’arte molto singolare. Bruno per me ha due caratteristiche importanti: una parte animalesca evidente, come se fosse un lupo, parte integrante della natura, in Bruno ritroviamo le caratteristiche degli animali selvatici: scatti, impulso, istinto predatorio, che ormai, nella nostra quotidianità, possiamo utilizzare in sedi separate, in lui sono molto esposte, per quello Bruno ha una doppia valenza e per alcuni può essere una figura molto forte, quello che mi fa avvicinare a lui è il rapporto che ha con le cose: non ha paura di avvicinarsi alle cose, lui si immerge nelle cose (sangue, pelli) tutto ciò che l’uomo occidentalizzato evita, lui invece ci si immerge, perciò è interessante come, attraverso i suoi occhi, avvertiamo primitivismo dello stupore dell’uomo che riconosce una pelle di una volpe e dirlo io che sono una vegetariana mi fa tanta fatica, oppure nei piedini d’agnello, non ha paura di scendere negli abissi, nel lato ombroso dell’uomo, questo lato fa parte di tutti noi, solo che molti di noi lo celiamo, perciò m’interessa vedere quello che Bruno fa per riconoscere quella parte di me che io tengo segregata e nascosta. Bruno non è scindibile da Molineddu, e Molineddu non si può scindere da Bruno, sono due cose uniche. Nel commento esaustivo di Giusy Calia trapela un senso di profonda conoscenza e ammirazione per la personalità fuori dal comune di Bruno, che viene sviscerata sino ad addentrarci nei suoi lati più profondi. Un’artista degno di nota per i suoi quarant’anni d’arte di mostre nazionali e internazionali, di cattedre e insegnamento tra istituti d’arte e Accademie, è indubbiamente Igino Panzino che, nel 2000, crea un’installazione tutt’ora visitabile a Molineddu, perché facente parte della sala interna. L’opera è suddivisa in due piani: in quello superiore una grande tegola di legno rettangolare, di un rosso vermiglio; in quello inferiore dei campanacci di un gregge di pecore sospesi in aria tramite lenza, essa collega la parte superiore a quella sottostante. Chi, una volta giunto sulle scale, sfiora i fili tesi da sotto, avverte il rumore dei campanacci, i quali emettono un suono differente a seconda dell’ordine in cui vengono mossi i fili, un po’ come qualsiasi altro strumento musicale: fusione tra due forme d’arte, l’installazione e la musica, un contrasto fra l’arte contemporanea, la materia, la modernità dell’astrattismo e delle geometrie per riemergere sul fondo delle radici antiche dei nostri avi: la pastorizia, gli animali di Madre Natura. 24 Aprile 2017 Francesca: Quanto l’arte può aiutare a far emergere la tua personalità? Igino: Anche nel caso in cui si abbia del talento, l’arte non è data di natura, al contrario, perciò è la personalità che ognuno di noi è stato capace di costruirsi che può aiutare a far emergere l’arte. Francesca: Per poter essere apprezzati nel vasto campo dell’arte contemporanea, occorre essere rivoluzionari o/e anticonformisti? Igino: Per essere apprezzati dall’attuale sistema dell’arte non occorre né essere rivoluzionari né anticonformisti, bisogna semplicemente saper interpretare le regole di questo sistema così profondamente legato al mercato; è sufficiente cioè mettere a punto un prodotto che soddisfi, non più una domanda culturale, ma una richiesta commerciale. Francesca: In che modo la tua arte si rapporta a Molineddu? Igino: Il mio rapporto con la manifestazione di Molineddu si sarebbe potuto esaurire con la realizzazione dell’installazione sit-specific, ancora esistente, che realizzai per una delle primissime edizioni del meeting. Ho sempre rinnovato la presenza soprattutto perché mi piace l’aspetto di festa di popolo che, con gli anni, Molineddu ha maturato, oltre che per l’amicizia personale con Bruno Petretto. Francesca: Suggerimenti per poter migliorare o aggiornare l’evento annuale dal punto di vista artistico? Igino: Accentuerei questo aspetto trasformandola in una vera e propria festa dell’arte, puntando anche su una dimensione fieristica dove, per esempio, ogni artista possa disporre di una propria bancarella (spazio) dove proporre quanto di più festaiolo e fieristico possa inventare. Parliamo adesso con Carmelo Iaria, autore di un’ampia fusione di elementi naturali, si rimette in gioco proponendo diverse opere nel corso degli anni a Molineddu: tre blocchi di pietra distesi sul terreno con all’interno dell’erba, a fianco una ciottola con un cucchiaio, in modo che la gente, una volta percorso quel tratto, possa e voglia annaffiare il prato. Un esempio di buona educazione civica. L’opera che quest’anno presenta, invece, è del 2015. “Il custode”, un mezzo busto dal volto scoperto eccetto negli occhi, inesistenti, che affiora nel bel mezzo del prato, al centro dell’anfiteatro. Un’opera scultorea enigmatica e di presenza scenica, all’apice della dignità. L’opera è sempre pensata in base al contesto in cui si trova, il tema è alquanto collegato all’ambiente circostante. Anche se inizialmente è nata per un altro fine, è stata riadattata come metafora dell’apparire scenico. Il volto coperto trasmette una dimensione negativa, maligna.

