di Benito Olmeo

«Per non tediare i lettori voglio parlarvi di quest›ultimo lavoro neanche tanto recente: “Canzoni dal basso” del 2008. E’ in fondo un resoconto del momento personale… intendo di come girava la mia vita appesa ad un basso e ad un frigo pieno di lattine vuote. Tutto nasce dal fatto che facevo il camionista andavo a sbarazzarmi di resti di vita altrui, così iniziai a salvare qualche detrito sonoro come mi piace chiamarli, salite pure sul camion. Se vi va…»
Gavino Riva

Ci parli delle tue origini artistiche? Quando hai iniziato a interessarti alla musica?

Praticamente da sempre. Il primo ricordo risale a quando avevo più o meno 3 anni. A casa avevamo una tata. Io non volevo mai mangiare e allora lei per convincermi metteva la musica, mi prendeva in braccio e mi faceva girare. E’ una delle prime immagini che ho: la casa che girava, io che sentivo la musica e aprivo la bocca, la tata mi dava da mangiare e la musica mi faceva stare bene.

Quanto ha influito nella tua formazione musicale il cantautorato folk locale?

Non saprei risponderti. Sono tutti artisti che ho sempre conosciuto perché sono legato a Sassari ma devo dire che non l’ho mai frequentata dal punto di vista dell’ambiente culturale musicale. Quando vennero fuori i grandi nomi del genere folk io ascoltavo e suonavo già quello che oggi viene definito “progressive” quindi ero un po’ lontano da quelle sonorità. Però devo dire che è un tipo di musica che va riscoperta e rivalutata, perché la musica sassarese si rifà un po’ alla musica francese, ha delle contaminazioni spagnole per cui è inevitabile non incrociarsi in qualche modo.

Hai alle spalle una carriera importante, grosse collaborazioni, nuovi progetti. Nonostante questo si può dire che hai l‘animo dell‘“outsider“? Il tuo essere fuori dal coro, non avere sempre il riflettore puntato ha influito sul tuo modo di fare musica?

Il mio ruolo è questo. Sono nato bassista e mi piace tantissimo. Il basso è quello che sta sempre dietro. La chitarra ha troppe corde, e sono troppo sottili, è uno strumento troppo “petulante” (ride, n.d.r.). Non mi piace particolarmente apparire. Ho fatto di tutto per non essere famoso. Il ruolo del bassista è quello del gregario. Se parlassimo di calcio direi che amo molto stare a centrocampo. Una band è come una squadra. Ci deve essere il front-man e tu devi essere la spalla del front-man. Non devi essere in rivalità con lui altrimenti non funziona e il gruppo si scioglie perché ognuno inizia a voler andare per la propria strada.

Dopo aver raccolto esperienze musicali varie entri a far parte dei Metrò, collabori con la formazione di Piero Marras nel periodo in cui è al culmine del suo successo, poi entri a far parte degli Amanita che tu stesso definisci un passaggio fondamentale del tuo percorso musicale, mi approfondisci questi momenti musicali?

