Risulta difficile descrivere Luca Sanna, artista sassarese autodidatta. La prima volta che lo abbiamo incontrato ci siamo resi conto che, davanti a noi, c’era una persona sui generis, di quelle che capita poche volte di incontrare.

Limpido, quasi impacciato e con una grande dose di umiltà e disponibilità, le sue poche parole e i suoi silenzi ci hanno trasmesso più di una chiacchierata lunga qualche ora al bar. Ma forse è meglio fermarsi qui e lasciare a lui la parola perché possa raccontarsi e raccontare i suoi lavori. Niente, come loro, lo rappresentano al meglio.

Ci racconti come e quando ti sei avvicinato all’arte?

In realtà non ricordo bene quando ho cominciato. Non penso sia stato un caso il mio incontro con l’arte, che per me è un essere nell’arte. Il disegno mi affascinava già da bambino, alle elementari la maestra mi chiamava spesso per illustrare dei racconti alla lavagna. Non sono mai stato una persona loquace, probabilmente anche l’insegnante si è accorta di questo mio modo di esprimermi. Pian piano mi son reso conto anche io che disegnare era una cosa che mi faceva stare bene. Quindi potrai ben capire che non c’è stato un vero e proprio momento in cui mi sono avvicinato all’arte; è un po’ come se dentro di me esistesse qualcosa che si evoluta gradualmente. Disegnare è per me come la parola, la scrittura o la mimica per altri. Mi piace pensare che ci sia qualcosa che ha fatto sì che fossi in questo modo. Sono il terzo di cinque figli, quello che sta nel centro: si dice che il figlio di mezzo abbia delle doti artistiche. Non so se è realmente così, ma questa cosa mi ha sempre affascinato, quasi fosse un destino avere questa propensione. È una propensione naturale, quella che mi spinge. Anche se, ad essere sincero, ho avuto la fortuna di essere stato ispirato: I miei genitori avevano un amico pittore, andavano spesso a trovarlo. Mi ricordo benissimo lo studio, lavorava in casa. Ho passato moltissimo tempo in quel posto e ogni volta che si andava a trovarlo per me era come entrare in un negozio di caramelle. Mi permetteva di usare i colori e disegnare. Fantastico, non dimenticherò mai quello studio. Penso sia stato il mio primo approccio alla pittura. Certo, ero solo un bambino, poi nel corso della vita le cose cambiano, e le esperienze della vita hanno segnato il carattere di quel che facevo. Non so quanta consapevolezza avessi ma questa passione mi ha portato ad iscrivermi all’Istituto d’Arte. Purtroppo non ho portato a termine gli studi, attirato troppo presto dal mondo del lavoro. Lì ho comunque imparato molto, ricordo che il secondo anno ho realizzato uno studio su una composizione di colori, ne è venuto fuori un bel quadro di cui gli insegnanti sono rimasti soddisfatti, tant’è che il lavoro è stato appeso alla parete del laboratorio. Devo dire che è stata una bella emozione. È stato fantastico scoprire che quello che mi rendeva felice e libero piaceva anche alle persone intorno a me e, sebbene la vita mi abbia portato ad abbandonare la pittura per poi riprenderla successivamente, questa cosa mi è rimasta dentro. Considera però che il disegno non mi ha mai abbandonato.

Guardando le tue opere ci rendiamo conto che inserirti in un contesto artistico in senso stretto sarebbe banalizzare il tuo lavoro. Come nascono le tue idee e un tuo dipinto?