17 Giugno, Molineddu. Carmelo Iaria: Questo luogo, in certi aspetti, mi fa provare delle emozioni di forte inquietudine. Mi è sembrato giusto dare questa interpretazione, anche se poi ognuno vede ciò che vuole. La bellezza del corpo scultoreo contrasta con il volto cupo e arcigno. Francesca: Da quello che mi fa intendere, non considera Molineddu come un luogo incantato, idillico, bucolico? Carmelo Iaria: Niente affatto, è talmente carico di elementi così disparati fra loro che risulta tutto molto intenso e carnale, un po’ anche grottesco. Francesca: Cosa pensa di Bruno? Carmelo Iaria: Sono molto grato a Bruno, è lui l’opera d’arte in continuo divenire. Antonio Pirozzolo è uno di quegli artisti che mi ha colpito maggiormente, anzitutto perché essendo professore in un liceo artistico ha saputo spiegarmi diligentemente la sua arte pratica in rapporto alle sue conoscenze teoriche, ma anche per la sua gentilezza e cordialità. Grazie a lui ho potuto comunicare telefonicamente con Carmelo Iaria, suo collega, affini nel pensiero e nella manualità. Il messaggio di Pirozzolo riguarda la violenza sulle donne, i femminicidi, un tema spesso banalizzato e ridotto all’essenziale dall’esasperata diffusione di notizie. Ma l’arte figurativa permette di toccare con mano quel dolore, tramite i colori, le linee spezzate. Quest’installazione è al limite tra sacro e profano: due tavole spezzate da cucire, o per lo meno tentare di farlo, con un nastro inevitabilmente rosso. Nella parte superiore il ritratto di un parroco, che spesso osteggia la rottura di matrimoni ormai finiti da tempo con a capo uno dei motivi salienti, quello sulla violenza; dall’altro lato della tavola, il profano, o ciò che convenzionalmente è tale, la donna. Non tutto nella vita si può ricucire. È quando rifletto sulla profondità di queste opere che mi accorgo quanto Molineddu possa essere un arricchimento culturale per la nostra persona, il nostro animo. Un’immagine, una figura è più incisiva e comunica ai più. Pirozzolo, che collabora da una quindicina d’anni ad intervalli, prova un senso di tranquillità e con tale stato d’animo opera in relazione all’ambiente circostante. Anni prima aveva creato delle facce sporche, cariche, umide di terra prospera. La terra ora le ha inglobate in sé come fossero un’unica sostanza. Similare un’altra sua realizzazione: delle uova schiuse dentro, scalfite e incise per mettere in rilievo altri volti ancora. Antonio Pirozzolo: Lascio qui ciò che è degradabile, così la materia riprende ciò che è suo. Quasi alla conclusione della visita a Bruno incontro Piermario Laddomata, un artista alquanto versatile ed eclettico. Nel 2006 realizzò un’opera scultorea raffigurante una croce lavorata su pietra. La crosta della roccia è stata solcata. Piermario Laddomata: La cosa più brutta, con l’arte, diventa bella. La natura è un atto creativo. Inizialmente vi era una rete di metallo che assieme alla malta il maestro ha fuso per creare un corpo unico. I fori permettono di vedere da diverse prospettive, essendo situata in alto sotto “Sa Rocca Entosa”, nell’area devastata dalla frana. Oltre alle installazioni, Piermario si è dedicato anche alla pittura con “Verde Molineddu”, una tela espressionista che ricorda il colore predominante della campagna.