Alla fine anni ‘70 si facevano le piazze e noi eravamo un gruppo di piazza. All’epoca Piero aveva registrato il primo disco e aveva bisogno di un gruppo che lo sostenesse nelle esibizioni live. Scelsero noi e lo accompagnammo per due stagioni. Finito quel periodo collaborai con un altro gruppo che si chiamava Mediterraneo. Il cantante era Gianni Virdis, facemmo diverse stagioni insieme. Poi mi stancai di suonare nelle piazze perché stavo cercando altro e mi sono preso un po’ di tempo per pensare a cosa volessi “fare da grande”. Nel frattempo Tore Mannu mi chiamò in sostituzione di un altro bassista che era andato via e da lì è iniziò un’avventura che porto i Metrò a registrare un disco vincendo il Sant’Anna Arresi, a partecipare al primo Festival Jazz di Berchidda che allora era giovanissimo e in seguito a un bel tour regionale sfociato al Teatro Verdi con la collaborazione di Billy Cobham alla batteria, una grandissima guest-star. Sul palco mi giravo guardavo il batterista e mi dicevo: « Sto suonando con Billy Cobham!» Era l’epoca in cui io facevo “fusion”, allora lo si chiamava semplicemente jazz, eravamo un po’ sull’onda dei Weather Report, del primo Miles Davis. Era il momento in cui Enzo Favata iniziava a fare le sue prime sperimentazioni, Paolo Fresu e Gavino Murgia suonavano ancora in orchestra… Sono stato testimone di una fucina di musicisti, anagraficamente più giovani di me, che però facevano già parte del jazz! Finì anche quel periodo, le strade si divisero, punto a capo. Ebbi un altro periodo di silenzio poi, all’inizio anni ‘90, ripresi a suonare nei locali di Sassari. Era nato l’Atrium e prima ancora il Las Vegas in via Oriani. Mariano Melis mi mise un basso in mano, mi chiese di suonare e da quel momento ogni fine settimana ero lì. Inizio la vera musica dal vivo nei locali. Prima esisteva solo il piano bar, noi invece abbiamo iniziato a fare quello che oggi succede normalmente in tutti i locali. Dopo un altro periodo dedicato a quello che definirei il mio “letargo costruttivo”, squillò il telefono e venni chiamato a sostituire un bassista. Una delle costanti della mia carriera è sempre stata quella di arrivare in sostituzione di qualcuno. La trovo una cosa davvero bella perché poi ho sempre modificato comunque il mio percorso e quello delle persone con cui ho collaborato! Con gli Amanita era nato un bel sodalizio perché oltre alle cover iniziammo a fare delle cose nostre che sfociarono in due album. Arrivo Sanremo Rock, le collaborazioni con alcuni gruppi della penisola con i quali siamo ancora in contatto e molte belle esperienze anche al di fuori dell’isola. Poi anche in questo caso le strade si sono divise.

Hai deciso in seguito di lavorare come solista e nel 2008 hai inciso un album molto intimo e rappresentativo dal titolo “Canzoni dal Basso“. Ci racconti come nasce e si sviluppa questo album?

Non posso dire di aver deciso di lavorare come solista. Come dicono i poeti, sono le canzoni che ti trovano. E’ stato come aprire una cassapanca e cominciare a prendere dei ricordi. Quando inizi ad avere una certa età, cominci a guardare le vecchie foto. Questa cosa mi ha molto stimolato. In quel periodo lavoravo per una impresa edile come camionista. Trasportavo dei materiali e poi portavo via le demolizioni. Guardavi quegli scarti che erano stati la vita di qualcuno e trovavi cose che quasi ti dava fastidio buttare, alcune le ho trasformate in strumenti. Nelle pause di tutti i viaggi che facevo buttavo giù dei discorsi, delle riflessioni. Dopo circa un anno avevo accumulato un sacco di materiale. Nel frattempo registravo anche musica ma senza mai aver pensato di poter legare le due cose. Mi sono ritrovato ad avere il sonoro e i testi e ho iniziato fonderli. Non sono proprio canzoni “ritornello strofa ritornello”, non sono strutturate in modo classico, tranne qualche cosa. Sono delle considerazioni in musica di quello che è stato quel periodo.

Mix di generi e molto impegnato, un pezzo ha suscitato in me particolare attenzione: “Vuoi votare per me”. Quasi un grido di rivalsa. Come nasce questo pezzo?

Nasce da ciò che vedi quando ti guardi intorno, da ciò che succede. Adesso per esempio siamo sotto elezioni e già cominciano tutti a spararle sempre più grosse. Siamo schiacciati da da questo. Non sono l’unico che si lamenta credo politicamente da qualsiasi parte ci sia una maniera di amministrare la cosa pubblica che si è rivelata sbagliata e profondamente ingiusta. La musica invece è salvifica, nel senso che davvero può salvare le persone e non le uccide. Non è vero che la musica fa male! Sembra quasi che ci sia un terrorismo contro la musica, “bisogna abbassare il volume”, “la musica rock non si fa”… Ci sono ancora molti pregiudizi. Si ha paura perché la musica fa pensare, la musica fa ragionare e sa coinvolgere le masse. Io che sono un vecchio di matrice hippie ho sempre creduto che la musica possa fare la rivoluzione, e ci credo ancora. Con la musica si arriva dove non riescono ad arrivare le istituzioni. Il potere cerca di sminuire questa forza inglobandola in un sistema di potere perché deve gestire e indirizzare le masse.