Tu mi parli di contesto artistico e io sorrido. Se devo dirla tutta io stesso ho difficoltà a definirmi tale. Per me dipingere è un’intima necessità, un modo di essere e di manifestarmi, quindi pensare a me stesso all’interno di un contesto artistico, e definirmi artista, mi imbarazza un po’. Comunque ti ringrazio, mi fa piacere. Come nasce un mio dipinto? Bella domanda, a cui è difficile rispondere. Butto lì due pensieri: devo dire che,
più che un’idea, a guidarmi è l’istinto. Quando mi metto davanti alla tela ho solitamente
un’immagine di riferimento, ma non è mai definitiva; mi serve come guida per esprimere qualcos’altro che emerge lentamente, pennellata dopo pennellata. Le mie opere, come ho già detto, nascono da un’esigenza, qualcosa che sento in maniera particolare, spinto da ciò che vedo quotidianamente nella vita o, ad esempio alla TV, nelle riviste e su tutti i media che, oggi più che mai, offrono spettacoli che colpiscono allo stomaco. Non posso affermare con sicurezza quale sia l’idea finale perché, oltre l’immagine che vado a raffigurare, c’è un’aggiunta emotiva forte: l’anima che intravedo oltre la figura. Forse l’idea esce nella sua completezza nel momento in cui l’opera è finita, come se uscisse semplicemente nel momento in cui l’ho liberata.

Vedendo diverse tue foto si nota che alle volte scatta in te come un’esigenza di avere carta e penna per buttare giù un’idea ovunque ti trovi (macchina, studio, giardino). Possiamo definirla una sorta di liberazione di espressione di uno stato d’animo che viene fuori?

Fantastico, hai colto nel segno! Per me disegnare è come respirare, un istinto al quale non posso rinunciare. Come già detto, questa è un’intima necessità che mi viene naturale, quindi appena mi trovo tra le mani un foglio di carta e una penna mi viene istintivo “scarabocchiare” o buttare giù qualche idea. Molto più semplice con carta e penna che mettersi a dipingere in macchina o alle poste. Naturalmente, come hai fatto giustamente notare, questa è anche una liberazione. Il mondo ci colpisce, è spesso crudele. Non sono uno psicologo, quindi non posso sapere cosa succeda dentro di me, ma certe immagini devono concretizzarsi nel foglio, le idee e i sentimenti devono uscire. Disegnare mi fa stare bene.

Stati d’animo, personalità, interiorità e soprattutto forte gestualità: è tutto ciò che traspare dalle tue opere, spesso “violente” a livello di immagine e concettualmente pure. Sei un testimone della realtà e del sociale, è possibile definirti così?

Sai, Benito, la vita a volte ci mette davanti delle prove durissime. Con il tempo ho imparato che è possibile superarle. Certo, mi rendo conto di essere fortunato, in fondo ho la possibilità di esorcizzare tutta l’inquietudine e la sofferenza dovuta ai drammi della vita grazie a questo modo di esprimermi, grazie al disegno e al dipinto. Da diversi anni sono entrato in un mondo che ignoravo, quello della disabilità. Questa dimensione parallela, come se fosse una realtà a parte, separata, mi ha aperto il cuore e la mente. Mi son reso conto che è difficile da comprendere se non siamo costretti a immergerci e non ne diventiamo parte integrante. La vita “normale”, fatta della quotidianità delle persone “normali”, è spesso frutto di una esclusione; preferiamo non vedere, soprattutto se possiamo evitare. Nella maggior parte dei casi la disabilità suscita pietà ma non una reale interazione con quel mondo. Si crea un forte sentimento all’inizio, che però viene dimenticato in fretta. Capita anche che si bolli quella realtà come negativa, come aberrazione, quasi fosse una colpa di chi ha la sventura di non essere “normale”; si accantona la sostanza per ritornare ad una forma rassicurante, ad una comunicazione canonica. La vita di chi ha disabilità invece è una vita a pieno titolo, e fa parte della realtà, ha un modo di esistere differente, e che spesso ha bisogno di più attenzione e comprensione, di più impegno. Rapportarsi con chi ha questo genere di difficoltà, questa “anormalità”, non è facile, si vive in un mondo fatto di silenzi, di discorsi bizzarri, di sguardi che non si incrociano. Io, però, penso che se imparassimo a capire e interpretare
questo modo di comunicare, scopriremmo un universo molto più vasto di quello che appare. In questi anni ho scoperto che il loro è un mondo parallelo, fantastico, pieno di emozioni fortissime, un mondo a cui bisogna affacciarsi in punta di piedi.

