di Benito Olmeo

Quando e come nasce l’esigenza della pittura nella tua vita?

Molto tardi, a 24 anni, nel 1990. Ho iniziato a “pasticciare” durante il periodo universitario sassarese, così per gioco. Tutto è nato dal fatto che avevo smesso di suonare la batteria ma sentivo l’esigenza di fare qualcosa di creativo. Franco, un caro amico che viveva con me a Sassari, mi ha suggerito di provare a dipingere. L’ho preso in parola.

La tua prima mostra si svolse a Bologna nel 1998, ci racconti cosa è successo e come mai proprio a Bologna?

In quel momento ero riuscito già a fissare alcuni dei punti che avrebbero contraddistinto la mia poetica negli anni a venire, un mix di influenze visive, musicali e letterarie che, in modo naturale, avevano determinato la mia idea di opera pittorica in bianco e nero di impianto mediale. La casualità mi ha aiutato. Non avevo mai esposto prima, feci vedere le foto di alcune opere a un amico che abitava nel mio palazzo a Tempio Pausania e che studiava a Bologna. Con la fidanzata ( bergamasca di origine siciliana), studentessa di storia dell’arte, si muovevano nell’ambiente underground bolognese, centri culturali e locali giovanili. Mostrarono le mie opere e fui subito inserito in una buona collettiva curata dal torinese Edoardo Di Mauro. Da lì altre collettive bolognesi da Zoo artecontemporanea, al Campo delle fragole e al Sesto Senso e una personale, sempre al Sesto Senso.

La mostra, che ha tracciato un solco profondo nella tua carriera artistica la fai al MAN di Nuoro (allora diretto da Cristina Collu, e la direzione critica di Claudia Colasanti), nell’ambito della rassegna MANovre, cosa ha significato per te questo passo e sopratutto ripresentarti nella tua isola?

Ha significato tantissimo. La personale al MAN mi ha dato lo slancio di cui avevo bisogno, una fondamentale investitura. Lavorare con Cristiana Collu, venire a contatto con una grande professionista dell’arte contemporanea capace di gestire con grande efficacia un museo fortemente propositivo e innovativo, artefice di mostre e eventi di altissimo livello è stato fondamentale. L’inserimento in una programmazione simile mi ha messo di fronte a un impegno totale: per circa quattro mesi ho lavorato giorno e notte a sette grandi tele alla ricerca di un limite, sapientemente affiancato dall’assistenza di Cristiana e dalla critica Claudia Colasanti che, per l’occasione, scrisse un testo bellissimo.

Sembra quasi che tu abbia una doppia anima artistica: quella che affronta equilibri in bianco e nero e quella della pittura acrilica che da sfogo ai tuoi colori sempre vivi.

Questa è un’ambivalenza che si è palesata nel corso di tutto il mio percorso creativo. Sino a poco tempo fa davo forma alle idee con una pittura caratterizzata, come scrisse una critica d’arte, da un “rigoroso bianco e nero”. Ogni tanto mi lasciavo “tentare” da una cromia più varia ma con risultati che consideravo altalenanti. Il Black & White mi è sempre piaciuto perché ti costringe a concentrarti sull’essenza dell’immagine, devi muoverti all’interno di una gamma di colore ridotta, più fredda e malinconica e, personalmente, questi sono due dei motivi che me lo fanno amare. Ma, come è logico che sia, arriva un momento in cui si deve mutare e questo periodo sta assumendo tale veste, è come se si fosse sbloccato qualcosa, sto ampliando i punti di vista e realizzando una pittura per me nuova, che mi sta soddisfacendo.

Se devo essere sincero un tuo lavoro in particolare ha colto la mia attenzione, “A Broken Promise 2008” un bianco è nero molto significativo, una stazione, una ragazza che rivolge lo sguardo a qualcosa che lo spettatore non vede, una solitudine anche se nella stazione sono presenti altre persone. Mi racconti l’opera?

Con quello che dici cogli molti degli aspetti che costituiscono l’ossatura concettuale dell’opera. Solitudine, speranze, promesse, mancanze, delusioni… come presenze nelle vite di tutti. Ho messo assieme fattori simbolici e formali capaci di generare determinate sensazioni: la figura di profilo isolata, una stazione, una forte prospettiva, un treno, presenze lontane.

Sempre per ciò che riguarda “A Broken Promise” c’è qualche riferimento intimo o il quadro è un lavoro di pura fantasia?

Non c’è un riferimento intimo diretto. Ciò che ho cercato, quando ho realizzato il progetto del quadro, era la formalizzazione di un impianto visivo che potesse efficacemente raccontare sentimenti comuni, che tutti proviamo.

“Quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa” da questa frase di Edwar Hopper traspare una certa malinconia e solitudine interiore. L’ho citata perché i tuoi ultimi lavori sono abitati da persone comuni che vivono la quotidianità, sembrano ripresi da vecchi film anni ’50/’60, è un caso o è qualcosa che ti porti dentro anche tu e la metti su tela?

Indubbiamente c’è del personale. Se lo fai autenticamente porti sulla tela ciò che sei. Non è un fatto meccanico o il frutto esclusivo di decisioni a tavolino. Credo sia, più che altro, la commistione di istinto e razionalità, la ricerca di una propria, personale metafora, l’eterno, umano, intrecciarsi di natura e cultura.

L’arte cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto?

Mi ha dato la possibilità di vivere come volevo, in maniera realmente creativa, in un percorso a volte difficile (ma per chi non lo è?), conoscendo persone, luoghi e situazioni interessanti, nel tentativo di produrre stupore in me e, spero, negli altri. Non credo mi abbia tolto niente.

Ci racconti un aneddoto della tua vita artistica?

Più che un aneddoto una bella sensazione: quella che ho provato quando mi hanno comunicato che avevo vinto il Premio Marchionni 2018 per la pittura.

“Il mondo è una maschera, il volto, il vestito e la voce è tutto finto; tutti vogliono sembrare ciò che non sono, tutti si ingannano e nessuno si conosce” Francisco Goya la pensava così, tu cosa mi puoi dire in merito quest’affermazione?

Aveva ragione. Oggi più che mai.

Tolte le maschere e spogliati da ogni formalismo, mi dici in realtà chi è Gavino Ganau?

Avendo ragione Goya, essendo noi forma e sostanza, trovando difficile, se non impossibile, mostrare ciò che realmente siamo come posso io contravvenire a questa impossibilità?

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