Ma veniamo al presente, ormai da più di un anno sei in tour con Francesco Piu. Cosa significa calcare palcoscenici di livello internazionale e soprattutto cosa ti sta regalando a livello umano questa esperienza?

Sono stato molto contento che Francesco mi abbia cercato anche se la prima cosa che gli ho detto è stata: «Con tutti i bassisti che conosci, sei venuto a cercare proprio me?» A parte gli scherzi sono molto onorato, la cosa sta continuando e ci stiamo divertendo moltissimo. Sono sinceramente contento per lui perché se lo merita! Sia artisticamente che dal punto di vista umano è una persona incredibile. Non c’è mai stress, né quando si sale sul palco, né quando ci si sveglia la mattina e magari si devono fare 500 km. Non si lamenta mai, è veramente un grande! Devo dire la verità, Francesco mi ha dato molto e questo è inevitabile quando hai un confronto umano sincero con una persona. Ci si scambia, è una cosa osmotica! È bellissimo perché c’è un’empatia pazzesca nel gruppo. Ci sono tutte le fasce di età: il batterista ha 22 anni, io ne ho 63, Francesco ne ha 30, il tastierista ne ha 35… siamo tutti diversi e diverse generazioni, ma la musica unisce tutti e la cosa bella è che abbiamo dei riscontri fantastici! Da “gregario” ci tenevo che Francesco facesse sempre un’ottima figura e mi sono adoperato per questo. E’ questo il bello, altrimenti non c’è divertimento. Se si entra in competizione si smette di divertirsi.

Raggiungere un proprio stile, un‘identità ben riconoscibile, quanto è importante per un musicista?

Non so che cosa risponderti di preciso, Credo che lo stile dipenda solo dal “suonare”. Quando suoni sei te stesso e non puoi essere altro. Chiaramente ognuno ha i propri modelli di riferimento, nessuno ha inventato niente L’essere umano è un primate evoluto che sa che bisogna copiare dall’altro. Però in seguito è inevitabile sviluppare un proprio modo di suonare che, soprattutto per noi sardi, è molto caratteristico. Noi non abbiamo delle scuole, non abbiamo dei maestri che, come succede magari altrove, allevano generazioni di musicisti influenzati dallo stile del maestro di riferimento. Secondo me è un po’ pericoloso perché in questo modo si fa fatica a trovare se stessi mentre noi, essendo la Giamaica dell’Europa, abbiamo sviluppato un modo di suonare più personale. La cosa più alta che un artista può raggiungere è quella di essere riconoscibile dal primo ascolto. Pensate alla chitarra di Clapton, o di Hendrix. Sai subito che sono loro a suonare anche se non conosci il brano. E’ ovvio che sia una cosa difficile ma bisognerebbe ricordare che suonare vuol dire anche guardarsi dentro. Se tu ti guardi dentro e sei vero e autentico, puoi anche saper fare solo quattro note ma se quelle quattro note le suoni con “verità”, nessuno ti può dire niente! Tu esprimi ciò che sei e sei riconosciuto per quello.

Gavino Riva, artista poliedrico, se dovessi guardati allo specchio e autodefinirti cosa diresti? Chi è in realtà Gavino Riva?

Sono uno senza fissa dimora! Non ho una fissa dimora musicale così come non ho una fissa dimora nella vita perché mi piace mettermi sempre in discussione. A volte viene facile, a volte no. E’ come la vita, è come i cioccolatini di Forrest Gump. Bisogna vedere cosa peschi; un giorno peschi bene, un giorno peschi male… ma non bisogna abbattersi! Alla fine sono sempre cioccolatini, magari cambi gusto!

foto: Giampiero Dore

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