7 Maggio 2017 Francesca: Quanto può essere determinante la passione in ciò che si crea? Piermario: La passione è determinante per lo sviluppo di qualunque attività. Nell’arte si rivela essenziale unitamente ad altre qualità come, per esempio, la sensibilità. Con la passione si determinano il proprio lavoro e il proprio sviluppo, con la sensibilità un artista si diversifica dagli altri. Francesca: Come si è evoluta la tua arte nel tempo? Piermario: Il discorso della passione ritorna ancora: diciamo che all’inizio è stata la passione a portarmi a dipingere, a fare i primi lavori pittorici, e allo stesso tempo a studiare l’arte in generale. Poi la sensibilità personale mi ha condotto a fare esperienze diverse dal tradizionale discorso figurativo, come le ricerche materiche ispirate alle muffe o all’erosione del cantone di tufo. Studiando la realtà ho realizzato i primi lavori tra cui la “Finestra Murata”: 12 bassorilievi ispirati proprio al cantone del tufo, con la misura stessa del blocco (30×60), installati all’interno di una finestra. Il risultato estetico era proprio la raffigurazione, anche tecnica e realistica, della corrosione del cantone. Francesca: Questa finestra sarebbe stata consona a Molineddu. Una sorta di precursione artistica… Piermario: Si, qui stiamo parlando di circa 35 anni fa. Quando ho presentato questa “Finestra Murata” in una mostra al Teatro Civico di Sassari, il termine installazione si può dire che non fosse d’uso così comune. Stiamo parlando dei primi anni Settanta, una novità in assoluto. Francesca: Tra le tue opere esposte a Molineddu quale senti in modo particolare e perché? Piermario: Considerando che ho partecipato ad una ventina di edizioni dovrei fare un bel viaggio nel tempo con la memoria. Ricordo la prima o seconda installazione che ho fatto fuori a Molineddu. Avevo inserito in una roccia franata un dipinto tondo, il tutto incorniciato con un cerchio di metallo di quelli delle botti e un secondo cerchio che dominava sopra la roccia e creava un tutt’uno con essa. Francesca: Com’è nata l’idea di rendere Molineddu una vetrina naturale d’arte? Piermario: Ricordo naturalmente l’accordo con Bruno Pretretto, essendo lui il padrone della campagna, però a livello artistico curava il tutto Carmelo Meazza. Nacque l’idea di creare in questo spazio un movimento artistico di spettacoli, poesia e teatro. Per l’epoca fummo dei precursori e oggi è un’installazione che possiamo definire permanente perché sono oltre vent’anni che si fa. Qualità che troviamo sia a livello artistico che per la campagna curata da Bruno, eccezionale. Francesca: Parteciperai anche quest’anno e, nel caso, hai qualche anticipazione per noi? Piermario: Se non ci saranno problemi sicuramente parteciperò e vorrei continuare ciò che ho iniziato l’anno scorso. A livello di installazione, l’anno scorso ho proposto un’opera dal titolo “La natura e il tempo”. Per me e per chi la conosce il significato è molto importante. Sta a significare che il tempo passa e distrugge la natura. Nell’opera, oltre a rappresentare il tempo con un pendolo, avevo messo sottovuoto, in una busta, vegetazione e fogliame per rappresentare la conservazione che solo l’uomo può salvare al suo destino. Quest’anno vorrei realizzare una pala d’altare dalle dimensioni enormi che però sia costituita da un agglomerato, da un riciclaggio di pezzi di ferraglia rugginosa e quant’altro. Davanti a questa pala ci sarà sempre il pendolo che scandisce il tempo e la ferraglia rappresenterà ciò che succede col passare del tempo: le cose invecchiano e si distruggono. Per realizzarla, a giorni coinvolgerò due cari amici che fanno parte del gruppo di artisti partecipanti. Loro sono Oscar Solinas e Cristian Lubinu, ai quali chiederò una mano per eseguire il lavoro, in modo che quest’opera venga realizzata a sei mani. Il titolo sarà sempre “La natura e il tempo”, un percorso che ho aperto e che voglio che si evolva. Francesca: Pensi che la collaborazione tra artisti possa essere il futuro dell’arte? Piermario: Potrebbe essere, anche se è difficile perché ognuno ha le proprie idee e tende a glorificare la propria opera. Però nelle installazioni è importante collaborare; almeno io ho sempre tentato di intraprendere questa strada. L’antropologia è un viaggio e come tale considero il mio percorso. Molineddu compie un’azione difensiva e, così facendo, tende a far emergere i propri tratti distintivi come marchio d’identità singolare nel suo genere. Quest’esperienza è stata una scoperta e una riscoperta di valori e principi, è stato un lavoro totalizzante che ha coinvolto più persone attualmente viventi. Interessa e tocca più campi del sapere, quello antropologico e quello artistico, in un continuo aggiornamento e dinamicità, si fonda sulla ricerca personalmente vissuta a più fasi e periodi su un artista unico nella sua particolarità che ha creato un evento culturale mobilitante e fa da collante alle più disparate arti, visive e non. C’è ancora molto da approfondire su Bruno che, come un fiume in piena, manifesta la propria forza nei sorrisi delle persone dinnanzi alla spettacolare natura di Molineddu. Ciò che porterò per sempre dentro di me grazie a questo progetto? Indubbiamente un legame speciale con una persona speciale; le sensazioni inequivocabili che provo per Molineddu, posto incantato e magico della mia Terra; la mia prima esperienza di ricerca sul campo con la speranza che sia la prima di una lunga serie.

di Francesca Iurato                         ph. Donato Manca
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