Bambini, persone deformi, corpi violentati dal dolore, due gambe che percorrono una
strada… sono loro che abitano i tuoi dipinti. Entriamo allora nel dettaglio del tuo lavoro, raccontaci le persone che lo abitano.

Sono persone senza voce, senza parola, come prima ho spiegato, che comunicano in modo differente e che sono essi stessi simbolo della loro esistenza. Sono quelli che non vengono considerati, gli emarginati, quelli che definiremmo “borderline”. Sono loro, per lo più, che abitano i miei lavori, queste persone insieme con il disagio che si portano dietro come un bagaglio ingombrante. Un disagio e una sofferenza che sono difficili da spiegare e spesso per farlo enfatizzo alcuni caratteri, metto in rilievo le “anomalie” che però fanno parte della vita. Dipingo e disegno quello che esiste, anche se spesso è estremamente triste.Vorrei poter parlare di ogni singola persona che ritraggo, di quello che mi trasmette della sua unicità, e ciò che mi trasmette quel mondo di cui fa parte, ma mi riesce meglio disegnarlo.

Tra i tanti lavori (tutti rigorosamente senza titolo), uno ha catturato la mia attenzione in modo particolare: due gambe che vanno verso l’infinito e oltre, lasciando in me un senso di speranza. Mi racconti il tuo punto di vista su questo lavoro?

Questo lavoro è uno degli ultimi. Tra gli ultimi nel tempo, ma tra i primi per importanza. A questo lavoro tengo particolarmente perché è uno dei più intimi, è una sorta di preghiera per il futuro. Naturalmente, come qualsiasi cosa intima, è difficile per me da spiegare con parole, ma ci proverò. Ognuno di noi deve essere libero di intraprendere le proprie strade, potersi realizzare, poter essere felice, soddisfatto di sé, vivere pienamente la propria esistenza: questo auguro a chi mi è caro, ossia che riesca a intraprendere la propria via, che abbia davanti a sé la speranza. Purtroppo non è sempre così. In quest’opera il significato si concentra per lo più nell’intreccio di linee, un groviglio che segna una strada contorta, difficile da percorrere. Quindi c’è un contrasto tra le linee ordinate delle gambe, con i piedi scalzi, che sono il simbolo della nostra libertà, e i segni scompigliati e faticosi del percorso. Naturalmente, dietro c’è la preoccupazione per il futuro, per le difficoltà che so dovranno affrontare persone a me care: le difficoltà dovute
ai limiti di un approccio diversamente normale rispetto ad un mondo vestito di normalità.

«Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima.» Questa frase di George Bernard Shaw penso sia l’essenza della nostra discussione. 

Hai perfettamente ragione, con i miei lavori riesco a far emergere la mia anima. Però questo specchio riflette anche l’anima che scorgo nelle persone che vengono ritratte; è la mia anima che sonda le anime delle persone che mi trovo davanti e le interpreta attraverso i colori e il tratto.

Per finire, mi racconti chi è in realtà Luca Sanna?

Io non saprei descrivermi, come faccio a dire chi è Luca Sanna? In fondo sono una persona come tante. Con la sua vita, i suoi amici e una famiglia che mi dà tanto. Questa è la mia fortuna. Mi ritengo una persona molto sensibile e cerco di esprimere quello che provo ma nello stesso tempo sono anche molto timido, e già quel che ti sto “confessando” mi imbarazza. Infatti le parole che uso già mi stanno strette. Se dovessi descrivermi, forse sarebbe meglio farlo con un autoritratto.

di Benito Olmeo                  ph. DonatoManca
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Un commento su “LUCA SANNA – LA RIVOLUZIONE NEL GESTO

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